Prove d'artista Piero Bigongiari Il trionfo e l'esilio [Alfabeta 58) Mescola l'ocra e la favilla il vento che disvelle le salme, sparge il fuoco: è confuso il vasaio, arido il giuoco ma scintilla là un angolo di casa - più che lo stento d'una prua varcò anni acque polveri, dentro cui nacque infante un grido altissimo - in un poco di sole, sotto i tralci della vite spuntano a un tratto come di sotterra viventi indici vergini viole. Le maschere di sale le calpestano che corrono qua e là e vanno dove perse le fisionomie le conducono, né più è un giuoco, quando il tempo roco che chiama, chiama solo travestendo. Ma i nati, se non spuntano le ali, hanno incastrato, semovente forma, il bolo che li investe e li consuma: le foreste dei morti non stormiscono, non vi corrono i daini, gli uccelli non vi appendono nidi, hanno nel becco quanto riemerge dalle fosse, paglie fango sterpi, rigurgiti le schegge anche delle ossa - e furono fraterne - di chi non vola ma attraversa il prato della morte, fantasma, e tiene stretto, seminando la vita che non duole, al petto che più non respira, soffoca, la sua forma mortale, l'immortale abbraccio come il fondamento tiene su alto il tetto... Crebbe, ritrovò - o era l'ombra del mare alta nel cielo? - l'orma del grido che scandì in parole, quell'affilo di sole, angolo povero perduto dentro un povero paese muto d'ogni altro grido e d'ogni ascolto, mani preganti, conserte, del cosmo: taglienti erme del dono che non portano le mie mani s'incrociano, non tremano. Disperderà, chi è stato disperso, popolo od individuo, è la legge o il destino della storia: onda su onda, onda che luccica e poi va sparendo sulla sabbia d'ogni gloria. Sono i lutti la notte che va e viene, tra due albori è un giro, un capogiro, le catene non l'aria incaténano che muore a fiore di ogni labbro, mio paese non più mio, di ogni disperso, di ogni riverso nell'insonnia, di ogni vergogna che riappare dove pare troppo giusto il diritto di morire o di vivere, in questa o su altre rive incerte, siano rupi ricoperte del pianto dei gabbiani o le dolcezze dove il mare si estenua e la terra non sa ancora decidersi sufi'onda, siano i sorrisi esuli, gli spari ormai solo in aria, chi scompare, vinto, come se fosse il vincitore. Il trionfo è l'esilio, o un lungo esilio è il trionfo?, un carminio troppo acceso sul labbro che non mente e non smentisce d'ogni storia, su un labbro morso a sangue. Come faccio a portare un po' della tua fisionomia, padre, ora e nell'ora della nostra morte? S'accende un faro ancora in qualche parte dell'orizzonte perduto, ancora sulla perdita, ruota a ombrello su rocce e un altrettanto mare roccioso: volti spuma mirti lentischi, qualche lacrima nascosta, un amore nascente (o che cos'è?) o non mai nato: roccia anch'esso nel bianco della notte, un sentiero fisionomico su molti rischi, anche su molte tenebre e precipizi, fischi striduli, un gabbiano disturbato?, non lo sapremo mai, i segni sono troppi, contrastanti, la requie li raccoglie, pozza d'acqua che so altrove irrequieta, tra due mani, la preghiera già trema tra le dita, stalattiti di lacrime goccianti nei pensieri che cercano ma invano di precorrere quanto è già accaduto, cercando forse un ordine impossibile di quanto ancora stillano le rupi. Il futuro è lontano quanto il suo passato ma se passa è un'ombra nella luce, una sponda di piume liquescenti, un latte già accagliato, chi ti porge la ciotola appena munta, il sangue d'un costato che ancora sanguina. Così i Mani gestirono l'andare e il ritorno, mare ancora, mare su altro mare, o lo stesso?, questo che lùccica negli occhi, chi saluta nell'addio, volesse o non volesse nella stretta feroce penetrare l'uno nell'altro corpo, oltrepassare l'attimo eterno della luce, e aiuta a sciogliere gli ormeggi delle navi che cercano ondeggiando l'orizzonte, vani nodi, più vane anche le impronte sulle pietre inflessibili dei moli, né i voli hanno altre tracce, s'allontanano. Non finisce più l'incubo primario quando qualcosa che si mosse entrò nel viluppo inscindibile a decidervi che tutto è uguale solo se diverso e male e bene hanno per sé converso l'infinito penare che trattiene amore sopra l'orlo scintillante della morte: chi ha sete deve bere da quel pozzo; lì la Samaritana ancora attende accanto al secchio tremulo. Tremano anche le porte che non s'aprono risospinte dai vivi, un aldilà di clivi immensi immergono gli sguardi nelle lunghe derive della storia, o d'ogni storia, che sia l'una l'altra e l'altra l'una. Veda un'altra luna, padre, la mia la tua storia, quella che ci circonda e non ci limita, onda su onda scegliere la propria luce constatandone il frizzo che si scioglie per sparire leggera sulla sabbia: senza rabbia l'ala che la sorrade cancella le orme, non il passo (torna con altro piede), il suo sargasso annoda le prede e le discioglie, il predatore sia l'erede del nulla sulle soglie lacrimate dove le porte s'aprono. Chi dispone di -làsulle tovaglie candide delle mense le posate sa che deve arrivare il depredato, colui che non ha nulla oltre il suo fiato da scambiare con altra poca merce nello sguardo vetrato sull'altrui. I vetri già s'opacano se è questa l'età, che passa, dell'intrasparenza. Se qualcuno o qualcosa vi è appoggiato è come quando tiri su la lenza: un guizzo nel cestino già colmato e il fiume senza quello scorre uguale. Anche il fuoco rientra su se stesso, guizza ancora per poco tra i suoi tizzi: solleva ombre sulla volta, non dolose, anche se il duolo ora contrasta con la mensa imbandita, che lingueggiano: non parlano, lingueggiano, dileggiano la poca luce, i suoi ultimi resti. O è un volto che si volta al cielo questo che a poco a poco volta oscuro sul candore che resta qui imbandito. Lacrima dentro il sale, cristallizza lieve ogni umore, la canizza tace, i gradini che splendono deserti non più erti né meno dei declivi non salgono né scendono: lì stanno. Forse è del rovo il gesto oramai ultimo, quell'avanzare nelle carni e uscirne acuito dal suo stesso penetrare, e lq strame del covo il suo rifugio, quel rovello che infastidisce i cani se il velluto dei troni più non punge: scintillò sopra l'unghia del Signore delle Acque e delle Terre quanto il rovo detiene per ferire, e fu lo sparo, fu la promessa, quanto il raro anello passa di dito in dito, mentre attende la porta nella ruggine dei cardini che non entri la morte o non ne esca.
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