Alfabeta - anno VI - n. 59 - aprile 1984

r P oco o niente sappiamo della vita di Boezio di Dacia. Di nazionalità danese (il termine «Dacia» indica per altro anche Svezia e Norvegia), ha però vissuto la sua esperienza intellettuale a Parigi, la città 'madre delle scienze', alla facoltà delle Arti, dove negli stessi anni (1270-80) altri «daci» (Martino, Simone, Giovanni) si segnalavano in ricerche logico-linguistiche. Anche Boezio si è occupato di grammatica e logica, ma il suo curriculum di filosofo (che coincide nel Medioevo con quello di professore di filosofia) ha affrontato, oltre alle 'scienze delle parole', anche le 'scienze deJle cose'. Come queJle, e forse anche più, queste erano per lui, come per i suoi contemporanei, racchiuse e trasmesse in testi precisi, e il nome del libro e quello della scienza coincidevano senza residui: Fisica, Generazione e Corruzione, L'anima, Sul sonno e sulla veglia. Meteorologici, Metafisica. Leggerli e spiegarli è stato il compito di Boezio, e questi sono i titoli dei suoi scritti. alcuni pervenutici, altri solo ricordati, per ora, da antichi cataloghi. Ma non è affatto il caso di parlare di scolasticismo ripetitivo: non solo perché l'ermeneutica dei testi varia da interprete a interprete, nemmeno perché segmenti della fisica aristotelica più degli altri illuminanti e problematici aprono agli intellettuali delle università avventure extratestuali particolarmente affascinanti (basterebbe ricordare la teoria dell'arcobaleno, o il problema della dinamica dei proiettili). Il fatto è che, leggendo, meditando, assimilando questo sistema di testi, ruminandolo quasi, così come la cultura monastica aveva fatto con il «Testo» per eccellenza, Boezio e i suoi coJleghi (certo non tutti) vedono costruirsi, e costruiscono essi stessi, un sistema del mondo (e un sistema dei discorsi possibili sul mondo) dota- ·to di bellezza, coerenza e verità, scoprono, e essi stessi precisano e affinano, le caratteristiche proprie del discorso scientifico, e soprattutto sentono, esprimendolo con la forza e l'ingenuità della prima scoperta, l'ideale di una vita filosofica che riproduca nel microcosmo degli impulsi e delle facoltà umane lo stesso ordine armonioso che regna nell'universo. De su1111110 bono Questa esperienza non si svolgeva in vacuo, ma in un ambiente culturale che, fin nelle sue strutture giuridiche (nei rapporti tra facoltà, per esempio), aveva da alcuni secoli concepito le scienze mondane come propedeutica a un'altra conoscenza, come una serie di stazioni sulla strada che conduce alla vera Sapienza, città-tappa da non paragonare alla méta ultima del viaggio: la celeste Gerusalemme ·--~ RJl L-e-MINI~- ~~ Pl CAl<OON~ v~ RAfflN~~ IN ~RMANIA ~ P~R f!NI~ U~ IA1t1?1~ N~1,1,'11,1,t~'!>. COM~VH~, ~IGtOI?CA©, lv SUOl<WNO ~'QUASI ~NZA CONrlNI. della Scrittura. Non si trattò di un conflitto tra sapere e ignoranza: i teologi contemporanei di Boezio maneggiavano tutte le armi della logica aristotelica, a volte con maggior competenza e abilità, e anche la cosmologia, la psicologia, perfino l'embriologia avrebbero materiato le pagine di molti commenti alle Sentenze, di molti trattati teologici. Ma che l'indagine razionale fosse un bene da ricercare in sé, che la vita secondo ragione fosse principio di ordine per tutta l'esistenza umana, in ogni sua azione, che l'esercizio dell'intelletto fosse misura di vizio e di virtù e infine fonte di una felicità 'gustata la quale si disprezzano tutte le altre', questo proprio no, non era accettabile. Dalla lettura e dall'assimilazioBoezio di Dacia ne di quei testi (per riuscire a ottenere che diventassero perno dell'insegnamento