Roland Barthes L'empire des signes Genève, Skira, 1970 pp. 151 L'impero dei segni trad. it. di Marco Vallora Torino, Einaudi, 1984 pp. 135, lire 10.000 Le grain de la voix. Entretieos 1962-1980 Paris, Seuil, 1981 pp. 344 Autori vari Cento haiku a c. di Irene Iarocci pres. di Andrea Zanzotto Milano, Longanesi, 1982 pp. 184, lire 8000 Cl è un libro. Prima pagina: fotografia di un giovane attore vestito da samurai. Ultima pagina: foto del medesimo, l'espressione del giovane è lievemente rilassata. Il testo si trova fra queste due immagini quasi uguali. Nella pagina a lato dell'ultima foto si leggono tre parole scritte a mano: «... Au sourire près». Le uniche differenze fra le due espressioni dell'attore sono le sopracciglia meno marcate, gli occhi allungati, e soprattutto l'apparire dei denti bianchi dietro le labbra socchiuse nell'ultima foto. Che sorrida, ma in un modo irriconoscibile? Sorriso forzato? Forse. Oppure è quello naturale? Chissà. «Au sourire près», almeno. Punque, l'attore non pare serio né sorridente: sta a metà. La sua espressione è inclassificabile- atopos {senza luogo) - secondo la fisionomia dicotomica impostata dal pensiero dialettico occidentale. L'arte fisiognomica è un congetturare sulle -relazioni tra volto e affetto interiore, come rabbia, tristezza, noia, ecc. Essa è la ricerca del senso definibile e definitivo dell'espressione alla base del rapporto di «rinvio» dal visibile all'invisibile. Il «près» rifiuta la tipologia fisiognomica. Ma quale faccia? La fisiognomica si ferma davanti al caso di «sourire près». Tuttavia, quell'espressione delicata non dovrà prendersi come «idée réçue», come sorriso mistico asiatico. «Ce qui peut etre visé - ha scritto l'autore - dans la considération de l'Orient, ce ne sont pas d'autres symboles, une autre métaphysique, une autre sagesse {... ); c'est la possibilité d'une diff~rence, d'une mutation, d'une révolution dans la propriété des systèmes .symboliques (... ) la fissure meme du symbolique». (R. Barthes, L'empire des signes, pp. 78)1. A l di fuori dello spazio tra le due foto troviamo il titolo e il nome dell'autore: Roland Barthes, L'impero dei segni. Il libro è basato sulla sua esperienza ~ giapponese (qualche mese) tra il -5 1966 e il 1967. Ci si ricordi che in [ quel periodo il paese non era an- ~ cora di moda, come oggi. Kawaba- -. ta, Mishima, Tanizaki, Ozu, mao crobiotica, arti marziali. .. avevano ~ !::I solo un pubblico limitato. «Je me E: suis donné la liberté - ha scritto ~ . Barthes nel 1971 - d'entrer com- ~ plètement dans le signifiant ( ... ) et ~ notamment le droit d'écrire par 1 fragments» (R. Barthes~ Le grain i:i de la voix, p. 138)2. È il Giappone - in particolare il haiku - che ri-attiva il suo gusto «molto antico» per il frammentario. Rispetto alle opere degli anni sessanta più sistematiche (Sur Racine, Système de la mode, SIZ, ecc.), quelle degli anni settanta {cioè, dopo L'impero) sono ovviamente frammentarie { Le plaisir du texte, Roland Barthes par lui-meme, Fragments d'un discours amoureux, e La chambre e/aire). «Par rapport au nappé do discours construit, le fragment est un trouble-fete, un discontinu, qui installe une sorte de pulvérisation de phrases, d'images, de pensées, dont aucune ne 'prend' définitivement» {ibidem, p. 198)3 • I frammenti sono per definizione brevi. Brevi non come la massima occidentale che presuppone un senso profondo e lo riduce alla fornicativa alla definizione semanticamente garantita. Il haiku, invece, si trova fuori dal campo semantico o nel dominio asemantico caratterizzato dal senso fratturato ( effractionné), sfaldato ( effrité), smarrito (égaré), e scannato (egorgé). In luogo della descrizione dell'evento, il haiku lo «designa»: È quello, È là, o Là! La designazione sembra l'unico modo di disporre dell'evento in sé. Curiosamente, Barthes ha scoperto la funzione di designazione, d'indice, nella cena giapponese: i bastoncini. È lo strano incontro fra bastoncini e haiku su un tavolo di cucina. Il pasto giapponese lo ha