Sigmund Freud Lou Andreas Salomé Eros e conoscenza a c. di Mazzino Montinari trad. it. di M. A. Massimello e G. Schiavoni Torino, Boringhieri, 1983 pp. 253, lire 32.00Q Lf incontro di Lou A. Salomé con Freud avviene per Jet- . tera. È l'autunno del 1912, e la Salomé scrive chiedendo di essere ammessa alle Conferenze del sabato nella clinica psichiatrica di Vienna. A esse si aggiungeranno le «serate psicologiche del mercoledì» e i colloqui privati con Freud fino a notte inoltrata. Trascorso queli'intenso semestre invernale, a primavera c'è il ritorno a Berlino. Da allora in poi, per ventisei anni ininterrotti, si scriveranno. Fa da intervallo il soggiorno di Lou Salomé in casa Freud nell'autunno 1921. Succede qualcosa e da allora un nome, Andreas, cadrà nell'intestazione delle lettere dell'uno e nella firma in fondo a quelle dell'altra; resta quel Lou con cui il pastore Gillot aveva ribattezzato la giovane russa Ljola che per primo l'aveva amato. Con questo nome dal sapore di vezzeggiativo familiare essa sarà d'ora in poi chiamata da Freud. Con questo nome si designerà per lui. Che si amino non c'è dubbio. Ma di che tipo d'amore? La forma di quest'amore è definita dal luogo che l'uno occupa per l'altra e viceversa: è quello di un soggetto supposto sapere. Ciaicuno suppone nell'altro/a qualcosa del sapere che gli manca; ma è un domandarsi che si fonda sul presupposto che il proprio interlocutore non sia onnisciente. Da qui lo scambio, la funzione di un dono - la produzione teorica, il frammento di nuovo strappato alla clinica - sempre parziale. In questo senso l'amore tra Freud e Lou, fondato sul sapere della mancanza propria e dell'altro, è reciproco. Ciascuno dei due ha un «debole», effetto della mancanza che li lavora, che l'altro riconosce. (Ma non è proprio questo ciò che nell'altro si ama?) Intorno vi si aggrumano, come per pudore, scorie d,.immaginario, idealizzazioni affettuose che condiscono gustosamente il loro par- •larsi. Ma di che parlano? Oltre le chiacchiere sul quotidiano, che spesso va e non va per entrambi, come per tutti, l'oggetto comune e fragile (Io si sapeva bene allora) è il campo inaugurato da Freud: la psicoanalisi e il suo inconscio. In questo luogo del loro cercare sono mossi da desideri eterocliti che continuamente si annodano per continuare a divergere. Un'altra coppia, quella di Freud e Abraham, pressapoco negli stessi anni si scambiava una fitta corrispondenza tra Vienna e Berlino. Gli argomenti? La clinica e la sua teoria, certo, ma soprattutto la politica. Tattica e strategia del movimento analitico saldavano con forza un legame in cui i posti del maestro e dell'allievo, del padre e del figlio, erano assegnati; tutt'al più venivano scambiati questi ultimi. I due erano fatti per intendersi, è Freud a dirlo a più riprese, e questo costituisce un a priori: suppone impossibile il fraintendimento. Alla peggio ci si può sempre Freud-LouSalomé spiegare e tornare a capirsi, come sempre. Abraham asseconda il desiderio di Freud e aderisce infaticabilmente al suo compito: fa da • testa di ponte della causa psicoanalitica a Berlino, evita le fratture interne al gruppetto dei cinque (Ferenczi, Sachs, Jones, Rank, Abraham), delegati a tenere le fila del movimento, allaccia i rapporti con le istituzioni. P er Lou si tratta di tutt'altra storia: né allieva né fedele, ma solo «affezionata» e «riconoscente», come lei stessa ·si firma, pretende di percorrere strade tutte sue per poter concordare con le posizioni di Freud. Qualche volta dissente. Un esempio è il 'caso Groddeck' di cui Freud stesso le segnala il primo scritto: «Sarà per Lei di grande interesse, quantunque l'autore inclini alle esagerazioni, alla semplificazione ed al misticismo ( ... ). Il suo "Es" è più del nostro "INc", ma in quello che lui non ha chiaramente distinto da quest'ultimo c'è qualcosa di autentico. Qui si ritrovano i lati più seducenti della psicologia dell'Io adleriana» (lettera del 7 ottobre 1917). All'epoca, la scissione adleriana era già consumata da un pezzo, dunque l'accostamento di Freud è nettamente svalutativo e l'osservazione pungente. Ma ecco la risposta, dettata da un'indipendenza di giudizio cui la Salomé non rinuncerà mai: «mi sembra privo di fondamento il problema di sapere fino a che punto il suo "Es" equivalga al nostro "1Nc", o se invece si estenda oltre; egli è chiaramente uno di quelli che si servono delle loro teorie al fine di poter procedere e osare a sufficienza nella ricerca; salvo poi ad