delle grandi borghesie nazionali tra Ottocento e Novecento»), Heidegger è collocato insieme a Bergson, all'esistenzialismo e allo spiritualismo, sotto il cartello indicatore «irrazionalismo». A lui sono concesse in tutto tre pagine (tante quante, più avanti, ne avrà Galvano Della Volpe). Husserl, invece, il cui pensiero - come è noto - prepara quello di Heidegger e vi si intreccia, è dislocato molto distante, nel capitolo dedicato a «Scienza e filosofia», insieme al neokantismo, alle «grandi correnti epistemologiche», a Popper. Allontanato e salvato dall'irrazionalismo, Husserl però si merita soltanto una pagina e mezza, una scarna schedina: Popper, in compenso, più di tre! Due capitoli su cinque, inoltre, sono dedicati al marxismo: il volume si chiude, infatti, con «Il marxismo nella cultura contemporanea», dopo aver riservato a sociologia, antropologia, linguistica e psicanalisi rapidi schizzi generali (prevedendo il ruolo che le «scienze umane» dovranno avere nel futuro Liceo riformato). Con una tale impostazione capita che Whitehead sia menzionato esclusivamente come collaboratore di Russell, che Scheler non sia ricordato per le sue ricerche di fenomenologia ma solo nel capitolo «Il marxismo dopo Marx» per il suo nazionalismo vitalistico; che Lacan non sia collegato a Freud e allo sviluppo della psicanalisi ma ad Althusser, e analogamente accade per Bachelard. Ci sono Plechanov e R. Mondolfo, Togliatti e Mao, ma non vengono fatti nemmeno una volta i nomi di Musi), Kafka e Proust - nemmeno quelli di Gehlen o di Levinas, di Ricoeur o di Derrida. Assai meno unilaterali si presentano le 200 pagine finali del manuale di Moravia. È significativo che l'autore senta il bisogno, prima di inoltrarsi ne «Il pensiero contemporaneo», di fermarsi e tentare una rifJessione cautelativa: la «pluralità» delle filosofie odierne indica, secondo Moravia, una «crisi di identità» della filosofia stessa. II pensiero contemporaneo si caratterizza come «sperimentalismo» e apertura verso gli altri territori («la sua passione per l'altroda-sé», p. 331), la scienza prende il sopravvento e nell'ambito della riflessione scientifica alcune discipline tentano oggi di assumere un'egemonia complessiva (esempi: la semiotica e la sociobiologia). Soggettività, linguaggio e società sono individuate come le tre possibili direttrici filosofiche fondamentali. Infine le «scienze umane»: «studiosi come Freud e Jung, PAN-FILM-A:G. _,,...._ .... ... -.,_, ... ---- ...... al ..... U' llor .. "---• ,.-.. 10. 1-.. Hl "r ltlckMU• u .... .tn•t•• •tu,,.. Tu•----....•• IMikNfl, •• el• .. ,. n,- • '1• ·- ._ lol•r .. ,. n,- Pa:N-r p~M'-rl.9""9,q ,...,i- • ..,.,.n .. 111,1.-.M -..t.eirl, s.., ate •- .... ••-1a1t.1-. - ; J.0.000,- Mli: •~n. 1.. Mtr. ,.,. -.1 loa•'- ~.u-.n .... _,. ..i'•'1• .so Lettera della Pan-Film a Hofmannsthal. Durkheim e Weber, Piaget e Vygotsky, Binswanger e Laing, de Saussure e Chomsky, Malinowski e Lévi-Strauss hanno costituito a poco a poco un'anatomia dell'uomo dalla quale oggi la filosofia non può più prescindere» (p. 332). Si tratta di due pagine che introducono i cinque capitoli della sezione (dedicati rispettivamente a «Fenomenologia e esistenzialismo», «Esperienza e linguaggio», «Marxismo e pensiero critico-utopico», «Il pensiero italiano del Novecento» e «Le scienze umane»): preziose considerazioni ma elencate di gran corsa, cioè non moti'i,ate a sufficienza e non tutte egualmente accettabili. Agli studenti suoneranno sibilline: un non detto che l'autore si tiene per sé, un sasso gettato nascondendo la mano. Non sembrano problemi, questi, da meritare un cenno fuggevole: perché, se la filosofia è in crisi di identità, lo studente ha il diritto di ragionarci su con calma e di capire cosa può essere un manuale scritto in tempi di tale crisi. Ma almeno sono scomparse le artificiose linee di confine tra irrazionalismo e razionalismo, la distribuzione delle