Alfabeta - anno VI - n. 58 - marzo 1984

Il dibattito su questo tema (e la serie attinente di «Riferimenti») è cominciato in Alfabeta n. 57 e avrà seguito regolare nel giornale. P arto da due proposizioni parzialmente sovrapponibili: 1. Il senso della letteratura è quello che le viene attribuito in un periodo determinato. 2. Il senso della letteratura consiste nell'attribuire un senso alla letteratura. Non penso, vorrei chiame subito, a certezze o ipotesi di carattere scientifico. Studiando, mettiamo, la storia e i problemi dell'estetica, o studiando la struttura del testo letterario (cosa che, negli ultimi anni, è stata fatta con un rigore di intenti e di metodi di cui mi guardo bene dal lagnarmi), è impossibile non sottintendere, o addirittura scoprire, un senso della letteratura. Ma si tratta, credo, di nozioni destinate a valere nell'ambito del sapere scientifico in cui sono nate, e a trasmettersi in verticale nello sviluppo di quel sapere. La nozione che ho in mente, e alla quale si riferiscono le due proposizioni enunciate, è una nozi_one generica e immediatamente attiva (attiva in orizzontale), prodotta da una particolare forma di creatività pretestuale o extratestuale che coinvolge nella stessa misura scrittori e lettori e consiste nell'immaginare il destino e le funzioni della letteratura come una sorta di gesto collettivo, come insieme di un numero indefinito di gesti. In parole ancora più povere: nel «decidere» a cosa serve la letteratura, che cosa ci si può aspettare dalla letteratura ... Se assumiamo questo punto di vista, non mi sembra difficile coN on è da oggi che ·sosteniamo l'importanza fondamentale dell'esperienza letteraria degli anni sessanta, di tutto il complesso dibattito teorico e della produzione testuale di allora, anche al di là del Gruppo 63 - anche se quella compagine fornì i principali punti di riferimento. E la prima tentazione è di vedere nei numerosi interventi di questi ultimi mesi della stampa sulla ricorrenza dei vent'anni dalla fondazione del Gruppo 63 un sintomo positivo di ripresa e di rinnovata attualità delle istanze di avanguardia e sperimentalismo nel campo letterario: il che potrebbe essere soltanto la proiezione di un pio desiderio. Pure, una rapida rassegna dei contributi apparsi sui quotidiani dimostrerebbe intanto due punti: che l'impatto dell'avanguardia, per quanto riassorbito e normalizzato, può ancora ingenerare reazioni vivaci e talvolta perfino virulente; e che proprio i protagonisti di un tempo sono i più restii, «vent'anni dopo», a scendere in lizza. Il resistente carattere perturbante della «Cosa» offre ragioni a quanti ne sottolineano la natura fantomatica (A. Giuliani su La Repubblica: «era un fantasma, e ·che Il senso della letteratura / 3 iopie presbiti gliere le trasformazioni che l'immagine del senso della letteratura ha subìto in Italia nel corso degli ultimi decenni. Molto schematicamente, credo che si siano succedute (occupando posizioni a volte egemoni, a volte fortemente contrastate) un'idea di letteratura come resistenza e alternativa al reale (anni trenta, cultura dell'ermetismo), un'idea di letteratura come giudizio e intervento sul reale (anni del dopoguerra, cultura del neorealismo), un'idea di letteratura come mimesi delle «articolazioni schizofreniche» del reale e del «sentimento dell'esserci» (anni sessanta, cultura della neoavanguardia; prendo in prestito le espressioni virgolettate dallo scritto sul tema di Antonio Porta in Alfabeta n. 57, scritto di cui condivido largamente impostazione e proposte). Sempre da questo punto di vista, il decennio appena trascorso appare come un decennio sostanzialmente vuoto, percorso da spinte e controspinte così minutamente suddivise da raffigurare, infine, una sorta di equilibrio immobile. Per quanto ri~arda il senso della letteratura - cioè quella forma di immaginazione collettiva che consiste nell'attribuire un senso alla letteratura - gli anni settanta sono praticamente indescrivibili. Si può ricordare, certo, una serie di prese di posizione a favore dell'autonomia e della ineffabilità del fatto letterario contro la tecnica dello sperimentalismo e, d'altro lato, contro ogni ipotesi o richiesta di comunicazione. Ma si tratta di prese di posizione non abbastanza forti né abbastanza condivise (né, aggiungo, abbastanza decise nell'atteggiarsi rispetto al decennio Giovanni Raboni precedente, verso il quale oscillano fra una certa dipendenza di fatto e una certa supposizione di indipendenza) per riassumere o caratterizzare