Alfabeta - anno VI - n. 58 - marzo 1984

Mensile di informazione culturale Marzo 1984 Numero 58 - Anno 6 Lire 3.500 Edizioni Cooperativa Intrapresa Via Caposile, 2 • 20137Milano Spedizione in abbonamento postale gruppo IIl/70 • Printed in Italy Agenzie per la comunicazione pubblicitaria in Milano e Modena S. Hosokaw•: I Mgnl nnperlall • C.Vmlo: Che cos'è Ilhalku • I. Pealnl: 11 •orire inGlt••••• C.Segre:L' ..espreulvlato».G.R ..... l:Mloplepreaiti.F.Mumoll:L'wasloneclel63 Prove t1•art1shHS. Dangelo / P, 819Nglarl: 111l•onfo e l'eslllo • M. Banclinl:11lellr k•o • 1sou • Da lletllno DaNewYork. LV-,lne:Anollarespo....Wlltà. G.Dorfles:L'l•••• .. ••circhltettonlco • O. Cal■l1.._: Il progeNo di Defoe • R. Pagnanell: Racconto di una l'lona cli·Serenl. M. Fenaris: L'Awt•la el'Europ• I. GuagnW: 11 l'OIIIClnzo del Canzoniere • ,Testo: Schnltzler, Hof11N1nnsthal, Roth, Musll (• cura cli L Qu--•••) M. Penllola: Lettera •I _pensiero dellole • P.A. Rovattl: Fllosofla cla llNIIIUClle. C. f01•He11ti: L'ulll-■ ............ R.Mo••oro:Mallnconla. M.Flu1nan6:Freud--LouSalonlé. M.Spinella:L,.elica••òrosa. Cfr.• Cfr.-ltlco:11 te•llo Ce•lho. clocu1Nnla&IG11e •Ila leglshalone d' ... rgenMI (3) • M. Guglel•lnellli «lo •lo ero confuso ... » I. Mwltell: La .-..cul~ne •••••••1N1nn. A. S-llosuouo~ PwlMINoI poi (o .. i) • Le---•gini: CL,e••vle1111•• Glo11111lcelelGlornall: DaAnclropov • Cernenko • lncllce della co1nUnlamlone: L'!t1fot• hnesprellllll

I -·- ~ rr-= - aSmùi,ocìalicailtllfN La Pratica Freudiana La psiche elospazio Ferenczi, Hermann e la scuola psicoanalitica di Budapest Etica: psicoanalisi, psichiatria, psicoterapia Nevrosi: una clinica dello spazio Strutture: perversione, fobia, psicosi con gli psicoanalisti S. Finzi, V. Finzi Ghisi, J. Canestri, G. Carloni, J. Clavreul, I. Hardy, S. Marcsek-Klaniczay, L. Nemes «Imago»: lo spazio nell'arte con G. Gramigna, T. Kemeny, A. Pizzati, M. Spinella 24/25marzo1984 ProvinciadiMilano SalaConsiglio Corso Monforte, 35 Segreteria: Tel. (02) 77.40.22.23 MENSILEDI EDITORIA lnf ormarsi per capire meglio l'informazione In edicola a metà mese Abbonamento: 55.000 (undici numeri); estero 110.000. Indirizzare assegno sbarrato intestato a Nuova Società s.r.l. via Boccaccio 35 - 20123 Milano oppure servirsi del conto corrente postale n. 38329207 intestato a Prima Comunicazione via Boccaccio 35 20123 Milano BRUNO BRANCHER MEMORE Edito e stampato a cura e spese dell'autore In vendita presso le librerie Feltrinelli, Calusca, Sapere, Milano Libri, Libreria Fiorentina, Libreria Guida Le immagindii qNsto numero Pubblichiamo su questo numero della rivista una serie di fotografie che fanno parte dell'esposizione che il Comune di Reggio Emilia ha voluto dedicareal cinema austriaco degli anni fra il Dieci e il Venti, promuovendo anche la pubblicazione del volume Wiener Kunstfilm, a cura di Leonardo Quaresima (Firenze, La Casa Usher, 1984 -si veda il «Testo» di questo numero di Alfabeta), e affiancandovi un convegno internazionale curato da Aldo Gargani: «La crisi del soggetto nella cultura austriaca di inizio secolo» (Reggio Emilia, 2-3 marzo 1984). Sommario Shuei Hosokawa I segni imperiali (L'empire des signes - L'impero dei segni - Le grain de la voix, di R. Barthes; Cento haiku, a c. di I. Iarocci) pagina 3 Isabella Pezzini Il morire in Giappone (La ballata di Narayama, di S. Imamura) pagina 4 Carla Vasio Che cos'è il haiku («Maledetti filologi» 7) pagina 5 Cesare Segre L' «espressivismo» (L'espressivismo linguistico nella letteratura . italiana - Roma, 16-18 gennaio 1984) pagina 6 Giovanni Raboni Miopi e presbiti («Il senso della letteratura»3) pagina 7 Francesco Muzzioli L'occasione del 63 («Il senso della letteratura I Riferimenti») pagina 8 Prove d'artista: Sergio Dangelo pagina 9 Piero Bigongiari Il trionfo e l'esilio pagina 10 Comunicazioneai collaboratori di «Alfabeta» •Le collaborazioni devono presentare i ~guenti requisiti: a) ogni articolo non dovrà superare le 6 cartelle di 2000battute; ogni eccezione dovrà essere concordata con la direzione del giornale; in caso contrario saremo costretti a procedere a tagli; b) tutti gli articoli devono essere corredati da precisi e dettagliati riferimenti ai libri e/o agli eventi recensiti; nel caso dei libri occorre indicare: auCinema viennese Il lettore vedrà scorrere davanti agli occhi una serie di fotogrammi o di fotografie di scena di film effettivamente prodotti, oppure la riproduzione di una serie di documenti storici o di testimonianze sul peso e la fortuna dell'attività cinematografica di personaggi ben altrimenti noti nel panorama della cultura internazionale. In effetti, quando si pensa a Vienna-Novecento, si parla solitamente d'altro. Si pensa alla letteratura, alla filosofia fra crisi e