abbandonare di nuovo o a modificare le proprie concezioni. E questo dopotutto è anche il Suo punto di vista» (lettera del 15ottobre 1917). La lettera continua su un tono di difesa tanto vivace da insospettire: è l'audacia teorica di Groddeck o la propria che Lou difende dalla cautela freudiana tesa a proteggere i fondamenti della: teoria? Pure, per una singolare eccezione, Freud non è mai cauto nei suoi confronti: se non ne condivide gli slanci ottimistici e umanitari, ne sorride con indulgenza affettuosa; se dichiara di «accontentarsi» del frainm·entario e dell'incompiuto, ammira le sue capacità di sintesi; se non la segue nelle formulazioni teoriche, sospe_ndeil giudizio senza criticarle. Perché? Esplicitamente è lei, Lou, che domanda. Ad esempio, quando mette Freud nella posizione di «controllore»: gli parla dei propri pazienti che, con ardore iniziatico, nei casi d'indigenza segue spesso gratis. Freud glielo rimprovera con tenerezza paterna e provvede personalmente alla sua sussistenza materiale. Le invia del denaro. Per che cosa paga? Qual è il suo debito? Forse è per quel sapere che Lou gli offre in dono? Non è il sapere del maftre, pure è un sapere che insegna su un enigma inseguito da quando quella Dora (1901), così bella e intelligente, è caduta di mano al suo analista lasciandogli come resto la x di un desiderio indecifrato. «Quanto Lei racconta della sua· Marisa Fiumanò K. lascia interdètti. Mi priva della· speranza di poter un giorno catturare questa diversità in un paio di formule» (lettera dell'8 maggio 1930): K. è una giovane paziente di Lou. Per Freud K è una letterasignificante: con essa designava la Signora dalla pelle morbida e bianca che per Dora racchiudeva il segreto della femminilità. È il 1930 e Freud le scrive da Tegel, dove si trova per sottoporsi alle misure per una nuova protesi alla mascella. Come sempre, quando è costretto a constatare l'ingovernabilità di quel «corpo estraneo», che è il suo stesso, malato, non manca di un'ironia saggia e amara: «In casa di cura ho appreso che la salute si può avere a prezzo di un certo sacrificio e, poiché la salute è simile ai libri sibillini, ho pagato questo prezzo. Vale a dire, ho rinunciato completamente al fumo dopo che mi è servitu, per cinquant'anni esatti, ,, seduzione degli entusiasmi di lei. La chiama «mia cara indistruttibile arnica» e la conferma nella desiderata posizione filiale parallela a quella di Anna, la figlia prediletta. .La vecchiaia, per altro, era considerata da Lou come una nuova infanzia col vantaggio aggiunto della ricchezza dell'esperienza, della libertà dalla dipendenza del desiderio degli adulti, dell'affrancamento da quell'età di mezzo che le appare «una via senza uscita, anche se certamente meravigliosa, dove non c'è posto che per due persone una affianco all'altra» (p. 163). Giovinezza e maturità costituiscono soltanto un «breve periodo» di interruzione della distesa incommensurabile che lega la prima alla terza età dell'uomo. Solo il corpo («che il diavolo se lo porti»), biologicamente degradato, ostacola la continuità del ricongiungimento e si rivela progressivamente un ostacolo. Felix Dormann in Die Zirkusgrafin (Vindobona-Film, Vienna 1912), regia di Felix Dormann. da protezione e da·arma nelle lotte dell'esistenza» (p. 185). Lou, al contrario, si ribella: «Lei sa bene che nella mia filosofia pitocca io consid~ro la sofferenza fisica come la cosa più abominevole» (lettera del 9 maggio 1931). L'insopportabile qui è la malattia organica, il sintomo che la parola non dissolve, il reale del corpo segnato dal destino comune di morte. Quel piacere di vivere, bandiera della filosofia di Lou, trova qui il suo limite inamovibile ma da lei riconosciuto sempre a stento. Quando è il suo corpo a essere malato, l'inevitabile ammissione della sofferenza si accompagna alla scoperta di nuovi piaceri e sensazioni: «quando mio marito veniva tutti i giorni in clinica nelle apposite ore di visita e si sedeva nella poltrona accanto al letto a chiacchierare con me, noi due vecchietti ci accorgevamo di quanto avessimo da raccontarci, cosa per cui non avevamo mai avuto tempo prima» (lettera del 3 maggio 1930). Se il corpo comincia a invecchiare, una giornata di primavera che conceda di rilassarsi al sole rivela dei «lati soleggiati che difficilmente si riesce a cogliere in altre stagioni della vita» (p. 162). Nel risponderle, Freud dichiara invece il suo malumore senile, «la totale disillusione, paragonabile alla rigidità di un paese