<< losoloeroconfus.o.. >> Federico Fellini Intervista sul cinema a c. di Giovanni Grazzini Bari, Laterza, 1983 pp. 182, lire 8000 « Tutti i miei compagni erano chiari, io solo ero confuso». F. Fellini, Intervista sul cinema L, Intervista sul cinema, che Fellini ha rilasciato in una collana deputata a raccogliere testimonianze di politici, filosofi, scienziati e scrittori, si spacca subito, fin dall'inizio, mettendo in discussione le modalità della procedura inquisitoria. All'intervistatore, che dichiara non essere «stato ancora inventato un modo migliore per spiare nel retrobottega degli artisti», Fellini ribatte sottolineando «l'aspetto imbarazzante e schizofrenico dell'intervista», perché «chi la subisce deve accettare di credere di essere un altro, uno cioè che sa, che ha idee generali, una visione del mondo, e dice la sua sull'esistenza, la religione, la politica, l'amore, le bretelle». Promette inoltre, da parte sua, di sottrarsi a simile tortura in due modi: divagando («a molte domande non risponderò, ad altre mi sottrarrò con i soliti raccontini più o meno inventati»), e intervenendo nella redazione scritta dell'intervista («quando avrai messo insieme il libretto vorrò rivederlo tutto, correggerlo, cercherò di impedirne la pubblicazione, cancellerò le domande, le risposte, tenterò di riscriverlo»). Fatta la tara a quel tanto di monellesco che alleggerisce l'impegno preso con sé e i propri lettori, e al quale (purtroppo) io non so adeguarmi, Fellini non ha inteso affatto annunciare quel che troveremo nella sua intervista. Le domande sull'esistenza, sulla religione, sulla politica, sull'amore (non sulle bretelle, sia pure, ma su qualche surrogato sì), vengono regolarmente poste dall'intervistatore, e l'intervistato le subisce proprio come uno «che ha idee generali, una visione del mondo». La schizofrenia di quel momento è ripercorsa m tutta la sua estensione, sino al punto di sembrare normalità. Voglio dire che Fellini non si sottrae alla procedura messa in atto, accetta il gioco a cui è stato invitato a partecipare, e esce in dichiarazioni che qualche rassegnato, ma non domo, intellettuale dell'engagement definirebbe subito come tipiche degli anni del «riflusso». Fellini risponde in questo senso sulla politica nazionale, sul terrorismo, sull'apocalisse, sul cattolicesimo, sull'astrologia, sul denaro, sul corpo, sullo sport, e persino sulla crisi del cinema, con le prevedibili puntate sul neorealismo e sulla commedia all'italiana. Non dico che queste risposte non vadano prese sul serio, e che di lì non si possa cavare qualcosa per capire meglio l'uomo, se è questo che interessa. In discussione vi è altro. Raramente queste risposte, molto raramente, danno l'impressione che Fellini cerchi di sottrarsi alla domanda sui tasselli della sua Weltanschauung, mettendo in pratica la digressione e la riscrittura. È come se, individuato il rischio di una confessione secondo le convenzioni, il peccatore, o penitente, non riesca a alzarsi dal confessionale, a abbandonare il ministro del culto, e continui, anzi, a rispondergli così come egli si aspetta. Nulla di masochistico in simile atteggiamento, sia ben chiaro, ma neanche un gesto di ribellione, uno sberleffo, una rottura. Se di schizofrenia si tratta, sembra voler dire Fellini, non ha senso sottrarvisi. Al peccatore ha da sostituirsi, allora, l'immagine del martire, meno nel senso etimologico di testimone che in quello diffuso di chi subisce la violenza altrui. Al 'cattolico' Fellini non dovrebbe dispiacere l'abuso di una terminologia siffatta, se pure laicizzata; a chi si occupa di autobiografia, essa, ovviamente, è abituale, senza dovere scomodare il padre del genere (Agostino) e il suo maggior discepolo moderno (Rousseau). Comunque