parti appare più rispondente al dibattito reale, anche se l'enfasi su alcuni pensatori risulta sproporzionata al ruolo filosofico (a Sartre è dedicato un intero paragrafo, mentre quello successivo in cui si parla di Althusser, Foucault e Lacan si intitola «Dopo Sartre»); e anche se pure qui non mancano omissioni di rilievo e ci sono invece presenze un po' esili. Ci sono, per esempio, Laing, Cooper e Goffman (accomunati nella corrente «antipsichiatrica», probabilmente in riferimento a una intensa circolazione che per alcuni anni hanno avuto queste letture da noi), ma mancano pensatori assai meno episodici (quanto al rapporto con la filosofia) come Derrida, o Levinas, o Simone Weil, o di nuovo lo stesso Gehlen, che è il più dimenticato di tutti (anche Vattimo se l'era scordato nella sua Enciclopedia di filosofia Garzanti). Scheler questa volta non è menzionato neppure: mentre ci sono teorici marxisti minori come L. Lowenthal e Oskar Negt. Pur nella indubbia apertura critica, il «marxismo» gode qui ancora di un peso filosofico che andrebbe per lo meno riconsiderato. Quanto alle «scienze umane», Moravia - come si è visto - cerca di saldarle alla filosofia contemporanea, e in parte vi riesce: tuttavia resta il sospetto che la loro presenza proprio alla fine del volume sia estrinsecamente legata ai futuri programmi istituzionali. LetterasulPlpnsierdoebole e ontinuare a parlare di una indigenza o di una non-forza del pensiero significa restare all'interno della metafisica, prigionieri di quel processo che ha portato Heidegger all'adesione al nazismo, prigionieri della più interna indigenza del corso storico del pensiero occidentale ( die innerste Not des Geschichtsganges des abendlandischen Denkens, N II, 13). Ma esiste un'indigenza che è ancora più grande, un'estrema, massima e molto più nascosta indigenza di quella del pensiero: essa consiste nell'assenza di indigenza (Notlosigkeit), nel credere cioè «di tenere in mano e di conoscere il reale e la realtà» (VA, trad. it., 59), nel restare interamente soggiogati dalla pressione dell'effettuale e dell'efficace (N II, 395). Questo è veramente il colmo dell'indigenza - una indigenza che non conosce mai se stessa come tale, e che anzi crede che il pessimismo sia il suo solo avversario. Mentre l'indigenza della filosofia classica era ambivalente e conteneva una sua forza proprio per l'energia con cui faceva valere la propria autonomia, qui invece si raggiunge il culmine della debolezza e· dell'impotenza, sotto l'apparenza della forza e del successo. Questa situazione-limite potrebbe essere definita come il trionfo del senso comune, che è sempre stato il nemico dell'interrogazione filosofica. A partire da questo momento, a partire dalla svolta decisiva che differenzia definitivamente il cammino heideggeriano dalla metafisica e c;he lo emancipa dalla compromissione col nazismo, il pensiero nella sua dimensione alternativa non può più presentarsi come indigente o non-forte. Perciò quando nelle Avventure della diff erenza e in Al di là del soggetto di G. Vattimo si propone una «ontologia del declino», si corre il rischio di restare prigionieri della problematica del primo Heidegger, quello di Essere e tempo e del saggio L'essenza della verità. Dopo la svolta, il conflitto fondamentale non è più tra un pensiero indigente, ma portatore di libertà e di pace, e una effettualità forte, ma autoritaria e violenta. Anzi una simile formulazione non mi sembra possa essere nemmeno definita come heideggeriana: essa è pre-hegeliana. Il vero conflitto è tra un pensiero che può anche sembrare povero e misero, ma che è essenzialmente forte e effettivo, e una effettualità che può anche sembrare forte e potente, ma che è essenzialmente il colmo dell'indigenza e dell'impotenza. Il rapporto tra filosofia e nazionalsocialismo si è rivelato a Heidegger come un'alternativa: non è possibile essere insieme filosofi e nazisti. Per