L'i111111aginari9,o~"'chitett F orse soltanto nelle rovine, nei relitti di costruzioni ormai restituite a condizione quasi ve~ getale, nei muri sbrecciati ricoperti dall'edera, è possibile ritrovare il fascino deil' «immaginario architettonico». Un'architettura non più abitabile, divenuta scultura vegetali;fZata,è, dunque, forse la prima depositaria di quel carattere mitopoietico che l'edificio intatto oggi difficilmente possiede (salvo nei pochi casi di cui tra poco tratteremo). Certo: ogni relitto, anche quello d'un macchinario rugginoso, d'uno strumento di lavoro ormai inutilizzabile, esprime acutamente questa peculiare valenza simbolica molto più di quanto non faccia la macchina in perfetta efficienza o l'edificio appena costruito. Questa caratteristica è dovuta all'emergere di forze immateriali, di suggestioni imprecisabili, o, come sostiene in un suo saggio celebre Simmel, «perché la rovina d'una costruzione mostra che nella distruzione dell'opera sono cresciute altre forze e altre forme, quelle della natura, per cui un'opera dell'uomo viene percepita in ultima analisi come un prodotto naturale». Del resto, questo principio vale non soltanto per le autentiche «rovine» rna anche per molti grandi edifici ancora in funzione, ma già investiti dalla patina del tempo. già disgiunti dalla loro iniziale destinazione, nei quali avvertiamo acutamente la presenza d'una fantasia «disincarnata», dell'immaginario scisso da ogni funzionalità salvo che da quella espressiva, che permette a questi complessi edili di dare alla città un volto dove appare con maggior evidenza l'aspetto mitico e simbolico. Non penso soltanto a ruderi greci, romani, persiani o maya; penso a città come Napoli, Rio de Janeiro, Città del Messico. Città dove esiste una forte componente non più e non soltanto utilitaria, una componente dove s'annidano i germi d'un passato mitopoietico ancora vivente. E questo vale anche per città relativamente recenti (Boston, New York, Chicago), dove interi quartieri sopravvivono in virtù della . trasforma-zionesemantica di alcuni loro edifici (i lofts di New York, le palazzine georgiane di Boston, gli editi.cidi Sullivan a Chicago), giacché è proprio in questa metabolé semantica che consiste una delle possibilità di persistenza dell'immaginario. Infatti, avendo acquistato una nuova funzione, essendo divenuti «altro da sé», avendo assunto una significazione che non corrisponde più agli originari «significanti» architettonici, questi edifici si sono - per questo solo fatto - rinvigoriti e espressivamente rinnovati. N e ho ragionato già molti anni addietro (Simbolo comunicazione consumo, Torino, Einaudi, 1962) a proposito di quelle curiose costruzioni della Galizia spagnola, gli horreos di un villaggio come Gombarros: antichi fienili e granai in disuso dalla forma di tempietti, montati su pilotis di pietra e sormontati da una croce \"om ~I. bis 23. ftl>ru,r 1919: Pierrot und Pierrene. \"om 24. bis 2i. Fcbruar 1919: Lumpenprinzessin. Draffl.11 ID .. Aktr.11 .\'om 2!,. Fcb=r bi, 3. r,urz 191~. DR. SCHOnE. Programma del Phonix Kino-Theater in un annuncio su Film welt n. 1, 24 gennaio 1919. (contro il malocchio), mentre i pilotis che li isolano dal suolo servono contro l'assalto dei topi, avidi di granaglie. Ebbene, questi piccoli edifici, svincolati ormai dalla loro primitiva funzione (assolta oggi da moderni sylos) acquistano una valenza esclusivamente immaginaria proprio perché la loro semanticità risulta paradossale. Ecco, allora, come uno degli argomenti più decisivi, per un'analisi delle valenze simboliche e mitiche d'un singolo edificio o d'una intera struttura urbana, mi sembra c~msistere nella possibilità di una trasformazione dei significati di determinati «significanti»architettonici. In paesi come il nostro, e come molti della vecchia Eur<:Pa, una delle possibilità che ci sono offerte è quella di stravolgere la funzione di antichi edifici, ossia di operare quella decontestualizzazione che, altre volte, ho definito col vocabolo inventato da Sklovskij «ostranenie», ossia quel processo di estraneamento già individuato nell'opera letteraria e poetica, ma estendibile anche alle altre arti e in particolare all'architettura . Quante chiese (non più officiate), quanti castelli (disabitati), quanti palazzi, troppo vasti e sontuosi, possono venir utilizzati per funzioni del tutto diverse da quelle originarie? Si pensi soltanto alle chiese trasformate in locali pubblici, ai castelli divenuti alberghi, o sale d'esposizione, e persino ai camminamenti bellici ridotti a locali notturni, a vespasiani o a luoghi di squallidi incontri amorosi, come è accaduto per il massiccio «Atlantikwall» costruito dai tedeschi tra Ostenda e Biarritz. Ma se questo si riferisce a edifici già esistenti e antichi, il discorso vale anche per quelli recenti o nuovissimi, e in questo caso la loro caratteristica «immaginaria» non sarà più dovuta a una trasformazione della relativa semanticità ma a una qualità presente già in partenza, tenendo conto delle finalità dell'edificio stesso o del complesso urbano, e potrà realizzarsi anche nel caso di costruzioni che esaltino certe caratteristiche tecnologiche proprie della nostra epoca e inesistenti in epoche precedenti. A oche ai nostri giorni, dunque, non va perduta la possibilità di realizzare delle costruzioni che, pur adottando tutte le più moderne conquiste della tecnologia, presentino delle caratteristiche che mi piace definire mitopoietiche. Questo coincide in parte con quello che, in un recente numero della Architectural Review, viene definito da Peter Davey come «soft machine» (ossia quelle costruzioni che, pur essendo basate sopra la più avanzata high-tech, presentano delle caratteristiche «soft», ossia di qualità non soltanto materialmente meccanica ma culturalmente ed esteticamente espressiva). Le architetture citate dall'articolista sono, ad esempio, la recente libreria dell'Università
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