sia, quel che importa è la verifica immediata di una sorta di sdoppiamento del soggetto che dice 'io' in questo testo. La schizofrenia non è correggibile o esorcizzabile: è il dato di fatto dal quale si parte per discorrere di sé. A questo punto l'intervistatore (continuo a non fame il nome, rion per mancanza di un minimo di cortesia nei suoi confronti, ma perché il ruolo che ha nel libro mi pare essere quello di una voce fuori campo, portavoce nel contempo di esigenze collettive e massificanti) è perfettamente inglobato nel discorso su di sé iniziato da Fellini. L'intervistatore garantisce lo sdoppiamento del soggetto alla prima persona, dopo averlo sollecitato. La larga parte che hanno nell'intervista le risposte alle sue domande non significa che egli instauri un dialogo con l'intervistato. La sua presenza non diventa, per altro verso, scontata o passiva: nella procedura accettata da entrambi egli ha una parte da svolgere, che in altri testi autobiografici si sarebbe configurata nei termini della confidenza (un amico), o dell'alterità intellettuale e morale (un maestro), o addirittura della diversità spirituale (uno spirito del bene o uno del male). Fra le risposte che riguardano il cinema alcune coinvolgono da vicino non tanto la «visione del mondo» di Fellini, ma il suo rapporto di cineasta con la realtà. Desterà certamente attenzione quanto egli dice sul doppiaggio, sul montaggio, sulla colonna sonora, sul bianco e nero e sul colore; ma se si vuole capire qualcosa di più sul suo modo di rappresentare le cose (e quindi anche se stesso), bisogna dare credito al discorso generale su che cosa è il cinema per lui. Stabilito che non è letteratura (si legga la risposta, oltremodo lucida, sulle pressioni mai soddisfatte perché realizzi una pellicola dantesca), risulta tosto che il film, in quanto spettacolo per gli altri, prodotto destinato al consumo, non appartiene alle figure del dire di sé. «Trovarmeli di fronte - dice Fellini dei suoi film - sullo schermo, o in televisione, mi provoca una specie di allarme, come quando camminando per strada vedi riflessa in una vetrina o in uno specchio una figura che ti sta guardando, e con sgomento riconosci che sei tu». Parrebbe quasi che il film, appena creato, venga tosto catturnto dal mondo da cui proviene l'interMarziano Guglielminetti vistatore, e si comporti, di nuovo, come un doppio non gradito dell'io autentico. Qualcosa del genere accade quando Fellini lascia capire di privilegiare rispetto al prodotto finito la fase del montaggio: «Il rapporto diventa privato, personale; niente più confusione, niente più estranei, visitatori, amici che bene o male costituiscono un magma nutriente durante le riprese. Devo restar solo con lui, il film, e col montatore. «Si arriva così alla prima visione in saletta: 'lui' esce dallo schermo ridotto della moviola dove aveva connotati dolcemente amichevoli e invade lo schermo a formato regolare. Ha già acquistato autonomia; le immagini sono le sue, quelle che ha saputo guadagnarsi e quelle con le quali l'ho inseguito. E sempre il tuo film? Lo riconosci ancora? Ha un volto a mezza strada fra il ricattatorio e il fraterno». Volendo, si può interpretare questo passo come un documento estetico, da annoverarsi sotto la rubrica della percezione da parte dell'artista del proprio prodotto come qualcosa che non gli appartiene, perché deformato dal tipo di Max Reinhardt e Helene Thimig, 1936 (foto di Lotte Jacobi). comunrcazione e di circolazione in cui esso s'inscrive. Ma forse, se vale la chiave autobiografica sinora utilizzata, la scoperta non gradevole del film come di una proiezione distorta di parte di sé (quasi un sosia degradato e degradante) rientra meglio negli schemi dell'autobiografia (e della. biografia) degli artisti, al capitolo del dire di sé attraverso le proprie opere. Si pensi al Perseo del Cellini, con l'avvertenza che qui il mancato riconoscimento di sé nell'opera conchiusa (anche Cellini, a ben vedere, privilegia il farsi della sua statua) assume figure e modi di una ben diversa condizione dell'artista e della sua alienazione come produttore. Né paia azzardato il confronto, dal momento che in un altro luogo del libro Fellini, discorrendo dei produttori cinematografici, tesse l'elogio, sia pure sotto forma di paradosso, della committenza mecenatesca del Rinascimento («c'è un tipo di artista che vuole vivere la sua libertà dentro i limiti stabiliti dalla committenza, anche perché in tal modo può sentirsi sollevato dai sensi di colpa dipingendo, per esempio, un crocefisso»). D i contro. allo sdoppiamento angoscioso, provocato dal film, non sta soltanto il ritiro gioioso nella fase preparatoria di esso. «Il mondo intero - durante la stesura del film - è un set a nostra disposizione, un immenso trovarobato su cui mettere le mani senza chiedere permesso». Ma non si tratta di contrapporre all'alienazione del prodotto la liberazione dell'invenzione. È sempre (e Fellini lo afferma nettamente) «alienazione, usura del mestiere, un po' come accade al pittore, per il quale gli oggetti, le facce, le case, il cielo, sono soltanto forme di cui può disporre». Ut pictura cinema, dunque, ed è conseguenza per nulla difficile da tirarsi, anche senza il soccorso dell'esperienza grafica di Fellini, antica e nuova, dalla collaborazione giovanile ai giornali umoristici (il Marc'Aurelio) sino ai materiali figurativi per le sue pellicole e ai vari disegni di recente raccolti in un altro volume laterziano. Non a caso il luogo di lavoro, il famoso Teatro 5 di Cinecittà, vuoto ha l'aspetto di una tela bianca: «uno spazio da riempire, un mondo da creare» (ed è anche metafora, questa, di uno spazio erotico: «il punto più alto dell'amore o il massimo della tensione espressiva sono la stessa cosa»; «l'artista identifica l'espressione con l'amplesso»). Non a caso, ancora, il solo squarcio lirico della prosa di Fellini è una sorta di platonico inno alla luce (artificiale, però, non solare): «La luce è la materia del film, qùindi nel cinema la luce è ideologia, sentimento, colore, tono, profondità, atmosfera, racconto. La luce è ciò che aggiunge, che cancella, che riduce, che esalta, che arricchisce, sfuma, sottolinea, allude, che fa diventare credibile e accettabile il fantastico, il sogno, o, al contrario, rende fantastico il reale, dà miraggio alla quotidianità più grigia, aggiunge trasparenze, suggerisce tensioni, vibrazioni. «La luce scava un volto, o lo leviga, crea espressione dove non c'è, dona intelligenza all'opacità, seduzione all'insipienza. La luce disegna l'eleganza di una figura, glorifica un paesaggio, lo inventa dal nulla, dà magia a uno sfondo. La luce è il primo effetto speciale, inteso come trucco, come inganno, come malìa, come bottega alchemica, macchina del meraviglioso. La luce è il sale allucinatorio che bruciando sprigiona le visioni; e ciò che vive sulla pellicola vive per la luce. «La scenografia più elementare e rozzamente realizzata può con la luce rivelare prospettive inattese, insospettate, e calare il racconto in una atmosfera sospesa, inquietante; oppure, spostando appena un cinquemila, e accendendone un altro in controluce, ecco che ogni senso di angoscia si dissolve e tutto diventa sereno, familiare, rassicurante. Il film si scrive con la luce, lo stile si esprime con la luce». F ra le cose che non gli piacciono Fellini mette Pirandello, prima delle «crèpes suzettes»; suo malgrado, io ho letto l'elogio della luce avendo nella mente Cotrone