razionalismo, alle arti visive. E quando si nominano autori come Hofmannsthal, Musi/, Reinhardt, Mirella Bandini Il lettrismo di Isçu intervista a Jsidore Isou pagina 11 Lea Vergine A noi la responsabilità (La città e l'immaginario - Napoli, 2425 novembre 1983) pagina 11 Da New York a cura di Stefano Rosso e di Maurizio Ferraris pagina 12 Da Berlino a cura di Kurt Hilgenberg e di Maurizio Ferraris pagina 13 Gilio DorOes L'immaginario architettonico pagina 14 Remo Pagnanelli Racconto di una bozza di Sereni (Stella variabile, di V. Sereni) pagina 15 Elvio Guagnini Il romanzo del Canzoniere (Il Canzoniere - Il Canzoniere 1921 - Coi miei occhi, di U. Saba; Per conoscere Saba, a c. di M. Lavagetto; La prosa di Umberto Saba, di E. Favretti) pagina 17 Omar Calabrese Il progetto di Defoe (Sul progetto, di D. Defoe) pagina 17 Maurizio Ferraris L'Austria e l'Europa (L'Austria e l'Europa, di H. von Hofmannsthal) pagina 18 Testo: Schnitzler, Hofmannsthal, Roth, Musil Testi di cinema inediti a cura di Leonardo Quaresima pagine 19-22 Pier Aldo Rovatti Filosofia da manuale (La società industrialemoderna, di Autori vari; Pensiero e civiltà, di S. Moravia) pagina 23 tore, titolo, editore (con città e data), numero di pagine e prezzo; c) gli articoli devono essere inviati in triplice copia e l'autore deve indicaréindirizzo, numero di telefono e codicè fiscale. La maggiore ampiezza degli articoli o il loro carattere non recensivo sono proposti dalla direzione per scelte di lavoro·e non per motivi preferenziali o personali. Tutti gli articoli inviati alla redazione vengono esaminati, ma la rivista si compone prevalentemente di collaborazioni su commissione. Schnitzler, si pensa piuttosto a/l'ultimo grande fluire della parola letteraria tedesca che non alle avvisaglie della decima musa. Ma Vienna-Novecento, dal SU() celebrato Steinhof, ci invia anche messaggi di grande modernità dal punto di vista delle arti nU()ve. Quegli stessi Grandi Autori lavorano nel cinema o per il cinema, partecipano al dibattito sulle nU()ve possibilità espressive offert.e dal cambiamento dei materiali artistici, dalla chance di mischiare insieme materiali eterogenei e talora sperimentali. Le immagini che si vedranno Mario Perniola Lettera sul pensiero debole pagina 24 Carlo Formenti L'ultima similitudine (Tracce. Nichilismo Moderno Postmoderno, di M. Ferraris; Il pensiero debole, di Autori vari) pagina 25 Rodolfo Montuoro Malinconia (Melencolia I, di A. Durer; Saturno e la malinconia, di R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl; La malinconia nel Medioevo e nel Rinascimento, di Autori vari; Anatomia della malinconia, di R. Burton; L'enigma della malinconia, di M. Galzigna) pagina 27 Marisa Fiumanò Freud - Lou Salomé (Eros e conoscenza, di S. Freud e L.A. Salomé) pagina 28 Mario Spinella L'etica amorosa (Histoires d'amour - Eretica dell'amore - Fémininité et écriture, di J. Kristeva) pagina 29 Ernesto Mascitelli La reazione Wassermann (Malattia e malessere sociale, di J. Revel; Che cos'è la biochimica, di F. Bossa; Medicina e cultura, di P. Corti; Genesi e sviluppo di un fatto scientifico, di L. Fleck) pagina 31 crr. Bibliografia analitica Teatro 1983 a cura di Antonio Attisani pagine 32-33 crr. pagina 34 Amedeo Santosuos.w Prima o poi (o mai) pagina 35 Centro di documentazione sulla legislazione d'emergem.a (3) pagina 36 Occorre in fine tenere conto che il criterio indispensabile del lavoro intellettuale per Alfabeta è l'esposizione degli argomenti - e, negli scritti recensivi, dei temi dei libri - in termini utili e evidenti per il lettore giovane o di livello universitario iniziale, di preparazione culturale media e non specialista. Manoscritti, disegni e fotografie non si restituiscono. Il Comitato direttivo non sono 'bel(e' immagini. Sono però documenti importantissimi di un ambiente, di un momento, di una esperienza della cultura europea assolutamente non conosciuti ma di enorme valore pionieristico. Sono immagi!li per altro che ridivengono 'belle' proprio per questo: perché l'occhio che le percepisce le rivaluJa e le nobilita esattamente per quello che sono, una culla e una ribalta del grande cinema europeo. Omar Calabrese Marziano GugHelminetti «Io solo ero confuso... » (Intervista sul cinema, di F. Fellini) pagina 37 Giornale dei Giornali Da Andropov a Cemeoko pagina 38 lndicedellacomunicazione L'informazione sprecata pagina 38 Lt-immagini Cinema viennese a cura di Leonardo Quaresima a•beta mensile di informazione culturale della cooperativa Alfabeta Comilalo di direzione: Nanni Balestrini, Omar Calabrese, Maria Corti, Gino Di Maggio, Umberto Eco, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti, Gianni Sassi, Mario Spinella, Paolo Volponi Redazione: Carlo Formenti, Maurizio