«Bisogna rispettare le regole del pellegrinaggio alla montagna. Anzitutto è vietato parlare sulla montagna. Bisogna lasciare la casa senza essere visti da nessuno. «P.et andare alla montagna, bisog,a costeggiare e passare al di sopra dei rovi, poi salire sulla terza montagna. Là arriverete a uno stagno. Girate attorno allo stagno per tre volte e arrampicatevi sul dirupo. Dopo un'altra montagna, vedrete una valle profonda: costeggiatela per due leghe e mezzo facendo sette svolte: è quel che si chiama il cammino delle sette valli. «Dopo il cammino delle sette valli, si arriva al colle, e poi c'è Narayama. Là non c'è più un cammino vero e proprio. Salite, salite. Il Dio vi attende. AI ritorno, non bisogna mai girarsi indietro». S. lmamura, sceneggiaturadi La ballata di Narayama, se. 122 H o visto il.film di Shoei Imamura La ballata di Narayama, Palma d'oro al Festival di Cannes del 1983, in una sala del- ['ex ambasciata cinese a Parigi, adesso trasformata in un cinema che si chiama «La Pagoda». Lo dico perché l'effetto di Kitsch è irresistibile, fa pensare a come verrebbe preso in Giappone I diavoli di Ken Russe/ proiettato in una sala ricavata in una cappella gotica. L'eccesso di ambientazione rischia di farci marcare subito quanto ci sta di fronte come «esotico», nel senso in cui lo è la cucina thailandese sui Navigli di Milano. In nessun senso, cioè, al di là della pastosità dellaparola da rigirarein bocca. Difatti, mi avevano prevenuto che questa Ballata di Narayama era un film duro, molto giap, e io l'ho vissuto come un film comico per la maggior parte. Asperità ce ne sono: neonati morti trattenuti da un cespuglio nell'acqua del fiume, un'intera famiglia seppellita viva perché accusata di furto, vecchi tenuti chiusi in cantina a morire di fame o buttati giù da un precipizio accuratamente legati, e soprattutto l'anziana protagonista, Orin, che si spacca i denti contro una pietra. Il tutto, però, trattato con mano leggera, come se - nel quadro della vicenda raccontata - fosse normale. È questa normalità fuori dalla (nostra) norma, suppongo, che dovrebbe farci riflettere efunzionare da spaesamento brechtiano. Ci provo. Il tema trattato dal film non è da poco: muori e lascia vivere, si potrebbe dire. In uno sperduto villaggio de/nord del Giappone, caratterizzato dall'estrema povertà, il tura, per così dire, il piacere del testo. Dall'analisi del testo (anni sessanta) all'edonismo del testo· (anni settanta), L'impero dei segni ha articolato il vettore barthesiano. Egli ha trovato nel haiku la gioia non-direzionale e decentralizzata, o la felicità del «juste pour écrire» (L'empire, p. 110). «Le corps collectif des haiku est un réseau de joyaux, dans lequel chaque joyau reflète tous les autres et ainsi de suite, à l'infini, sans qu'il y ait jamais à saisir un centre, un noyau premier d'irradiation» (ibidem, p. 104)8 • La gioia (la gemma?) della lettura e della scrittura non dovrebbe essere intellettuale (capire il senso, conoscere l'intenzione riposta dell'autore, classificare i vari stili, giudicarne la posizione storica... ), ma corporale e musicale: sentire il rumore musicale prodotto dal testo che sta attraversando il mio Il •orireinGiappone Isabella Pezzini problema demografico viene risolto drasticamente: uccidendo i neonati in sovrannumero (chiamati familiarmente «sorcetti») o vendendoli, sefemmine, al mercante di sale, che tiene i contatti fra i villaggi relativamente vicini, procurando mogli dove sono necessarie. Ma sono i vecchi soprattutto che, ali'età di settant'anni, vengono eliminati: accompagnati su una montagna sacra e lì lasciati a attendere la morte. Mi sembra che la stampa, alla presentazione del film, abbia soprattutto insistito su quest'ultimo aspetto, portando a leggere il film come riflessione sul tema degli anziani, evidentemente attuale oggi che viviamo - almeno così dicono le statistiche - in una società che tende all'invecchiamento quanto a età dei propri componenti, pur modellandosi ideologicamente sul mito della giovinezza. Su~'antipatia della nostra società nei confronti del vecchio circolano alcuni luoghi comuni del tipo: è finita lafamiglia