e i Giganti della montagna. Ma non è di questo che voglio parlare, in ultimo; ci sono riferimenti espliciti a altri artisti contemporanei, che consentono di portare avanti alcune indicazioni testé offerte. Siamo sempre nell'atmosfera iniziale del gioco; l'artificio è di casa, e non vi si sottrae l'alternativa esistenziale angoscia-serenità. La lettura giovanile di Kafka ( Le metamorfosi) è essa stessa un'operazione luminosa, è qui la ragione dell'impossibilità per Fellini di accomunare Kafka e Dostoevskij, in cui l'inconscio collettivo, al contrario, «affiora»: nelle Metamorfosi «l'inconscio individuale, la zona d'ombra, il sottosuolo privato veniva improvvisamente rischiarato dalla luce algida, un po' plumbea e tragica, da genio ebraico, di quel grande poeta-profeta». Ma in Kafka c'è anche una valenza magica, «quel suo modo di affrontare l'aspetto misterioso delle cose, la loro indecifrabilità, il senso del labirinto del quotidiano che diventa magico». Più avanti negli anni, al tempo stesso di Satiricon, il fascino di Petronio, invece, nasce inizialmente dalla mancanza di luce avvertita nel suo libro: «le parti mancanti, cioè il buio, fra un episodio e l'altro». Poi la privazione risulta apparente; esiste un'altra luce nel Satiricon, a suo modo artificiale, perché anch'essa non appartiene al giorno: «Mi fece pensare alle colonne, alle teste, agli occhi mancanti, ai nasi spezzati, a tutta la scenografia cimiteriale del!'Appia Antica o in generale ai musei archeologici. Sparsi frammenti, brandelli riaffioranti di quello che poteva anche essere considerato un sogno, m gran parte rimosso e dimenticato: (... ) una grande galassia onirica, affondata nel buio, fra lo sfavillio di schegge fluttuanti, galleggianti fino a noi». Credo che, adesso, diventi difficile non capire la cifra di qualcuno dei film che Fellini rievoca con particolare trasporto. Otto e mezzo, ad esempio, il cui protagonista è simile a «un palazzo al quale è crollata la facciata, e che rivela il suo interno, tutto insieme, scale, corridoi, stanze, solai, cantine, e i mobili di ogni stanza, le porte, i soffitti, e le condutture, gli angoli più intimi, più segreti»; E la nave va, ben inteso, nel quale, «come per tutti i viaggi nel tempo, le incursioni fra le pieghe del passato, la realtà che si giunge a toccare, a evocare, ha sempre il sapore del reperto, del documento riportato a galla, sottratto alla polvere di uno scavo archeologico, liberato dalla sabbia che lo avvolge sul fondo del mare». Infine Mastorna, il film mai realizzato e proprio per questo il più consentaneo di tutti, nell'ottica simbolica del buio e della luce, dell'abisso e dell'emersione: «alla fine di ogni film il suggestivo fantasmone si ripresenta come per chiedermi di essere realizzato, e ogni volta accade qualcosa che lo fa riaffondare, glorioso relitto, nelle profondità abissali dové giace da una ventina d'anni ormai, e da dove, prodigiosamente, continua a mandare fluidi, correnti radioattive che hanno nutrito tutti i film che ho fatto al posto suo». Si ritorna così quasi al punto di P,artenza, alla significanza superiore del film non-finito sul film prodotto. Ecco perché, per fedeltà a questo leit-motiv, non è parso opportuno abbandonarsi ai tanti ricordi accumulati da Fellini su ciascuna delle sue opere (occasioni della loro nascita, attori protagonisti, sceneggiatura, ecc.). Di conseguenza, anche i ricordi di vita giovanile, quasi tutti collocati in Rimini, sono stati sacrificati. Fellini non si dorrà se, dimentico di uno dei modi di reagire all'intervistatore, ho preso quasi alla lettera queste sue parole: «Non ho grandi ricordi, e poi ho svuotato tutto nei film che ho fatto». \.
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