Ferraris, Marco Leva, Bruno Trombetti Art director Gianni Sassi Edizioni Intrapresa Cooperativa di promozione culturale Redazione e amministrazione via Caposile 2, 20137Milano Telefono (02) 592684 Coordinatore tecnico: Giovanni Alibrandi Coordinamento marketing: Sergio Albergoni Composizione: GDB fotocomposizione, via Tagliamento 4, 20139Milano Telefono (02) 5392546 Stampa: Rotografica viale Monte Grappa 2, Milano Distribuzione: Messaggerie Periodici Abbonamento annuo Lire 35.000 estero Lire 45.000 (posta ordinaria) Lire 55.000 (posta aerea) Numeri arretrati Lire 5.000 Inviare l'importo a: Intrapresa Cooperativa di promozione culturale via Caposile 2, 20137Milano Telefono (02) 592684 Conto Corrente Postale 15431.208 Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 342 del 12.9.1981 Direttore responsabile Leo Paolazzi Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica riservati

Roland Barthes L'empire des signes Genève, Skira, 1970 pp. 151 L'impero dei segni trad. it. di Marco Vallora Torino, Einaudi, 1984 pp. 135, lire 10.000 Le grain de la voix. Entretieos 1962-1980 Paris, Seuil, 1981 pp. 344 Autori vari Cento haiku a c. di Irene Iarocci pres. di Andrea Zanzotto Milano, Longanesi, 1982 pp. 184, lire 8000 Cl è un libro. Prima pagina: fotografia di un giovane attore vestito da samurai. Ultima pagina: foto del medesimo, l'espressione del giovane è lievemente rilassata. Il testo si trova fra queste due immagini quasi uguali. Nella pagina a lato dell'ultima foto si leggono tre parole scritte a mano: «... Au sourire près». Le uniche differenze fra le due espressioni dell'attore sono le sopracciglia meno marcate, gli occhi allungati, e soprattutto l'apparire dei denti bianchi dietro le labbra socchiuse nell'ultima foto. Che sorrida, ma in un modo irriconoscibile? Sorriso forzato? Forse. Oppure è quello naturale? Chissà. «Au sourire près», almeno. Punque, l'attore non pare serio né sorridente: sta a metà. La sua espressione è inclassificabile- atopos {senza luogo) - secondo la fisionomia dicotomica impostata dal pensiero dialettico occidentale. L'arte fisiognomica è un congetturare sulle -relazioni tra volto e affetto interiore, come rabbia, tristezza, noia, ecc. Essa è la ricerca del senso definibile e definitivo dell'espressione alla base del rapporto di «rinvio» dal visibile all'invisibile. Il «près» rifiuta la tipologia fisiognomica. Ma quale faccia? La fisiognomica si ferma davanti al caso di «sourire près». Tuttavia, quell'espressione delicata non dovrà prendersi come «idée réçue», come sorriso mistico asiatico. «Ce qui peut etre visé - ha scritto l'autore - dans la considération de l'Orient, ce ne sont pas d'autres symboles, une autre métaphysique, une autre sagesse {... ); c'est la possibilité d'une diff~rence, d'une mutation, d'une révolution dans la propriété des systèmes .symboliques (... ) la fissure meme du symbolique». (R. Barthes, L'empire des signes, pp. 78)1. A l di fuori dello spazio tra le due foto troviamo il titolo e il nome dell'autore: Roland Barthes, L'impero dei segni. Il libro è basato sulla sua esperienza ~ giapponese (qualche mese) tra il -5 1966 e il 1967. Ci si ricordi che in [ quel periodo il paese non era an- ~ cora di moda, come oggi. Kawaba- -. ta, Mishima, Tanizaki, Ozu, mao crobiotica, arti marziali. .. avevano ~ !::I solo un pubblico limitato. «Je me E: suis donné la liberté - ha scritto ~ . Barthes nel 1971 - d'entrer com- ~ plètement dans le signifiant ( ... ) et ~ notamment le droit d'écrire par 1 fragments» (R. Barthes~ Le grain i:i de la voix, p. 138)2. È il Giappone - in particolare il haiku - che ri-attiva il suo gusto «molto antico» per il frammentario. Rispetto alle opere degli anni sessanta più sistematiche (Sur Racine, Système de la mode, SIZ, ecc.), quelle degli anni settanta {cioè, dopo L'impero) sono ovviamente frammentarie { Le plaisir du texte, Roland Barthes par lui-meme, Fragments d'un discours amoureux, e La chambre e/aire). «Par rapport au nappé do discours construit, le fragment est un trouble-fete, un discontinu, qui installe une sorte de pulvérisation de phrases, d'images, de pensées, dont aucune ne 'prend' définitivement» {ibidem, p. 198)3 • I frammenti sono per definizione brevi. Brevi non come la massima occidentale che presuppone un senso profondo e lo riduce alla fornicativa alla definizione semanticamente garantita. Il haiku, invece, si trova fuori dal campo semantico o nel dominio asemantico caratterizzato dal senso fratturato ( effractionné), sfaldato ( effrité), smarrito (égaré), e scannato (egorgé). In luogo della descrizione dell'evento, il haiku lo «designa»: È quello, È là, o Là! La designazione sembra l'unico modo di disporre dell'evento in sé. Curiosamente, Barthes ha scoperto la