Emmanuel Lévinas Nomi propri trad. it. di Francesco P. Ciglia Casale M., Marietti, .1984 pp. 200, lire 22.000 Le temps et l'autre Paris, Puf, 19832 pp. 92, ff. 30 Giorgio Franck «Esperienza-limi te» in Emmanuel Lévinas Dell'evasione trad. it. di Donatella Ceccon e Paola Turina Reggio E., Elitropia, 1984 pp. 176, lire 14.000 P roferito da lontano, ai tempi delle passeggiate «dalla parte di Swann», il nome di Gilberte è per Proust un «talismano magico», una parola ambigua. Evoca il mistero della vita di un'immagine incerta, di una esistenza che, sotto la forma di immagine, si impone a Marce! e si impadronisce di lui. Il nome la fa diventare individuale e concreta, la trasforma in persona. Le dona dei lineamenti, un volto: la possibilità di accesso all'esistenza. Il nome proprio è una parola strana, ai limiti del linguaggio, una zona buia della significazione. Se il nome di Gilberte è Gilberte, la sua esistenza (misteriosa), i suoi gesti quotidiani, le sue abitudini, esso relega nel silenzio il protagonista proustiano, nell'impossibilità di pronunciarlo. Marce! non dice il nome Gilberte, lo scrive soltanto, riempiendo le pagine di quei quaderni che, se la sua mancanza di volontà fosse meno rovinosa, dovrebbero servirgli per il suo lavoro. Nella premessa a Nomi propri Emmanuel Lévinas scrive: «I nomi di persona il cui dire significa un volto - i nomi propri in mezzo a tutti questi nomi e luoghi comuni - non resistono forse alla dissoluzione del senso e non ci aiutano a parlare? Non permettono forse di presentire, al di là delle parole in perdizione, la fine di una certa intelligibilità, ma l'alba di un'altra? Quello che finisce è, forse, la razionalità legata esclusivamente all'essere di cui la parola è veicolo, • - Lév1nassuProust al Detto del Dire, al Detto che trasporta saperi e verità come identità invariabili, che si integra all'Identità autosufficiente di un essere o di un sistema, compiuto, perfetto, che rifiuta o ingloba le differenze che sembrano tradirlo o limitarlo» (Nomi propri, p. 4). Agnon, Buber, Celan, Derrida, Kierkegaard, ecc., sono i nomi propri a cui Lévinas si rivolge, «punti di rottura di una certa tradizione intellettuale». Ma anche Proust è un nome, un pensatore «senza macchia». «L'autre dans Proust», apparso sulla rivista Deucalion, è un saggio del 1947, poi inserito appunto in Noms propres. Leggendolo, aiutati dall'intera riflessione teorica di Lévinas, scopriamo che Gilberte Swann non è l'unico nome, il solo volto della Recherche. Scopriamo che l'infanzia del nome, che l'io narrante crede di abbandonare lungo il percorso conoscitivo del suo protagonista, agisce impercettibilmente in tutte le fasi di questo apprendistato; che, parola presupposta da ogni linguaggio, il nome di persona è un'infanzia strana, preludio di una maturità che sarà tale solo se l'arte riuscirà a ridivenire infanzia. I I Il mistero m Proust è il '' mistero dell'altro». Lévinas legge le pagine proustiane e si sofferma sulla figura di Albertine, che sotto il suo sguardo diventa la metafora di un'alterità che non si lascia possedere. Il nome di Albertine ha in realtà sempre suscitato l'immagine di un'alterità evanescente, inconoscibile e «fuggitiva». Come oggetto d'amore faticosamente sottratto ai contorni fluidi della «piccola brigata», questo personaggio appartiene alla fase centrale dell'opera di Proust. Immersa nella (e sommersa dalla) quotidianità lineare del tempo perduto, sappiamo però che viene alla fine «abbandonata» e oltrepassata dalle verità che il tempo ritrovato, nella forma delle resurrezioni involontarie e dell'opera d'arte, offre come «oggetti» da possedere, profondità interiorizzabili, al protagonista proustiano. Federica Sossi Albertine Simonet, infatti, è apparsa quasi sempre come. figura del fallimento, come un'Odette meno antica che rinnova nell'esperienza di Marce! le ombre rovinose dei vissuti a cui fa capo un altro soggetto. Alla domanda angosciosa «Chi è la vera Albertine?», Marce! non trova risposta, riproducendo così l'impossibilità di Swann di possedere e conoscere la vera Odette: impossibilità di riconoscere e ricostruire l'identità dell'altro, impossibilità di ricomporre le parzialità discontinue del manifestarsi del suo io. Di ridurre lo scarto tra il suo apparire e il suo essere. E, ancora, di ricomporre in unità i frammenti dei mille volti successivi. La descrizione dell'amore per Albertine è il racconto di uno scacco: quello che detta la definitiva perdita del passato, di un tempo dell'esperienza dell'altro che come zona vuota, priva di contenuti conoscibili, si impadronisce dell'intero soggetto oscurando il rivelarsi della sua identità. Il soggetto privo di memoria, privato della propria continuità, è così relegato in una zona di silenzio, sottoposto alla morte in un presente atemporale che nella propria evanescenza e povertà coinvolge l'istante successivo, denudando il futuro della sua