Alfabeta - anno VI - n. 59 - aprile 1984

- Come sempre costruisci delle utopie che per di più hai la malafede di immaginarti a partire da informazioni che provengono dalla scienza (storica, etnologica e persino biologica: vedi quello che hai scritto sempre qui sulla discontinuità del sistema nervoso e la complessità della comunicazione neuronica). Se un decreto del governo Barre sopprimesse l'imperativo, che immediata levata di scudi! E poi, soprattutto, questo modo sarebbe immediatamente sostituito nell'uso da mille altre forme di ingiunzione. D'altronde, è quanto accade in almeno due dei nostri discorsi: quello della Legge («È vietato... », «Nessuno potrà ... ») e quello della Cortesia, che usa delle circonlocuzioni («Avreste la compiacenza di ... ») -Insomma, sei formalista. È laforma imperativa che ti disturba. - La forma è una traccia. C'è nell'imperativo una violenza che è ancora più manifesta quando ti è indirizzato «per il tuo bene». Checché se ne pensi, l'imperativo è l'indice di una presa di possesso, è un desiderio di potere. «Non fumare~ Quando ai bei tempi della tubercolosi la collettività diceva «Non sputare per terra», non faceva che difendere.i propri membri secondo un principio classico di profilassi: il divieto implicava una solidarietà, una comunità. Dietro al «Non fumare» imposto o raccomandato dallo Stato si nasconde al contrario lo spettro di una malattia non contagiosa, che tocca solo l'individuo: il cancro. La società dice allora: «Non devo più farmi carico della salute della comunità, sono dunque libera di farmi carico, adesso, della vostra salute, e lo faccio con fermezza. Siate responsabili di voi stessi. Se occorre, io contribuirò con dei regolamenti». Si produce così un ritorno alla morale volontarista. L'individuo è limitato non più in ciò che rischia di nuocere agli altri ma perché dipende dalla Legge (e non soltanto dalle leggi) che la società, ormai, si assume il diritto di incarnare. «Farò il vostro bene malgrado voi stessi»: questo è il piccolo bagliore inquietante che vedo balenare nel divieto di fumare. Nurejev e la Berma L'altra sera ho visto per la prima volta un grande ballerino, preceduto, anche per i miei amici, dalla fama del genio. Il primo balletto fu danzato da un giovane che giudicai piuttosto ordinario. «Non può essere lui», mi dicevo in tutta tranquillità: le vedettes non si esibiscono mai per prime, e poi avrebbero applaudito la sua entrata in scena. Nell'intervallo, un amico mi illuminò: eraproprio Nurejev che avevo visto danzare. Ne rimasi stupefatto, ma al secondo balletto i miei occhi si aprirono, e vidi quanto la figura di questo ballerino fosse veramente incomparabile, e giustificasse le ovazioni di una platea elettrizzata. Allora mi resi conto di aver riprodotto, nel 1978, la scena in cui il Narratore proustiano va a veder recitarela Berma. C'era tutto, alla lettera: il desiderio, il rumore, l'attesa, la delusione, la conversione, i moti del pubblico. Uscii di là stupito dal genio ... di Proust: non finiamo mai di aggiungere qualcosa alla Recherche ( come faceva Proust sui manoscritti), non smettiamo di scriverla. Ed è certo questo la lettura: riscrivere il testo del/'opera direttamente con il testo della nostra vita. Giapponese Una volta di più (benché il pomeriggio sia grigio e freddo fino ali'oscurità), . un Giapponese senza età fotografa lo sfondo della Concorde, verso i tetti lontani e neutri del Grand Palais (a dire il vero, non un gran che da vedere). Domanda: i Giapponesi guardano qualche volta, e nel corso di quali rituali, le fotografie che li vediamo prendere senza sosta? Si indovina che è l'atto che li appassiona, non si è sicuri che sia il prodotto. E in questo sono forse molto moderni: lasciar svanire l'immagine a beneficio della sua cattura. Fin che la lingua vivrà - Conosci questa citazione di Flaubert? lo la trovo molto bella: «lo non scrivo per il lettore di oggi, ma per tutti i lettori che potranno succedersi, fin che la lingua vivrà». - È banale. Qual è lo scrittore del XIX secolo che non abbia dichiarato di scrivere non per i suoi contemporanei, ma per i posteri? È un ragionamento arrogante, molto usato in politica: poco importa dell'oggi (soffriamo, facciamo soffrire), il domani ci giustificherà. - Non