funzione di designazione, d'indice, nella cena giapponese: i bastoncini. È lo strano incontro fra bastoncini e haiku su un tavolo di cucina. Il pasto giapponese lo ha affascinato non per gusto (nella ventina di pagine dedicate al cibo giapponese non troviamo alcun riferi-- mento al gusto), ma per l'apparenza e il procedimento estetico del volto smontato di Henry Fonda in The Wrong Man di Hitchcock). La pluralità dei frammenti è possibile soltanto grazie alla discontinuità dei pezzi: in altri termini, gli intervalli, gli interstizi, lo spazio vuoto realizzano la frammentarietà e la sua pluralità. Il vuoto in sé non si serve di niente ma, contribuendo alla polverizzazione del reale, ne diviene la forza e l'intensità. Il vuoto è paradossalmente pieno. Ma pieno di cosa? Barthes ha scoperto il vuoto ovunque nel sistema di segni che chiama Giappone: lingua, cibo, gioco di pachinko, sistema di indirizzi, haiku, teatro di Bunraku, saluto, volto, ecc. Non a caso la prima immagine dopo la foto dell'attore in prima pagina, di cui si è già detto, è l'ideogramma significante il vuoto, «Mu». Il paese del vuoto Schiller: «No, mio caro Goethe, con le percentuali laggiù non guadagneremo più niente, da' un'occhiata ai programmi ... » Ibsen: «La nostra sola speranza sono i cinema» (Da Das Welttheater, n. 2, 1912). ma breve, ma come il haiku che non ha né un senso né un non-senso, né descrizione né definizione. Che è futile, breve, banale. «Le haiku n'est pas une pensée riche réduite à une forme brève, mais événement bref qui trouve d'un coup sa forme juste. ( ... ) La justesse du haiku ( ... est) adéquation du signifiant et du signifié, suppression des marges, bavures et interstices qui d'ordinaire excèdent ou ajourent le rapport sémantique» (L'empire, pp. 98-99)4. La descrizione dell'evento significa il lavoro di aggiungere o togliere linguaggio après-coup. Il «senso» dell'evento si confonde con questa interpretazione tardiva o con la sproporzione fra significante e significato. Invece, il haiku è «contre-descriptive, dans la mesure où tout état de la chose est immédiatement, obstinément, victorieusement converti en une essence fragile d'apparition» (ibidem, p. lOO)S.Il commento sul haiku sarà impossibile, perché il suo trittico parla di tutto e niente (sarà un «evento puro», se esiste?): «Parler do haiku serait purement et simplement le répéter» (ibidem, p. 93). Il haiku è decifrabile e, allo stesso tempo, insignificante. Questi due tratti sono incompatibili nell'arte occidentale, perché la leggibilità è sempre collegata alla comprensibilità, la descrizione comucucinare, e per la sua de-centralità. Non c'è un ordine premeditato in tavola, come aperitivo-primo piatto-secondo-formaggio ... Dunque, non esiste il concetto di hors d'oeuvre - anche se esso ci viene richiamato dai piccoli piatti tipicamente giapponesi, a causa della mancanza del concetto di «oeuvre» (opera) alimentare in Giappone. Perciò i piatti sono sempre «hors-d'oeuvre» (fuori dell'opera): il cibo del fuori. Nel ristorante giapponese, i clienti ordinano il piatto seguente, mentre ancora mangiano. Il pasto giapponese non mi sembra !'«opera» già costruita e sistemata, ma l'opera che si fa, work in progress. «Aucun plat japonais - scrive ancora Barthes- n'est pourvu d'un centre (... ). La nourriture n'est jamais qu'une collection de fragments, dont aucun n'apparait "privilégié par un ordre d'ingestion: manger n'est pas respecter un menu (un itinéraire de plats), mais prélever, d'une touche légère de la baguette, tantòt une couleur, tantòt une autre ... » (i/empire, pp. 32-33)6 • I frammenti sono sempre plurali, non esiste il frammento. L'insieme dei frammenti non può più diventare un'immagine integra e totale, come uno specchio caduto non può rifletterla. (Si veda ad esempio la famosa scena del può essere caratterizzato dal gioco libero, mobile, senza «ancoraggio», dei segni, che non è un «rinvio al» significato ultimo, come si ha nell'Occidenté, come il nome di Dio, della Scienza, della Ragione, della Legge. Barthes fa l'esempio di Tokyo, la cui zona centrale è occupata dal Palazzo imperiale, l'impenetrabile, dov~ avviene che tutti i movimenti del traffico debbano fare una svolta: l'imperatore come il vuoto centrale del Giappone. L'intuizione barthesiana sulla struttura urbana, al di là delle sue intenzioni, arriverà a un discorso sulla struttura del potere politico giapponese. L'imperatore è, secondo l'eminente antropologo Masao Yamaguchi, «capro espiatorio», il «terzo escluso» (R. Girard), che domina l'Impero mediante la propria esteriorità a esso, o l'assenza dall'istituzione del regno giapponese. È «marcato» in senso linguistico e antropologico. La sua è l'unica famiglia senza cognome in Giappone, una famiglia che non si deve confondere con le altre. (Infatti, essa non ebbe parentele con famiglie non imperiali fino al 1958). La mancanza del cognome è il modo più chiaro di dichiarare la particolarità della famiglia. È segno zero del cognome, o grado zero della famiglia. La famiglia imperiale è la Famiglia di tutte le al- ' tre. L'uomo senza cognome è il Padre di tutti gli altri. «Purosangue»? Sì, ma nessuno può garantire la sua autenticità in termini positivi e storici. Il regno .