realtà, del suo essere possibilità del nuovo. In Le temps et l'autre (1948, ora ripubblicato) Lévinas, interrogando la solitudine dell'io, scrive: «Proprio perché il presente è un modo di compiere l' 'a partire da sé' esso è sempre evanescente. Se il presente durasse avrebbe ricevuto la sua esistenza da qualcosa che lo precede. (... ) È invece qualcosa che proviene da sé. Si può provenire da sé solo se non si riceve nulla dal passato» (Le temps et l'autre p. 32). In questo presente senza passato, atemporale, l'io è catturato dalle reti di una solitudine opprimente, è prigioniero della propria vuota identità. Come infrangere l'angoscia, spezzare la solitudine? In Lévinas è l'altro a liberare nel soggetto il mistero di una temporalità a venire. L'1Wcontrocon l'altro spezza l'identità vuota del soggetto della Roberto Da Pozzo conoscenza: il volto non saputo dall'io rompe l'essenziale isolamento del suo essere. Il volto dell'altro si impone a me con i caratteri di una presenza che non mi appartiene, che si sottrae alla mia padronanza, che mi lascia privo di sapere. È la presenza di un'assenza, di una sua assenza in me e di una mia assenza. La presenza del Desiderio. Eros. Il volto dell'amata viene da fuori, si presenta nella sua assenza, si nasconde nel mistero: rompe la mia padronanza, la mia conoscenza e il mio linguaggio. «Non esprime più o, se si preferisce, non esprime altro se non questo rifiuto di esprimere» dirà Lévinas in To- . talità e infinito. Si esprime - potremmo aggiungere - con una parola strana, un Nome, il suo, che risuona come un silenzio oscuro sovrastando il linguaggio che è veicolo di conoscenza, rivelazione dell'essere. Gilberte è questo volto amato, nome che Marce! scrive. Albertine è il mistero dell'altro. Non solo allora tempo presente, soggetto privo di identità, ma il presentarsi stesso della temporalità a partire da questa assenza, della temporalità come apertura dell'io «alla alterità dell'altro, contemporaneamente vuota e inesauribile» (Nomi propri, p. 134). Albertine, «dotata di una dimensione nascosta», si sottrae alla cattura di Marce), alla sua prigionia, al suo essere presa a partire da ciò che non è. La sua presenza è il futuro che l'io non può anticipare, un a venire del tempo rispetto al quale l'io perde la propria posizione di soggetto. L'oggetto d'amore esige l'apertura dell'identità dell'io al mistero della propria assenza, coinvolge il soggetto nella dispersione delle proprie discontinue apparizioni. «Ma perdita di controllo del soggetto significa anche , indebolimento della tensione conoscitiva. La coscienza non ha più il primo posto» (Franck, p. 163). È ,il suggerimento di un nuovo cammino. Nel «viaggio senza ritorno» l'identità immobile svanisce; contemporaneamente, però, appare l'immagine di una soggettività altra, di una soggettività nell'altro. LI io appare a se stesso come volto. Nel saggio «La realtà e la sua ombra» (Nomi propri, Appendice) Lévinas cerca una definizione teorica della funzione dell'arte. Diversamente dalla teoria del filosofo, quella del poeta nasconde un'equivocità essenziale. «L'opera d'arte, evento dell'oscuramento dell'essere» non conosce l'oggetto, non lo coglie nel concetto, ne attesta la duplicità. Duplicità del reale: l'essere è contemporaneamente ciò che si rivela nella sua verità e ciò che non si rivela, ciò che sfugge a ogni rivelazione, la propria ombra, l'imma~ gine. Lévinas tenta di chiarire questa nozione: non è un movimento che va dall'immagine all'oggetto, ma l'opacità stessa dell'oggetto, il suo essere doppio, simultaneamente luce e ombra, oscurità: «L'essere non è soltanto se stesso ma è sfuggente». L'immagine è l'assenza dell'essere a se stesso, la sua lontananza e estraneità a sé. «Ecco una persona che è ciò che è»: ma a questo 'è identico a se stesso' sfugge qualcosa - esso non padroneggia, non sa la propria complessità. Possiamo riferire tutto ciò alla Recherche e cogliere così l'ambiguità del pensiero di Proust? L'opera sarà il racconto dell'esperienza del protagonista, la figura della prossimità di Marce! ai propri vissuti .. Esperienza scritta: il recupero del proprio io si confonde con un'esperienza di scrittura. Il Narratore non ritrova Marcel, il proprio sé passato. Scrivendo diviene l'immagine di se stesso. La soggettività «ritrovata» è quella di un sé in quanto volto; l'io nell'opera appare a se stesso come straniero, altro, nome. Altro/sé che, come il nome di Albertine, sfugge alla cattura della mia comprensione, non si rivela, si impone nella sua assenza, in una lontananza assoluta che è la mia prossimità a me, il mio essere immagine. Il mistero in Proust è allora il mistero di un soggetto che si fa inafferrabile a se stesso: una soggettività dispersa, misteriosa. Asimmetria tra sé e sé significa, come dice Franck, «perdita di controllo, di signoria, di dominio» su noi stessi.
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