affascinato non per gusto (nella ventina di pagine dedicate al cibo giapponese non troviamo alcun riferi-- mento al gusto), ma per l'apparenza e il procedimento estetico del volto smontato di Henry Fonda in The Wrong Man di Hitchcock). La pluralità dei frammenti è possibile soltanto grazie alla discontinuità dei pezzi: in altri termini, gli intervalli, gli interstizi, lo spazio vuoto realizzano la frammentarietà e la sua pluralità. Il vuoto in sé non si serve di niente ma, contribuendo alla polverizzazione del reale, ne diviene la forza e l'intensità. Il vuoto è paradossalmente pieno. Ma pieno di cosa? Barthes ha scoperto il vuoto ovunque nel sistema di segni che chiama Giappone: lingua, cibo, gioco di pachinko, sistema di indirizzi, haiku, teatro di Bunraku, saluto, volto, ecc. Non a caso la prima immagine dopo la foto dell'attore in prima pagina, di cui si è già detto, è l'ideogramma significante il vuoto, «Mu». Il paese del vuoto Schiller: «No, mio caro Goethe, con le percentuali laggiù non guadagneremo più niente, da' un'occhiata ai programmi ... » Ibsen: «La nostra sola speranza sono i cinema» (Da Das Welttheater, n. 2, 1912). ma breve, ma come il haiku che non ha né un senso né un non-senso, né descrizione né definizione. Che è futile, breve, banale. «Le haiku n'est pas une pensée riche réduite à une forme brève, mais événement bref qui trouve d'un coup sa forme juste. ( ... ) La justesse du haiku ( ... est) adéquation du signifiant et du signifié, suppression des marges, bavures et interstices qui d'ordinaire excèdent ou ajourent le rapport sémantique» (L'empire, pp. 98-99)4. La descrizione dell'evento significa il lavoro di aggiungere o togliere linguaggio après-coup. Il «senso» dell'evento si confonde con questa interpretazione tardiva o con la sproporzione fra significante e significato. Invece, il haiku è «contre-descriptive, dans la mesure où tout état de la chose est immédiatement, obstinément, victorieusement converti en une essence fragile d'apparition» (ibidem, p. lOO)S.Il commento sul haiku sarà impossibile, perché il suo trittico parla di tutto e niente (sarà un «evento puro», se esiste?): «Parler do haiku serait purement et simplement le répéter» (ibidem, p. 93). Il haiku è decifrabile e, allo stesso tempo, insignificante. Questi due tratti sono incompatibili nell'arte occidentale, perché la leggibilità è sempre collegata alla comprensibilità, la descrizione comucucinare, e per la sua de-centralità. Non c'è un ordine premeditato in tavola, come aperitivo-primo piatto-secondo-formaggio ... Dunque, non esiste il concetto di hors d'oeuvre - anche se esso ci viene richiamato dai piccoli piatti tipicamente giapponesi, a causa della mancanza del concetto di «oeuvre» (opera) alimentare in Giappone. Perciò i piatti sono sempre «hors-d'oeuvre» (fuori dell'opera): il cibo del fuori. Nel ristorante giapponese, i clienti ordinano il piatto seguente, mentre ancora mangiano. Il pasto giapponese non mi sembra !'«opera» già costruita e sistemata, ma l'opera che si fa, work in progress. «Aucun plat japonais - scrive ancora Barthes- n'est pourvu d'un centre (... ). La nourriture n'est jamais qu'une collection de fragments, dont aucun n'apparait "privilégié par un ordre d'ingestion: manger n'est pas respecter un menu (un itinéraire de plats), mais prélever, d'une touche légère de la baguette, tantòt une couleur, tantòt une autre ... » (i/empire, pp. 32-33)6 • I frammenti sono sempre plurali, non esiste il frammento. L'insieme dei frammenti non può più diventare un'immagine integra e totale, come uno specchio caduto non può rifletterla. (Si veda ad esempio la famosa scena del può essere caratterizzato dal gioco libero, mobile, senza «ancoraggio», dei segni, che non è un «rinvio al» significato ultimo, come si ha nell'Occidenté, come il nome di Dio, della Scienza, della Ragione, della Legge. Barthes fa l'esempio di Tokyo, la cui zona centrale è occupata dal Palazzo imperiale, l'impenetrabile, dov~ avviene che tutti i movimenti del traffico