è (era) autentico perché -era (era stato) au- ; tentico. Esso è così com'era. Nessuna legge, nessuna regola di successione, o nessun fatto storico (battaglia, invasione, cedimento, assassinio, matrimonio ... ) può dimostrare la «radice» autentica del~ la famiglia imperiale. Le uniche testimonianze ufficiali sono gli eventi mitici stabiliti in due opere dell'VIII secolo. Ciò che si vede nel centro di Tokyo è la forma vivente dei miti. I miti non parlano più, ma esistono evidentemente davanti ai nostri occhi come segni vuoti. L'imperatore non è il simbolo del paese come stipulato nella Costituzione del 1946, ma il suo indice. «Banzai!» urla furiosamente il popolo sventolando la bandiera nazionale e alzando le braccia, davanti al Palazzo imperiale, quando la Famiglia si presenta nel giorno di capodanno e in quello del compleanno dell'imperatore. L'esclamazione straordinaria non significa felicitazione («Viva!»), ma designazione («Eccolo, l'imperatore!», o soltanto «Eccolo là!»). Due volte l'anno, quando il centro vuoto è pieno - perché capodanno e compleanno - del segno zero. Giappone, l'anno zero. L a ricerca barthesiana dello spazio vuoto domina il libro non solo al livello discorsivo, ma anche testuale in senso' lato. Prima della foto dell'attore, Barthes scrive una sorta di epigrafe o, più esattamente, pre-testo: «Le teste ne 'commente' pas les images. Les images n' 'illustrent' pas le texte: ( ... ) texte et images, dans leur entrelacs, veulent assurer la circulation, l'échange de ces signifiants: le corps, le visage, l'écriture, et y lire le recul des signes»7 • La costituzione verbo-visuale del libro appare molto raffinata e ben organizzata: foto senza testo, foto con testo in corsivo o scritto a mano, testo nella/ fuori della immagine, varie misure e proporzioni tra foto e testo, diversi tipi di testo (lungo-breve, descrittivo, interpretativo, originario, ripreso dal testo stesso, citazione da Sollers, e così via). La significazione sarebbe prodotta dalla collaborazione armonica dei due sistemi semiotici. Il modello ideale per l'autore pare un quadro con testo di haiku (o testo con quadro) al quale egli aggiunge il proprio testo: «Où commence l'écriturè? Où commence la peinture?» (L'empire, p. 31). Ciò che a Barthes interessa è la semiosi costituita dal tessuto della immagine-scrittura - né l'immagine né la scrittura - o l'effetto dell'inferenza (l'inter-ferenza) dei due sistemi apparentemente distinti. È l'utopia dei segni nessuno dei quali reclama il proprio diritto o impedisce la significazione dell'altro. Essa non è altro che l'immagine-scrittura che si gode la «felicità dei segni» (come scrisse Barthes nel 1972). La tendenza alla visualizzazione (la messa in immagine del testo) e alla miniaturizzazione, ovviamente proseguita da Roland Barthes par lui-meme e La chambre e/aire, è inseparabile dall'altra: quella dell'edonismo della lettura e scrit-

«Bisogna rispettare le regole del pellegrinaggio alla montagna. Anzitutto è vietato parlare sulla montagna. Bisogna lasciare la casa senza essere visti da nessuno. «P.et andare alla montagna, bisog,a costeggiare e passare al di sopra dei rovi, poi salire sulla terza montagna. Là arriverete a uno stagno. Girate attorno allo stagno per tre volte e arrampicatevi sul dirupo. Dopo un'altra montagna, vedrete una valle profonda: costeggiatela per due leghe e mezzo facendo sette svolte: è quel che si chiama il cammino delle sette valli. «Dopo il cammino delle sette valli, si arriva al colle, e poi c'è Narayama. Là non c'è più un cammino vero e proprio. Salite, salite. Il Dio vi attende. AI ritorno, non bisogna mai girarsi indietro». S. lmamura, sceneggiaturadi La ballata di Narayama, se. 122 H o visto il.film di Shoei Imamura La ballata di Narayama, Palma d'oro al Festival di Cannes del 1983, in una sala del- ['ex ambasciata cinese a Parigi, adesso trasformata in un cinema che si chiama «La Pagoda». Lo dico perché l'effetto di Kitsch è irresistibile, fa pensare a come verrebbe preso in Giappone I diavoli di Ken Russe/ proiettato in una sala ricavata in una cappella gotica. L'eccesso di ambientazione rischia di farci marcare subito quanto ci sta di fronte come «esotico», nel senso in cui lo è la cucina thailandese sui Navigli di Milano. In