è quanto dice Flaubert. La sua è dichiarazione di modestia. Egli scrive per un lettore incerto, che non è affatto sicuro ci sarà. E, invece di legare la letteratura a grandi dottrine trionfanti, a rivoluzioni di mentalità, insomma a contenuti, la àncora a una forma: la lingua francese. E questa forma, non la concepisce neppure eterna. - Ha ragione! Perché la lingua, per Flaubert, è il «bello stile», lo stile elaborato, una prosa culturale, artificiale, calcolata come la poesia del suo secolo. E quel tipo di lingua sta morendo. I giorni di Flaubert sono dunque contati. - Tu semplifichi. Tu dici: la lingua, per Flaubert, non è altro che lo stile. lo rovescerei l'affermazione: lo stile, per Flaubert, è tutrala lingua. Perché ciò su cui lavora non sono delle figure, delle volute, degli ornamenti, degli effetti retorici, ma è un oggetto puramente linguistico: la frase. Ciò che egli vuole trovare è una frase assoluta - forse precisamente eterna? - Ma proprio la frase è in questione. Intanto non sappiamo neppure bene cosa ne sia, dellafrase francese. Parliamo forse per frasi? Niente di meno sicuro. Ascolta una conversazione: comincia, cambia direzione, si perde, si accavalla, insomma non finisce, e non finire una frase è ucciderne la stessa idea. E scriviamo per frasi? Sì, cert(?,perché diamo una punteggiatura ai nostri testi. Ma qua e là, ai bordi della cultura normale (o normativa), la frase si sgretola: per esempio nella poesia, nel testo d' avanguardia - e negli annunci sui giornali, alcuni dei quali, fatto nuovo, parlano ormai il linguaggio dell'affetto. - È solo un movimento di superficie. A essere minacciata è la frase stilistica. Ma, quanto alla frase grammaticale, sai bene che certi linguisti americani la con~ siderano, seguendo Chomsky, come un'eredità biologica: la frase sarebbe nell'uomo proprio innata, e non acq • sita attraverso l'apprendimento. - Così ciò chef a paura non è affatto la distruzione della frase. È invece, con la cauzione delle ipotesi scientifiche che hai citato, l'avvento in tutta la società di una frase standard, senza sapore, senza diversità, senza specialità: frase-mostro della società di massa. . - Mi stupisco che fra i giochi prospettici (innumerevoli) ai quali ci abbandoniamo a proposito della società del Duemila non appaia mai questa domanda: che lingua parleremo domani? Che lingua vogliono per noi questi grandi leaders che pensano la Francia? - Detto altrimenti (e saremo d'accordo): fa frase è un oggetto assolutamente politico. Banale e singolare Un'auto impazzita va a sbattere contro un muro, allaperiferica Est: è (ahimé) banale. Né la causa dell'incidente né i cinque occupanti, tutti giovani, morti o quasi, possono essere identificati: è singolare. Questa singolarità è quella di una morte che oserei dire perfetta, nel suo vanificare due volte ciò che può calmare l'orrore di morire: sapere chi e cosa. Tutto si richiude sul nulla, peggio: sulla nullità. Da ciò si comprende quella specie di riempimento accanito che la società elabora attorno alla morte: degli animali, delle cronache, una Storia, tutto ciò che può nominare e spiegare, dare ww presa al ricordo e al senso. Inferno ben generoso quello di Dante, in cui i morti sono chiamati col loro nome e commentati secondo i loro peccati. (Traduzioni' di Paolo Fabbri e Isabella Pezzini) «Le capita mai di avere la sensazione di scrivere per la posterità?» «Francamente no. Non posso immaginarmi che là mia opera o le mie opere saranno lette dopo la mia morte. Alla lettera, non lo immagino». stere» di un oggetto di per sé ingombrante, se non altro per l'appartenenza di genere: l'autoritratto o - come si dice - l'autobiografia intellettuale. Barthes ha avuto poco tempo per continuare a rispondersi, a rispondere, con il proprio lavoro. Il tempo dei Frammenti di un discorso amoroso, della famosa Lezione che inaugurava la sua presenza al Collège de France, della Camera chiara: non poco. Il che non toglie che quella domanda sia rimasta in sospeso, cambiando destinatari. E dopo? Può essere il momento di cominciare a dare una risposta. si percepjsce la sua assenza, l'irreversibilità dell'essere Barthes ormai «solo» un autore. E allora al dovere dell'edizione deve aggiungersi il dovere della critica. Da dove