Heidegger le pretese filosofie del nazionalsocialismo non presentano la minima consistenza filosofica, non possono essere prese sul serio. Ciò tuttavia non toglie che il nazionalsocialismo abbia avuto un'enorme importanza storica: esso è il primo ordinamento politico che può fare a meno della filosofia. L'allontanamento dal nazismo, però, non induce Heidegger a tornare indietro verso quell' «idolatria di un pensiero senza radici e senza forza» (Vergotzung eines bodenund machtlosen Denkens) che egli ha definitivamente rifiutato, ma lo porta allo studio di Holderlin, cui dedica il corso di lezioni del semestre invernale 1934-35. Contrariamente a quanto potrebbe sembrare a prima vista, tale nuovo interesse non è affatto un'evasione dalla realtà, bensì tutt'al contrario la ricerca di un'efficacia (Wirksamkeit) molto maggiore di quella della cultura tradizionale: «la poesia è fondazione (Stiftung), effettiva ( erwirkende) fondazione di ciò che permane. Il poeta è il fondatore dell'essere (Sein). Ciò che noi nella vita quotidiana chiamiamo il reale (das Wirkliche) è alla fine l'irreale (das Unwirkliche)» (HH 33). S embra talora che Heidegger scelga la poesia e il pensiero meditante contro la politica, rimproverando a quest'ultima la sua debolezza e impotenza. Per esempio, nell'introduzione al suo corso su Schelling, tenuto nel semestre estivo del 1936, riporta la famosa frase pronunciata da Napoleone a Erfurt davanti a Goethe: «Il destino è la politica» e la commenta in questo modo: «No, è lo spirito che è il destino, e il destino è lo spirito. Ora l'essenza dello spirito è la libertà» (S 2). In realtà questa frase non è separabile dal contesto che illustra il ruolo fondamentale svolto dall'idealismo tedesco nella fondazione di uno «Stato dell'intelligenza», e non è in nessun modo applicabile al rapporto tra il nazionalsocialiDer Rosenkavalier (Pan-Film, Vienna 1926), regia di Robert Wiene. smo e Heidegger. Infatti, a ben vedere, il nazionalsocialismo non è stato solo la tomba della filosofia, ma altresì della politica, sia che per politica s'intenda l'organizzazione razionale dei conflitti e delle alleanze, cioè il sistema dei partiti ideologici, sia che s'intenda l'organizzazione razionale in sé e per sé, cioè lo Stato. Il rapporto tra filosofi e poeti da un lato e politici dall'altro non può perciò essere visto come un rapporto essenzialmente conflittuale: ciò che ha distrutto la socialità del sapere ha distrutto anche, contemporaneamente, la razionalità del potere. Non è dunque possibile presentare la poesia o la meditazione come l'andar oltre, o meglio come la Verwindung, l'appropriazione-accettazione-approfondimento della politica. Certo, l'andar oltre della filosofia e della politica - o, per dir meglio, dell'ordine metafisico-ecclesiastico e dell'ordinamento umanistico-partitico - resta il problema fondamentale con cui dobbiamo misurarci. Certo, tale andar oltre non può più essere pensato come un superamento (Aufhebung) alla maniera di Hegel, né come un oltrepassamento ( Uberwindung) alla maniera di Nietzsche, ma come un' appropriazione-accettazione-approfondimento (Verwindung)- alla maniera di Heidegger. Werwindung è per Heidegger un tale andar oltre che trascina con sé l'ostacolo in un rapporto di condizionamento reciproco, un andar oltre «che non si contenta di lasciar dietro di sé la rappresentazione esclusivamente metafisica» (ZSF 36), ma mantiene con essa un rapporto che ne svela l'essenza. Se dunque l'essenza della filosofia e della politica, dell'ordine metafisico-ecclesiastico e dell'ordinamento umanistico-partitico, è stata la socialità del pensiero e la razionalità della società, ne deriva che la loro Verwindung-sarf orientata dallo sforzo di ricostituire su altre basi tale socialità e razionalità. La trans-filosofia sarà dunque un pensiero più forte della filosofia
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