nessun senso, cioè, al di là della pastosità dellaparola da rigirarein bocca. Difatti, mi avevano prevenuto che questa Ballata di Narayama era un film duro, molto giap, e io l'ho vissuto come un film comico per la maggior parte. Asperità ce ne sono: neonati morti trattenuti da un cespuglio nell'acqua del fiume, un'intera famiglia seppellita viva perché accusata di furto, vecchi tenuti chiusi in cantina a morire di fame o buttati giù da un precipizio accuratamente legati, e soprattutto l'anziana protagonista, Orin, che si spacca i denti contro una pietra. Il tutto, però, trattato con mano leggera, come se - nel quadro della vicenda raccontata - fosse normale. È questa normalità fuori dalla (nostra) norma, suppongo, che dovrebbe farci riflettere efunzionare da spaesamento brechtiano. Ci provo. Il tema trattato dal film non è da poco: muori e lascia vivere, si potrebbe dire. In uno sperduto villaggio de/nord del Giappone, caratterizzato dall'estrema povertà, il tura, per così dire, il piacere del testo. Dall'analisi del testo (anni sessanta) all'edonismo del testo· (anni settanta), L'impero dei segni ha articolato il vettore barthesiano. Egli ha trovato nel haiku la gioia non-direzionale e decentralizzata, o la felicità del «juste pour écrire» (L'empire, p. 110). «Le corps collectif des haiku est un réseau de joyaux, dans lequel chaque joyau reflète tous les autres et ainsi de suite, à l'infini, sans qu'il y ait jamais à saisir un centre, un noyau premier d'irradiation» (ibidem, p. 104)8 • La gioia (la gemma?) della lettura e della scrittura non dovrebbe essere intellettuale (capire il senso, conoscere l'intenzione riposta dell'autore, classificare i vari stili, giudicarne la posizione storica... ), ma corporale e musicale: sentire il rumore musicale prodotto dal testo che sta attraversando il mio Il •orireinGiappone Isabella Pezzini problema demografico viene risolto drasticamente: uccidendo i neonati in sovrannumero (chiamati familiarmente «sorcetti») o vendendoli, sefemmine, al mercante di sale, che tiene i contatti fra i villaggi relativamente vicini, procurando mogli dove sono necessarie. Ma sono i vecchi soprattutto che, ali'età di settant'anni, vengono eliminati: accompagnati su una montagna sacra e lì lasciati a attendere la morte. Mi sembra che la stampa, alla presentazione del film, abbia soprattutto insistito su quest'ultimo aspetto, portando a leggere il film come riflessione sul tema degli anziani, evidentemente attuale oggi che viviamo - almeno così dicono le statistiche - in una società che tende all'invecchiamento quanto a età dei propri componenti, pur modellandosi ideologicamente sul mito della giovinezza. Su~'antipatia della nostra società nei confronti del vecchio circolano alcuni luoghi comuni del tipo: è finita lafamiglia patriarcale, si tende allafamiglia a tre componenti, gli spazi sono ridotti, il vecchio costa moltissimo alla comunità (in termini di pensione, assistenza, ecc.), non è produt- • tivo e per altro non consuma neppure - insomma, dà francamente noia. Cosa può avere in comune que- . sta situazione con quella raccontata da lmamura? Orin ci viene mostrata mentre lavora continuamente, sta benissimo, tanto che per convincere il figlio di essere giunta al proprio momento deve spaccarsi i denti da sola. A un certo punto, cade anche il problema della sovrappopolazione della famiglia, perché lagiovane moglie di uno dei fratelli, sorpresa a rubare, viene eliminata con il resto della sua famiglia. Di fatto, è Orin a volere essere accompagnata alla montagna. Il conflitto vissuto dal figlio che deve farlo è presentato in modo netto: Tatsuhei condivide completamente le usanze e le leggi della sua comunità. Non fa una piega quando deve collaborare ali'esecuzione della cognata; non solo, ma si scopre che ha ucciso il proprio padre perché costui si era rifiutato di portare la madre alla montagna, diventando così motivo di scandalo per la famiglia e il villaggio. Eppure Tatsuhei fa di tutto per ritardare il momento in cui Orin deve morire, trasgredisce anche. Dopo averla abbandonata, visto che nevica, torna indietro di corsa per riprenderla, leparla, le offre da mangiare. E quando torna a casa, soffre vistosamente nel constatare corpo. «L'écriture - scrisse Barthes nel 1974- c'est la main, c'est donc le corps: ses pulsions, ses contròles, ses rythmes, ses pesées, ses glissements, ses complications, ses fuites, bref, non pas l'ame (peu importe la graphologie), mais le sujet lesté de son désir et de son inconscient» (Le grain, p. 184)9. L'immagine è una traccia o una superficie della scrittura come «gesto» corporale: nel calligrafismo giapponese Shodo, lo spettatore, non apprezza il significato degli ideogrammi che il maestro ha dipinto, né il