cominciare? può dire, imbottita di pensiero, e tuttavia questo non basta: c'è un supplemento, il Nome proprio, Steinberg stesso - che è la 'verità' di ciò che l'opera rappresenta, pensa o dice». semiologia allora tutta da costruire, più per la qualità della scrittura («se si cerca di comprendere il testo passo passo, piuttosto che lasciarsi trascinare, tutto o quasi non regge», G. Mounin), che per l'imperfetta lettura di Hjelmslev. Il Sistema della moda, d'altra parte, fu annunciato come «illeggibile» dal suo stesso autore - perciò lasciato nello scaffale. R. Barthes, Le grain de la voix «La verità di un'opera - forse di ogni immagine - non è in ciò che rappresenta, ma nella maniera in cui la rappresentazione è condotta Nel segno di un Nome proprio: la verità dell'opera di Barthes è nel Nome proprio 'Roland Barthes'. E cioè, appunto per antonomasia, l'esplorazione instancabile di quella coppia (di contrari? di complementari?) tra stile e scrittura che Barthes poneva con fermezza, già nel Grado zero, al centro della riflessione sulla lingua e sulla letteratura. Poi, anche il suo abbandono «ufficiale» dell'impresa semiologi- L a cultura come spettacolo tende sempre più spesso a essere cultura d'occasione: lecito perciò domandarsi se l'iniziativa di Reggio Emilia su Barthes sia da imputare a qualche ricorrenza, a qualche anniversario. Ma l'agenda, stavolta, offre ,m appiglio irrisorio. È vero, Barthes moriva, di questa stagione, qualche anno fa. Ma non è passato nemmeno un lustro, e le rievocazioni, le commemorazioni, hanno una loro numerologia, un loro codice. Per la cura e l'impegno morale di un amico, più che editore, François Wahl, altre «opere» di Barthes continuano a uscire, più o meno con la stessa cadenza alla quale egli aveva abituato i suoi lettori: nell'81 Le grain de la voix, la raccolta· delle sue interviste, l'anno dopo L'obvie et l'obtus, terzo volume dei Saggi critici, a cui si annuncia un nuovo seguito. Il 'trompe-l'oeil' di una continuità ininterrotta porta a favoleggiare di inediti, inesauribili, ma l'illusione dura il tempo di sfogliare queste pagine. Nel loro stesso ordine, impeccabile e volutamente asettico, Teorico della scrittura e detentore di uno stile, Barthes si è spinto progressivamente in quella sorta di terra di nessuno che l'accademia, da un lato, e il successo di pubblico, dall'altro, riservano a chi «scrive troppo bene». La teoria, si sa, ha una sua mitologia dell'ascesi, una morale - vecchio sogno positivista - della denotazione: e se da parte «letteraria» non si poteva che considerare Barthes un apostata e un rivale, anche da parte «semiologica» non gli sarebbero mancati sguardi circospetti. Così alcuni critici stroncarono i Miti d'oggi, vero manifesto di una ca avrebbe col tempo contribuito a produrre la sensazione che il suo apporto teorico fosse ormai facilmente 'archiviabile', soprattutto nelle prefazioni, nelle bibliografie generali, nelle reimpatriate storiche e negli· eserghi. È vem, Barthes face·,a «altro». Ma di qui a ~ farne soltanto - come testimonia- -, Bisognerà dunque ammettere che il motivo di questo incontro è altro, esibirne un'insegna. Iniziando, per esempio, dalla fine del suo Roland Barthes par lui meme, dalla pagina in cui era riprodotta la domanda che gli poneva la sua stessa scrittura: «et après?» E dopo? Era un modo di negare la chiusura di un punto, di affermare una sospensione al «troppo consiMassimo Giacon e affermata»: Barthes lo scriveva in uno dei suoi ultimi lavori, con/ su Steinberg (Ali except you, Paris, Repère Édition d'Art - Galérie Maeght, 1983), ma il desiderio di falsa prospettiva che ci impone l'uscita dei suoi «nuovi» libri ci autorizza forse a sostituire il suo nome a quello dell'artista commentato: «L'opera di Steinberg è, se si o:: no certe biografie «ufficiali»stilate .s alla sua mortè o certi calchi neocri- ~ tici maldestri - uno scrittore di Q. «belle frasi», c'è lo spazio di una 00 -, riflessione, di un'écoute passion- ::: née. Se non c'è stata, perché non .._ ~ poteva esserci, una «scuola» di Barthes, un' «eredità» immediata- "'I mente catastabile, nondimeno c'è forse qualche 'fil rouge' da riprendere in mano, da ripercorrere. .e !::- Isabella Pezzini

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==