patriarcale, si tende allafamiglia a tre componenti, gli spazi sono ridotti, il vecchio costa moltissimo alla comunità (in termini di pensione, assistenza, ecc.), non è produt- • tivo e per altro non consuma neppure - insomma, dà francamente noia. Cosa può avere in comune que- . sta situazione con quella raccontata da lmamura? Orin ci viene mostrata mentre lavora continuamente, sta benissimo, tanto che per convincere il figlio di essere giunta al proprio momento deve spaccarsi i denti da sola. A un certo punto, cade anche il problema della sovrappopolazione della famiglia, perché lagiovane moglie di uno dei fratelli, sorpresa a rubare, viene eliminata con il resto della sua famiglia. Di fatto, è Orin a volere essere accompagnata alla montagna. Il conflitto vissuto dal figlio che deve farlo è presentato in modo netto: Tatsuhei condivide completamente le usanze e le leggi della sua comunità. Non fa una piega quando deve collaborare ali'esecuzione della cognata; non solo, ma si scopre che ha ucciso il proprio padre perché costui si era rifiutato di portare la madre alla montagna, diventando così motivo di scandalo per la famiglia e il villaggio. Eppure Tatsuhei fa di tutto per ritardare il momento in cui Orin deve morire, trasgredisce anche. Dopo averla abbandonata, visto che nevica, torna indietro di corsa per riprenderla, leparla, le offre da mangiare. E quando torna a casa, soffre vistosamente nel constatare corpo. «L'écriture - scrisse Barthes nel 1974- c'est la main, c'est donc le corps: ses pulsions, ses contròles, ses rythmes, ses pesées, ses glissements, ses complications, ses fuites, bref, non pas l'ame (peu importe la graphologie), mais le sujet lesté de son désir et de son inconscient» (Le grain, p. 184)9. L'immagine è una traccia o una superficie della scrittura come «gesto» corporale: nel calligrafismo giapponese Shodo, lo spettatore, non apprezza il significato degli ideogrammi che il maestro ha dipinto, né il dipinto in sé, ma l'armonia fra ideogrammi come segni dati e le tracce che il pennello ha lasciato. La traiettoria dell'inchiostro nero non significa niente, ma «designa» il gesto del pennello e l'atto dell'artista-scrittore: Là! L'immagine-scrittura non è l'altro del piacere vuoto? O il piacere . , I ' • l f ' che le cose di Orin se le sono già spartite le altre donne di casa. Allora: se il film di lmamura è internamente problematico, e inoltre funziona come smentita dei nostri luoghi comuni sugli anziani (ci possono essere famiglie patriarcali dove il vecchio non è tollerato: dire che oggi le cose vanno così perché non e' è più la famiglia patriarcale non basta, bisognerebbe chiedersi almeno quale: quella dei contadini della bassapadana è uguale a quella dei pastori sardi o a quella dei quaccheri in America?), vale lapena di leggerlo in questo senso pseudosociologico e in fondo pietistico - e cioè come se dicesse: Guardatevi dalla barbarie delle norme che oggi come ieri perseguitano i vecchi? Vedete Orin quanto è simpatica (fra parentesi assomiglia moltissimo al mostrino ledi che in Guerre stellari II inizia Luke), non le affidereste i vostri bambini invece di farla morire sulla montagna (ali'ospizio, e così via)? Protesto vibratamente contro una simile lettura. La questione del film è a mio parere un'altra, ancor meno facile da metabolizzare, perché è quella del morire. Non tanto della morte, evento troppo astratto (tutti dobbiamo morire, anche se viviamo come se non) o troppo concreto, punto finale e liberatorio di un processo detestabile (l'intera esistenza o, più spesso, un male «incurabile»). Nel morire c'è ben di peggio. La consapevolezza che ci siamo, l'angoscia e la paura di questo stadio intermedio: sono vivo abbastanza per soffrire ma sono teoricamente già morto - e, soprattutto, sono solo. In effetti Orin non la vediamo «morta». La lasciamo lì, come fa Tatsuhei, inginocchiata nella neve, anche se non abbiamo alcun dubbio sulla sua fine (tutt'intorno, ed è forse uno dei punti meno felici del film, è pieno di scheletri e di corvacci, tanto perché nessuno creda che la nonnina è stata portata solo a fare una passeggiata). In realtà, quando il film