non poche difficoltà e diffidenze si erano dovute vincere) nasceva di nuovo l'immagine della Filosofia e, con un vertiginoso salto all'indietro, i maestri delle arti parigini si riallacciavano agli antichi amici della sapienza: «Uomini degni di onore, i padri oggetto per noi di venerazione, gli antichi filosofi che disprezzavano le Marcello lori realtà transeunti e dedicavano la loro vita allo studio della sapienza - poiché non è degno di lei chi non la ama e non la valuta sopra ogni altra cosa - cominciarono il loro studio dalla logica e dalla grammatica ( ... ) così anche noi, seguendo il loro esempio». Così inizia un testo molto tecnico di Boezio, il commento ai Topici di Aristotele. Da tutto questo nasce l'opuscolo di cui presentiamo la traduzione: un elogio della Filosofia e dei filosofi che a ragione è stato giudicato come un piccolo capolavoro. Perché le prospettive non siano falsate bisogna però precisare che la Filosofia, di cui Boezio tesse le lodi, né nei suoi contenuti né nel suo metodo esclude un mondo della rivelazione e della fede. La 'beatitudine naturale' attingibile in questa vita non elimina la possibilità di una beatitudine 'da aspettare per fede nell'altra'; né rivelazione e fede sono surrogati, forme inferiori, ombre dell'unica, superiore verità filosofica (in questo Boezio è tutt'altro che un seguace di Averroè). Come i due mondi possano coesistere senza negarsi a vicenda è ciò che Boezio spiega in un suo trattato piccolo, ma straordinariamente complesso e articoIato: Sull'eternità dell'universo. In ogni modo, la Filosofia esaltata da Boezio non è una sapienza che si metta dal punto di vista di Dio. È invece una Filosofia i cui seguaci hanno molto mutuato dagli schemi monastici: il filosofo disprezza le ricchezze, non segue le lusinghe dei sensi, che sono la fonte principale di peccati e di vizi... In altri testi coevi caratteristica della vita filosofica è addirittura la castità. Se nell'alto Medioevo il vero, unico filosofo è il monaco, ora il filosofo somiglia un poco al monaco (si potrebbe d'altronde sostenere che egli si riappropria di quel che gli era stato tolto). Terza e ultima precisazione: frequentando i grandi fondi di manoscritti dove sono confluite, troppo spesso anonime, le opere dei contemporanei di Boezio, si scopre che ILsommo bene, ovvero la vita filosofica non è, almeno materialmente, un unicum. Gli scritti sulla Metafisica o sull'Etica si rivelano come il luogo dèputato a trattare il desiderio naturale dell'uomo verso il sapere e le gioie 'mirabili per stabilità e purezza' della contemplazione filosofica, e a partire dagli inizi del Trecento università come quella di Bologna conosceranno l'istituzionalizzazione dell'elogio della filosofia, pronunciato dalla cattedra all'inizio di ogni anno accademico. Ma proprio il confronto con tutta questa letteratura, in massima parte ancora inedita, farebbe risaltare l'incomparabilità del testo di Boezio. Laddove i professori di Bologna, già all'inizio di una lunga routine che degenererà nel Quattrocento a stanco repertorio di luoghi comuni, presentano elaborati sermones strutturati come i modelli di predica (tema, suddivisioni, exordium), magari commissionati ai colleghi di grammatica e retorica, Boezio costruisce una catena di sillogismi: nessun color retorico ma un ragionamento stringente, serenamente 'autosufficiente' come la vita e l'universo che descrive, sovranamente ignaro dei manuali di Boncompagno da Signa o di Bene da Lucca. Un grande itinerarium mentis in Deum che parte dalle realtà terrene per giungere, attraverso quelle incorruttibili e eterne, alla contemplazione del