lunare», ma accetta di giocare - con lei che per lui si vuole vecchia bambina inguaribilmente ottimista - il ruolo del padre disincantato ma sensibile alla S iarno al nocciolo duro del problema, l'esperienza del limite presentificata dall'intrecciarsi dei temi della sessuazione e della morte. Ecco la castrazione intesa nel suo senso più .radicale, di condizione strutturante dell'essere. È essa a congiungere le estremità della vita, senza risparmio per nessuna delle sue stagioni. Neppure per la mitica infanzia. Per Freud si tratta di un presupposto che è possibile solo saper sopportare. Per Lou è un ostacolo da aggirare. Letteralmente: vi gira intorno. Nei suoi scritti non c'è traccia di una teoria della castrazione. Si direbbe che di essa, dell'impotenza, della morte, propria e di chi le è caro, non voglia saperne nulla. L'inamovibilità di questo «reale» appare dissimulata dal suo bel dire affabulatorio, da una scrittura che costruisce scenari per ambientarvi gli affetti, dalla pregnanza evocativa delle immagini che disegna. Lou resta prima scrittrice che analista. E non era stata lei d'altronde a sconsigliare a Rilke la strada dell'analisi? Annotava sul diario nel 1913: «Amare la vita è l'unico mezzo sicuro per essere risparmiati dalla morte: perché la morte è un pregiudizio». La figura di Rilke morto assume tinte che non «scoloriscono», si inseriscono anzi «come una parte legittima della realtà, nella policromia o nella luminosità dell'ambiente». L'ambiente, per Lou, è la natura dove l'incessante alternarsi delle stagioni testimonia e garantisce la complementarità della vita e della morte - soprattutto la reversibilità di quest'ultima. A partire da questa certezza commenta l'Aldilà del principio di piacere: «A proposito delle considerazioni sulla vita e sulla morte posso dire sia di essere d'accordo, sia di muovermi nella direzione opposta (... ). Come l'azione del vivere può essere intesa ( ... ) quale puro e semplice. viaggio verso la morte, così viceversa ad esempio anche la tendenza della materia elementare a regredire allo stato di quiete originario può essere intesa come una sorta di ritorno al fondamento dell'esistenza?» (lettera del 26 dicembre 1920). Avanza con grazia leggera il proprio dissenso, vi aggiunge un punto di domanda, ma tenta la direzione opposta a quella di Freud - opposta alla perdita e perennemente tesa al ritrovamento di un'unità originaria. È strano. La stigmatizzazione netta, a volte spietata, di Freud nei confronti di alcuni allievi è avvenuta per deviazioni teoriche certo non più gravi di questa. Eppure, nel caso di Lou, Freud non commenta né tanto meno analizza una posizione che potrebbe a buon titolo considerare una resistenza a affrontare la propria condizione di soggetto diviso e assoggettato alla morte. Se lei fa l'isterica, lui si mostra divertito e sceglie di lasciarsi sedurre. Per questo non può farle da analista. D'altro canto, Lou non glielo chiede. Ha sempre mantenuto nei suoi confronti una posizione di eguaglianza, di reciprocità - non ha mai chiesto, direttamente, che le rinviasse, svelata, la propria ignoranza. Dai documenti a disposizione è impossibile dedurre se abbia fatto o meno una analisi. Forse con Abraharn, ripetutame.nte incontrato a Berlino? In ogni caso avrebbe lasciata intatta la dimensione mitica di un mondo immaginario, né avrebbe trovato risposte a quella domanda, «Che cos'è una donna?», che Lou aveva posto ai grandi uomini di cui incrociava i destini. Aveva fecondato la loro produzione, riaperto col suo ascolto le porte della loro infanzia dimenticata. Così per Nietzsche, così per Rilke. Per cos'altro, se non per farsi rispondere, li avrebbe «femminilizzati»? «L'eterno mascolino» di Lou, così Nietzsche definisce questa sua posizione. E coglie nel segno. Porre attraverso l'uomo la domanda sul proprio sesso è la strategia delle isteriche. Lou Salomé l'adotta intrecciando all'enigma della femminilità quello dell'origine, dell'indifferenziato, del nonsessuato. È il luogo dell'unità. Della Madre-Terra? Eppure la maternità è esclusa dal suo proget- co to di vita. Non è fi la soluzione al (°\I o:::s suo enigma e forse non è una solu- .:: zione quella che cerca, ma la sua l articolazione più complessa. ~ Freud doveva saperlo se l'ha se- ....., guita nell'incrociare col suo il pro- o t! prio sapere. L'epistolario, come o:::s una partitura, ne scrive la disso- E nante armonia che ne risulta. ~ ~ s <u .C) ~ o:::s
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==