èfinito e sono uscita dalla pagoda cinese, mi è capitato di pensare: «Bello morire così». E cioè all'interno di un qualche cosa che dia una forma, un senso, a quanto per me rappresenta un nonsenso. Diciamo: rileggereil mio individuale non-senso, la mia morte, attraverso un senso collettivo, interindividuale. Il morire di Orin è solo il compimento particolare di un paradigma stabile, «sociale»: c'è un modo di morire, nel villaggio della leggenda di Narayama. Non e' è segreto, intempestività, frattura fra la vita e la morte, la comunità e l'individuo. per natura non sarebbe anche vuoto? È un colpo. È un colpo di gioia senza profondità. Transitorio, futile, centri-fugo. L'utopia hic et nunc. È dentro l'impero dei segni, dove siamo in «une répétition sans origine, un événement sans cause, une mémoire sans personne, une parole sans amarres» (L'empire, p. 104)10. Dove finisce la scrittura? Dove finisce il libro? ( ... au sourire près). Note (1) «Ciò che può essere preso in considerazione pensando all'Oriente non sono altri simboli, un'altra metafisica, un'altra saggezza ( ... ), ma la possibilità di una differenza, di un mutamento, di una rivoluzione nella proprietà dei sistemi simbolici( ... ) proprio l'incrinatura del simbolico» (trad. it., pp. 5-6). . ). \ \ \ Il morire, come viaggio verso, pone la morte come meta, oggetto di valore e non di terrore. Non è tanto importante sapere perché il percorso sia di quel tipo (perché costeggiare lo stagno, girare sette volte?) ma che ci sia un percorso da compiere, e che lo compia l'intera comunità. (Gli anziani raccolti intorno all'ultimo saké fatto da Orin: ciascuno enuncia una tappa del viaggio; ciascuno lo conosce, non e' è bisogno di dirlo per comunicarlo, per insegnare la strada, ma lo si dice per statuirlo, per riconoscere che c'è). E che lo compia il figlio: portando sulle spalle la madre, egli si fa carico della sua morte, in modo fisico, il più bel modo di esprimere il morale. Ancora due cose da notare: la morte vera e propria non esiste, è Narayama, il Dio, che viene a prendere. Inoltre anche Narayama non esiste o, meglio, non esiste un luogo dove sta, un villaggio dove si compie questo rito. Ci sono villaggi dove esiste questa leggenda, dove si canta questa ballata :_ dove, forse, si portano i vecchi sulle montagne (tutto ciò che è alto è sacro, ma non qui o là). Il che significa che alla bella morte giapponese raccontata da lmgmura serve sostanzialmente una società con un suo patrimonio culturale condiviso dai suoi componenti, la capacitàdi questi ultimi di assumersene le responsabilità (Orin, che aveva tutti i denti, poteva barare con l'età), la fede. Il legame tra il realismo del racconto cinematografico e quellofantastico della leggenda denuncia il bisogno di preservare questa «riserva» di fantastico, forse minacciato - anche in Giappone - da nuovi modelli di «realtà».Non è una scoperta di Imamura che esistano riti molto forti per tutti i «passaggi», fra cui quello fra la vita e la morte. Ci sono libri e libri sull'argomento: per esempio, Storia della morte in Occidente di Philippe Ariès, tradotto nella Bur (Milano 19822 , pp. 260, lire 4500); adesso in Francia ne è uscito uno nuovo, sempre di Ariès, Les images de l'homme devant la mort (Paris, Seui/, 1983, pp. 240, ff. 299), e un altro, sempre monumentale, di un altro storico francese, Miche/ Vovelle, La mort en Occident. La conclusione cui generalmente i testi arrivano, però, parlando della nostra contemporaneità, è che si assiste sempre più al tentativo di evacuare totalmente la morte - e quindi i suoi riti - dalla nostra cultura, negarne ogni valore collettivo. A morire è sempre l'altro, la sua morte non ci coinvolge, sem- (2) «Mi sono concesso la libertà di entrare completamente nel significante ( ... ) e in particolare il diritto.di scrivere per frammenti». (3) «Rispetto a quanto è ricoperto dal discorso costruito, il frammento è un guastafeste, un discontinuo, che instaura una sorta di polverizzazione di frasi, immagini, pensieri, nessuno dei quali 'afferra' in modo definitivo». (4) «Il haiku non è un pensiero ricco ridotto a una forma breve, ma un evento breve