dipinto in sé, ma l'armonia fra ideogrammi come segni dati e le tracce che il pennello ha lasciato. La traiettoria dell'inchiostro nero non significa niente, ma «designa» il gesto del pennello e l'atto dell'artista-scrittore: Là! L'immagine-scrittura non è l'altro del piacere vuoto? O il piacere . , I ' • l f ' che le cose di Orin se le sono già spartite le altre donne di casa. Allora: se il film di lmamura è internamente problematico, e inoltre funziona come smentita dei nostri luoghi comuni sugli anziani (ci possono essere famiglie patriarcali dove il vecchio non è tollerato: dire che oggi le cose vanno così perché non e' è più la famiglia patriarcale non basta, bisognerebbe chiedersi almeno quale: quella dei contadini della bassapadana è uguale a quella dei pastori sardi o a quella dei quaccheri in America?), vale lapena di leggerlo in questo senso pseudosociologico e in fondo pietistico - e cioè come se dicesse: Guardatevi dalla barbarie delle norme che oggi come ieri perseguitano i vecchi? Vedete Orin quanto è simpatica (fra parentesi assomiglia moltissimo al mostrino ledi che in Guerre stellari II inizia Luke), non le affidereste i vostri bambini invece di farla morire sulla montagna (ali'ospizio, e così via)? Protesto vibratamente contro una simile lettura. La questione del film è a mio parere un'altra, ancor meno facile da metabolizzare, perché è quella del morire. Non tanto della morte, evento troppo astratto (tutti dobbiamo morire, anche se viviamo come se non) o troppo concreto, punto finale e liberatorio di un processo detestabile (l'intera esistenza o, più spesso, un male «incurabile»). Nel morire c'è ben di peggio. La consapevolezza che ci siamo, l'angoscia e la paura di questo stadio intermedio: sono vivo abbastanza per soffrire ma sono teoricamente già morto - e, soprattutto, sono solo. In effetti Orin non la vediamo «morta». La lasciamo lì, come fa Tatsuhei, inginocchiata nella neve, anche se non abbiamo alcun dubbio sulla sua fine (tutt'intorno, ed è forse uno dei punti meno felici del film, è pieno di scheletri e di corvacci, tanto perché nessuno creda che la nonnina è stata portata solo a fare una passeggiata). In realtà, quando il film èfinito e sono uscita dalla pagoda cinese, mi è capitato di pensare: «Bello morire così». E cioè all'interno di un qualche cosa che dia una forma, un senso, a quanto per me rappresenta un nonsenso. Diciamo: rileggereil mio individuale non-senso, la mia morte, attraverso un senso collettivo, interindividuale. Il morire di Orin è solo il compimento particolare di un paradigma stabile, «sociale»: c'è un modo di morire, nel villaggio della leggenda di Narayama. Non e' è segreto, intempestività, frattura fra la vita e la morte, la comunità e l'individuo. per natura non sarebbe anche vuoto? È un colpo. È un colpo di gioia senza profondità. Transitorio, futile, centri-fugo. L'utopia hic et nunc. È dentro l'impero dei segni, dove siamo in «une répétition sans origine, un événement sans cause, une mémoire sans personne, une parole sans amarres» (L'empire, p. 104)10. Dove finisce la scrittura? Dove finisce il libro? ( ... au sourire près). Note (1) «Ciò che può essere preso in considerazione pensando all'Oriente non sono altri simboli, un'altra metafisica, un'altra saggezza ( ... ), ma la possibilità di una differenza, di un mutamento, di una rivoluzione nella proprietà dei sistemi simbolici( ... ) proprio l'incrinatura del simbolico» (trad. it., pp. 5-6). . ). \ \ \ Il morire, come viaggio verso, pone la morte come meta, oggetto di valore e non di terrore. Non è tanto importante sapere perché il percorso sia di quel tipo (perché costeggiare lo stagno, girare sette volte?) ma che ci sia un percorso da compiere, e che lo compia l'intera comunità. (Gli anziani raccolti intorno all'ultimo saké fatto da Orin: ciascuno enuncia una tappa del viaggio; ciascuno lo conosce, non e' è bisogno di dirlo per comunicarlo, per insegnare la strada, ma lo si dice per statuirlo, per riconoscere che c'è). E che lo compia il figlio: portando sulle spalle la madre, egli si fa carico della sua morte, in modo fisico, il più bel modo di esprimere il morale. Ancora due cose da notare: la morte vera e propria non esiste, è Narayama, il Dio, che viene a prendere. Inoltre anche Narayama non esiste o, meglio, non esiste un luogo dove sta, un villaggio dove si compie questo rito. Ci sono villaggi dove esiste questa leggenda, dove si canta questa ballata :_ dove, forse, si portano i vecchi sulle montagne (tutto ciò che è alto è sacro, ma non qui o là). Il che significa che alla bella morte giapponese raccontata da lmgmura serve sostanzialmente una società con un suo patrimonio culturale condiviso dai suoi componenti, la capacitàdi questi ultimi