debbano fare una svolta: l'imperatore come il vuoto centrale del Giappone. L'intuizione barthesiana sulla struttura urbana, al di là delle sue intenzioni, arriverà a un discorso sulla struttura del potere politico giapponese. L'imperatore è, secondo l'eminente antropologo Masao Yamaguchi, «capro espiatorio», il «terzo escluso» (R. Girard), che domina l'Impero mediante la propria esteriorità a esso, o l'assenza dall'istituzione del regno giapponese. È «marcato» in senso linguistico e antropologico. La sua è l'unica famiglia senza cognome in Giappone, una famiglia che non si deve confondere con le altre. (Infatti, essa non ebbe parentele con famiglie non imperiali fino al 1958). La mancanza del cognome è il modo più chiaro di dichiarare la particolarità della famiglia. È segno zero del cognome, o grado zero della famiglia. La famiglia imperiale è la Famiglia di tutte le al- ' tre. L'uomo senza cognome è il Padre di tutti gli altri. «Purosangue»? Sì, ma nessuno può garantire la sua autenticità in termini positivi e storici. Il regno .è (era) autentico perché -era (era stato) au- ; tentico. Esso è così com'era. Nessuna legge, nessuna regola di successione, o nessun fatto storico (battaglia, invasione, cedimento, assassinio, matrimonio ... ) può dimostrare la «radice» autentica del~ la famiglia imperiale. Le uniche testimonianze ufficiali sono gli eventi mitici stabiliti in due opere dell'VIII secolo. Ciò che si vede nel centro di Tokyo è la forma vivente dei miti. I miti non parlano più, ma esistono evidentemente davanti ai nostri occhi come segni vuoti. L'imperatore non è il simbolo del paese come stipulato nella Costituzione del 1946, ma il suo indice. «Banzai!» urla furiosamente il popolo sventolando la bandiera nazionale e alzando le braccia, davanti al Palazzo imperiale, quando la Famiglia si presenta nel giorno di capodanno e in quello del compleanno dell'imperatore. L'esclamazione straordinaria non significa felicitazione («Viva!»), ma designazione («Eccolo, l'imperatore!», o soltanto «Eccolo là!»). Due volte l'anno, quando il centro vuoto è pieno - perché capodanno e compleanno - del segno zero. Giappone, l'anno zero. L a ricerca barthesiana dello spazio vuoto domina il libro non solo al livello discorsivo, ma anche testuale in senso' lato. Prima della foto dell'attore, Barthes scrive una sorta di epigrafe o, più esattamente, pre-testo: «Le teste ne 'commente' pas les images. Les images n' 'illustrent' pas le texte: ( ... ) texte et images, dans leur entrelacs, veulent assurer la circulation, l'échange de ces signifiants: le corps, le visage, l'écriture, et y lire le recul des signes»7 • La costituzione verbo-visuale del libro appare molto raffinata e ben organizzata: foto senza testo, foto con testo in corsivo o scritto a mano, testo nella/ fuori della immagine, varie misure e proporzioni tra foto e testo, diversi tipi di testo (lungo-breve, descrittivo, interpretativo, originario, ripreso dal testo stesso, citazione da Sollers, e così via). La significazione sarebbe prodotta dalla collaborazione armonica dei due sistemi semiotici. Il modello ideale per l'autore pare un quadro con testo di haiku (o testo con quadro) al quale egli aggiunge il proprio testo: «Où commence l'écriturè? Où commence la peinture?» (L'empire, p. 31). Ciò che a Barthes interessa è la semiosi costituita dal tessuto della immagine-scrittura - né l'immagine né la scrittura - o l'effetto dell'inferenza (l'inter-ferenza) dei due sistemi apparentemente distinti. È l'utopia dei segni nessuno dei quali reclama il proprio diritto o impedisce la significazione dell'altro. Essa non è altro che l'immagine-scrittura che si gode la «felicità dei segni» (come scrisse Barthes nel 1972). La tendenza alla visualizzazione (la messa in immagine del testo) e alla miniaturizzazione, ovviamente proseguita da Roland Barthes par lui-meme e La chambre e/aire, è inseparabile dall'altra: quella dell'edonismo della lettura e scrit-
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