che tutt'a un tratto trova la propria forma esatta. ( ... ) L'esattezza del haiku (... è) adeguamento di significante e significato, eliminazione dei margini, delle sbavature e degli interstizi che di solito eccedono o orlano il rapporto semantico» (trad. it., p. 88). (5) Il haiku è «anti-descrittivo, nella misura in cui ogni stadio della cosa è immediatamente, caparbiamente, vittoriosamente trasformato in una fragile essenza di apparizione». (6) «Nessun piatto giapponese è provvisto di centro ( ... ). Il cibo non è mai altro che una collezione di frammenti, nessuno dei quali parrebbe privilegiato da un ordine di ingestione: mangiare non significa rispettare un menù (un mai ci imbarazza. ln un mondo dove nessuno è indispensabile,. la morte di chicchessiapassa del tutto inosservata. Tutto comincia con la malattia (con la vecchiaia?): con la scusa di «non disturbare» viene decretata fin da subito la morte sociale del- /' individuo. Per non parlare di ciò che sono diventati i funerali, le cerimonie funebri appaltate a piccoli supermercati della morte, disposti in alcuni casi a forni re anche un paio di vecchine che piangano. Ma ciò che è impressionante è la perdita di qualsiasi ritualità - di qualsiasi senso - dell'appena prima della morte, il momento in cui, appunto, si avrebbe bisogno di essere «aiutati» a morire. Perfarsi un'idea di come si muore nelle «civiltà avanzate» si può leggere un saggio-rapporto sulla rappresentazione sociale della morte in certi ospedali Usa, raccolto nel reading di P. Giglio/i e Alessandro Dal Lago Etnometodologia, pubblicato recentemente dal Mulino (Bologna 1983, pp. 237, lire 18.000). Il regolamento ospedaliero fa, se vogliamo, sopravvivere una benché minima ritualità solo sul cadavere, che va subito lavato e fasciato in un certo modo. Ma finché il cadavere è vivo (scusate l'eff etto macabro ma nel caso degli stati «irreversibili»è così) il persona/e è addestrato a far /i1J.tadi nien- •. l te - come se non dovesse morire. Gli si continuano a somministrare medicine, a farlo stare in posizioni scomode (per esempio senza cuscino) ma «profilattiche», salvo comunicare con gli altri «vivi» tramite una sorta di codice leprevisioni sul prossimo decesso. Il malato grave, diciamo pure il morente, viene «cadaverizzato» il più presto possibile. Le infermiere diventano molto brave nel capire quanto ci vorrà ancora, e cominciano le operazioni di pulizia e fasciatura appena prima della morte clinica, non tanto per guadagnare tempo (spesso è così) ma perché dà sempre fastidio maneggiare un morto «vero». La «bella morte» non è più quella che ci auguriamo per noi stessi (non può che essere quella violenta e immediata, o quella nel sonno), non coincidepiù con quella che ci chiedono gli altri, o che noi chiediamo agli altri. Di andarsene «con dignità», cioè facendo finta di niente. Di non sapere, di non soffrire. Di non morire, insomma. La ballata di Narayama Regia di Shoei Imamura (Giappone 1982) itinerario di portate), ma prelevare, con un lieve tocco di bastoncino, ora un colore, ora l'altro ... » (trad. it., pp. 27-28). (7) «Il testo non 'commenta' le immagini. Le immagini non 'illustrano' il testo: ( ... ) testo e immagini, nei loro intrecci ( entrelacs), vogliono assicurare la circolazione, lo scambio di questi significanti: il corpo, il volto, la scrittura, e leggere in essi il regredire dei segni» (trad. it., p. 3, sottolineatura mia). (8) «Il corpus collettivo degli hailru è un reticolo di gemme, dove ogni gem- "'=tma rispecchia tutte le altre, e così di c::s seguito, all'infinito, senza che vi si pos- ~ sa mai cogliere un centro, un nucleo -~ primario di irradiazione» (trad. it., p. ~ 92). ~ (9) «La scrittura è la mano, e dunque il ...., corpo: le sue pulsioni, controlli, riàni, e pressioni, slittamenti, complicazioni, ~ fughe, insomma non l'anima (poco im- È porta la grafologia) nia il soggetto cari- 00 cato del proprio desiderio e incon- lr) scio». i;: (10) «Una ripetizione senza origine, un s evento senza causa, una memoria sen- 1:: za persona, una parola senza ormeggi» ~ (trad. it.t p. 93). (l
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