il periodo. Si potrebbe sospettare che proprio il lavoro ravvicinato, di carattere scientifico, sul testo letterario, che negli anni settanta ha avuto un forte sviluppo e prodotto ri- ' sultati importanti, abbia avuto come effetto collaterale di scoraggiare e spingere ai margini, non dico la creatività direttamente e singolarmente testuale (che è stata anzi, nel complesso, intensa e notevole), ma proprio quella creatività indiretta e collettiva che ho chiamato della «attribuzione di senso». In effetti, ogni tipo di approccio formale rigoroso al testo letterario comporta e richiede una certa miopia (i miopi vedono bene da vicino), mentre ogni definizione o intenzionamento della letteratura presuppone una certa presbiopia (i presbiti vedono bene da lontano, cioè vedono il territorio, il paesaggio). E, naturalmente, è impossibile essere insieme miopi e presbiti; ma questo sarebbe irrilevante: ciò che conta è che il fascino della miopia, cioè la capacità di esattezza sui singoli oggetti, rischia di far apparire imprecisa, irritante, improponibile, la pretesa dei presbiti di formulare grandi previsioni e programmi trascurando gli oggetti in primo piano ... e i si può chiedere, ora, se il vuoto degli anni settanta (che non è, ripeto, vuoto di opere, ma vuoto di intenzioni e di attese, di consonanza-risonanza fra intenzioni e attese) stia continuando in questa prima parte degli anni Il senso della letteratura / Riferimenti ottanta o se, invece, si stia colmando o stia per essere colmato. A me sembra che la seconda ipotesi sia più vera e più feconda della prima (e, dicendolo, so benissimo che non mi limito a constatare qualcosa, ma sto facendo in modo, per quanto mi riguarda e per il poco che posso, che questo qualcosa si verifichi). Più in concreto e in dettaglio, faccio questa ipotesi: che il postsperimentalismo degli anni settanta abbia avuto la doppia funzione di esaurire, o mettere decisamente in prospettiva, lo sperimentalismo degli anni sessanta, e- d'altro lato - di conservarne, filtrandoli, alcu- _ ni aspetti. Passato attraverso la camera di raffreddamento di un decennio ricco di invenzioni testuali singole quanto povero di intenzioni o intenzionamenti collettivi, il fervore linguistico degli anni sessanta può essere recuperato, ora, come energia positiva, a prescindere dalla sua carica di mimetismo polemico. Cosa che, del resto, è già in atto e visibile da tempo nel lavoro di alcuni scrittori che vengono da quell'esperienza e che si sono trovati, negli ultimi anni, a usare la propria espressività nella stessa direzione etica di scrittori che vengono da altre esperienze e appartengono, magari, ad altre generazioni. Ma, come abbiamo sin qui presupposto, una cosa è ciò che uno scrittore o più scrittori fanno e un'altra cosa è il senso della letteratura nel quale si riconosce la maggioranza (quantitativa o, più probabilmente, qualitativa) degli scrittori e dei lettori di un periodo determinato. Ebbene, a me sembra che molti segnali e gesti tendano, in questi anni, a saldarsi in una roccasiondeel63 Francesco Muzzioli • mise in giro un po' di paura»; e E. ·Sanguineti su Tuttolibri: «ha la vitalità dei fantasmi necessari»). Eh già, perché è un revenant che si presenta alla ricorrenza: invece del baldo ventenne, il genetliaco si trova a festeggiare un estinto, però dispettoso e burlone. Si tratti di un 'seppellimento troppo affrettato' alla Poe, oppure di un'ombra ossedente tipo Banquo del Macbeth, la rimozione della neoavanguardia continua a creare inconvenienti, e a guastare i sonnellini della nostra società letteraria - per non dire addirittura, con Sanguineti, del1'«Europa postmoderna» tutta. Allora la commemorazione potrebbe dare il destro a un adeguato esorcismo: per imbalsamare lo spettro vagabondo in una composta mummia, da collocare a museo, in apposita nicchia; una buona volta archiviata. La parte del drastico liquidatore è assunta da F. Fortini, antico avversario irriducibile: «Non volevano la verità ma lo 'spazio vitale'; l'hanno avuto. Con la vita in meno. ( ... ) Mi batterò per il loro pensionamento anticipato» ( Corriere della sera). Ma la giubilazione può avvenire pacificamente, secondo rituale, mediante il tributo di elogi per un'azione ormai distante nel passato storico, e perciò implicitamente superata dal tempo. Così G. Raboni loda nella «trasgressione» - ed è nel vero - lo stimolo centrale della produzione del gruppo, ma poi conclude capovolgendo l'encomio in riserva: «non è da escludere che la trasgressione praticabile oggi con profitto sia addirittura l'opposto di quella che teorici e operatori del Gruppo avevano in mente, in quel lontano (si fa per dire) ottobre del 1963». Con modi ossequiosi, la «Cosa» - passata di moda, è deciso - viene relegata nella «bellezza riposata dei solai». 