Principio supremo dell'universo, ma un itinerario tutto della ragione, e l'amore in cui sfocia è esso stesso assai simile all'amor Dei intellectualis. La Filosofia di cui qui si parla non si presta a immagini e a allegorie, né donne o regine fanno neppure un cenno. Eppure dalla sobria ebrietà di questa etica more syllogistico demonstrata sprigiona un calmo chiarore di poesia: «E poiché ognuno trova la sua gioia in ciò che ama, e la gioia più intensa in ciò che più intensamente ama, e il filosofo, come si è detto, ha il più alto amore verso il Primo Principio, ne consegue che egli trova la sua gioia più alta in lui e nella contemplazione della sua bontà. E questa è l'unica gioia che sia giusta». Gianfranco Fioravanti P oiché per ogni specie del/'essere si dà un qualche sommo bene raggiungibile, e l'uomo è una specie dell'essere, occorre che esistaper l'uomo un qualche sommo bene che sia raggiungibile. Non dico un bene sommo in assoluto, ma sommo per l'uomo: i beni raggiungibili dall'uomo, infatti, hanno un limite né si dà processo all'infinito. Nostro compito è allora quello di indagare razionalmente quale sia questo sommo bene che l'uomo può raggiungere: ora il bene più alto che l'uomo possa ottenere, lo otterrà attraverso la più alta delle sue facoltà; infatti, non attraverso l'attività dell'anima vegetativa, che caratterizza le piante, e nemmeno attraverso quella dell'anima sensitiva, che caratterizza gli animali (per questo i piaceri dei sensi son degni delle bestie); la più altafacoltà dell'uomo sono invece ragione e intelletto: infatti, il perfetto regime di vita consiste sia nel contemplare che nell'agire secondo ragione. Dunque il bene più alto che l'uomo può raggiungere, Loraggiungerà attraverso L'attivitàdell'intelletto. Per questo avrebbero motivo di rattristarsi quegli uomini che tanto sono irretiti dai piaceri dei sensi da tralasciare i beni che dall'intelletto provengono: così, infatti, mai raggiungono il Loro sommo bene. Sono tanto presi dai sensi che non ricercano quello che è il bene del loro intelletto. Proprio contro di Loroil Filosofo esce in questa invettiva: «Guai a voi, uomini che siete piuttosto da mettere tra Lebestie, poiché non vi preoccupate della scintilla di divino che è in voi»; e definisce 'scintilla di divino nell'uomo' l'intelletto; se nell'uomo esiste infatti un qualcosa di divino, è giusto che si identifichi con L'intelletto. Perché come entro la totalità dell'essere ciò che eccelle sul resto può definirsi divino, così possiamo chiamare divino Laparte superiore entro l'uomo. L'intelletto umano, poi, possiede due facoltà, una specuLativae una pratica: ciò risulta chiaro dal fatto che l'uomo, rispetto a alcune realtà (ad esempio, Lerealtà eterne), contempla senza poter agire su di Loro;rispetto a altre, invece, agisce seguendo L'intelletto, e sceglie sotto la sua guida il giusto mezzo in tutte Leazioni umane. Da ciò appunto sappiamo che nell'uomo esistono queste due facoltà, diverse ma appartenenti entrambe all'unico genere della razionalità. Allora il bene più alto che L'uomo può raggiungere attraverso quella facoltà dell'intelletto che solo contempla, è Laconoscenza del vero e Lagioia che ne deriva; e la conoscenza del vero è realmente fonte di gioia. L'oggetto compreso, infatti, dà gioia a chi lo comprende, e quanto più esso è meraviglioso e nobile, e L'intellettoha maggior forza di comprensione, tanto più intenso è il piacere intellettuale. Chi ha gustato un piacere simile, disprezza tutti quelli più deboli, ad esempio il piacere dei sensi, che davvero è più debole e più basso, e chi

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