11 rischio di cadere nella celebrazione da raduno di reduci, tanto più deleterio nel caso di una avanguardia che ha il dovere di irridere alle cerimonie, spiega d'altra parte la renitenza di molti ex del gruppo a ritornare sull'argomento. Fermo è, in proposito, il rifiuto di R. Di Marco: «Ma che vuol dire celebrare il ventennale di un movimento letterario oggi scomparso? Dopo averlo frustrato, sconfitto, annientato, ecco che lo si vuole riesumare per catacombarlo definitivamente. No, non ci sto,( ... ) è piuttosto una buona occasione per tacere». Altri, e soprattutto il nucleo fondatore dei Novissimi, non possono sottrarsi al mandato di comparizione dell'insistenza giornalistica, ma spesso le interviste - quando non siano rese per motivi diversi dall'anniversario, come quelle raccolte da Filippo Bettini per Rinascita - sono concesse obtorto collo, e lasciano poco all'empito rievocativo dei ricordi. «Sono critico rispetto all'idea del ventennale - dichiara A. Porta al Mattino. - Celebrando o festeggiando si rischia di appiccicare addosso ai protagonisti di allora un'etichetta che non esiste più perlomeno dal '69». Per forza: la regola del gioco avanguardistico (di una continua metamorfosi autocritica) impone di non fossilizzarsi nei trascorsi, e obbliga a spezzare l'ovattata atmosfera rievocativa. C'è chi, come Giuliani, sceglie la via della sottrazione ironica dell'oggetto, inventando una sorta di calviniano «Gruppo inesistente»: «il Gruppo 63 non è mai esistito - egli sostiene sulle colonne di Repubblica, con ludica serietà invero dadaista, o, nuova attribuzione di senso alla letteratura, cioè in un nuovo senso della letteratura. E che questo nuovo senso sia descrivibile, ormai, con discreta approssimazione, come l'incontro fra un'attesa· di chiarezza comunicativa e una sperimentazione (resa possibile e per così dire autorizzata dalla sperimentazione mimetica e anti-comunicativa degli anni sessanta) delle residue o riscoperte ·e reinventate possibilità comunicative del linguaggio letterario. L'intenzione e la pratica di una scrittura «diretta e semplice, perfino trasparente», di cui parla Porta nel suo intervento, è la forma in cui, per ora, è possibile e pertinente individuare, e vedere all'opera, questa situazione è questo senso. Gli esempi non mancano, da prosatori come Calvino o Pontiggia a poeti come Sereni o Caproni o Giudici o lo stesso Porta. Altre forme più complesse e mediate di riscontro potranno essere individuate riprendendo con spregiudicatezza, oltre la barriera dei più raffinati luoghi comuni, il discorso su alcuni generi (penso al ritorno della parola nello spazio teatrale dominato, negli scorsi decenni, dall'evento; penso alla nonmorte, nonostante tutto, del romanzo, evidente nel più paradossale e limpido dei modi in un libro di versi uscito in questi giorni, La camera da letto di Attilio Bertolucci); sempre che, nei prossimi anni, resista e si diffonda l'attribuzione di senso alla quale stiamo (io che scrivo e, spero, chi mi legge) anche in questo momento lavorando. se è concesso dire, patacritica. - Ha soltanto fatto finta di esistere, e c'è riuscito così bene che se ne parla ancora». Poco prima, anche Sanguineti aveva espresso l'opinione che «il Gruppo 63 non sia stato, propriamente, un 'gruppo', e nemf!1enoun 'evento', ma un segno, un sintomo». Non è falsa modestia, né il trucco per depistare gli agguati degli scolastici classificatori: queste dichiarazioni vogliono scartare le evidenze troppo viete, e sfatare il mito di un compatto «spirito· di corpo»; per mettere in primo piano, invece, -i metodi e gli strumenti di lavoro. Se infatti una «affettuosa nostalgia» (A. Arbasino) emerge da qualche intervento, riguarda soprattutto il luogo di confronto, di scambio, di verifica: lo spazio delle riunioni collettive, dove veniva intaccata l'immagine consueta dell'artista solitario, e dove testo e critica potevano procedere di pari passo, interagendo a vicenda. Nel presente, R. Bacilli lamenta la mancanza di una sede di incontro «per la fusione solidale delle energie» ( Corrier~ della sera); e, parallelamentet Porta: «Questi luoghi non esistono più: la -mia proposta attuale è quella di vede-

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