di assumersene le responsabilità (Orin, che aveva tutti i denti, poteva barare con l'età), la fede. Il legame tra il realismo del racconto cinematografico e quellofantastico della leggenda denuncia il bisogno di preservare questa «riserva» di fantastico, forse minacciato - anche in Giappone - da nuovi modelli di «realtà».Non è una scoperta di Imamura che esistano riti molto forti per tutti i «passaggi», fra cui quello fra la vita e la morte. Ci sono libri e libri sull'argomento: per esempio, Storia della morte in Occidente di Philippe Ariès, tradotto nella Bur (Milano 19822 , pp. 260, lire 4500); adesso in Francia ne è uscito uno nuovo, sempre di Ariès, Les images de l'homme devant la mort (Paris, Seui/, 1983, pp. 240, ff. 299), e un altro, sempre monumentale, di un altro storico francese, Miche/ Vovelle, La mort en Occident. La conclusione cui generalmente i testi arrivano, però, parlando della nostra contemporaneità, è che si assiste sempre più al tentativo di evacuare totalmente la morte - e quindi i suoi riti - dalla nostra cultura, negarne ogni valore collettivo. A morire è sempre l'altro, la sua morte non ci coinvolge, sem- (2) «Mi sono concesso la libertà di entrare completamente nel significante ( ... ) e in particolare il diritto.di scrivere per frammenti». (3) «Rispetto a quanto è ricoperto dal discorso costruito, il frammento è un guastafeste, un discontinuo, che instaura una sorta di polverizzazione di frasi, immagini, pensieri, nessuno dei quali 'afferra' in modo definitivo». (4) «Il haiku non è un pensiero ricco ridotto a una forma breve, ma un evento breve che tutt'a un tratto trova la propria forma esatta. ( ... ) L'esattezza del haiku (... è) adeguamento di significante e significato, eliminazione dei margini, delle sbavature e degli interstizi che di solito eccedono o orlano il rapporto semantico» (trad. it., p. 88). (5) Il haiku è «anti-descrittivo, nella misura in cui ogni stadio della cosa è immediatamente, caparbiamente, vittoriosamente trasformato in una fragile essenza di apparizione». (6) «Nessun piatto giapponese è provvisto di centro ( ... ). Il cibo non è mai altro che una collezione di frammenti, nessuno dei quali parrebbe privilegiato da un ordine di ingestione: mangiare non significa rispettare un menù (un mai ci imbarazza. ln un mondo dove nessuno è indispensabile,. la morte di chicchessiapassa del tutto inosservata. Tutto comincia con la malattia (con la vecchiaia?): con la scusa di «non disturbare» viene decretata fin da subito la morte sociale del- /' individuo. Per non parlare di ciò che sono diventati i funerali, le cerimonie funebri appaltate a piccoli supermercati della morte, disposti in alcuni casi a forni re anche un paio di vecchine che piangano. Ma ciò che è impressionante è la perdita di qualsiasi ritualità - di qualsiasi senso - dell'appena prima della morte, il momento in cui, appunto, si avrebbe bisogno di essere «aiutati» a morire. Perfarsi un'idea di come si muore nelle «civiltà avanzate» si può leggere un saggio-rapporto sulla rappresentazione sociale della morte in certi ospedali Usa, raccolto nel reading di P. Giglio/i e Alessandro Dal Lago Etnometodologia, pubblicato recentemente dal Mulino (Bologna 1983, pp. 237, lire 18.000). Il regolamento ospedaliero fa, se vogliamo, sopravvivere una benché minima ritualità solo sul cadavere, che va subito lavato e fasciato in un certo modo. Ma finché il cadavere è vivo (scusate l'eff etto macabro ma nel caso degli stati «irreversibili»è così) il persona/e è addestrato a far /i1J.tadi nien- •. l te - come se non dovesse morire. Gli si continuano a somministrare medicine, a farlo stare in posizioni scomode (per esempio senza cuscino) ma «profilattiche», salvo comunicare con gli altri «vivi» tramite una sorta di codice leprevisioni sul prossimo decesso. Il malato grave, diciamo pure il morente, viene «cadaverizzato» il più presto possibile. Le infermiere diventano molto brave nel capire quanto ci vorrà ancora, e cominciano le operazioni di pulizia e fasciatura appena prima della morte clinica, non tanto per guadagnare tempo (spesso è così) ma perché dà sempre fastidio maneggiare un morto «vero». La «bella morte» non è più quella che ci auguriamo per noi stessi (non può che essere quella violenta e immediata, o quella nel sonno), non coincidepiù con quella che ci chiedono gli altri, o che noi chiediamo agli altri. Di andarsene «con dignità», cioè facendo finta di niente. Di non sapere, di non soffrire. Di non morire, insomma. La ballata di Narayama Regia di Shoei Imamura (Giappone 1982) itinerario di portate), ma prelevare, con un lieve tocco di bastoncino, ora un colore, ora l'altro ... » (trad. it., pp. 27-28). (7) «Il testo non 'commenta' le immagini. Le immagini non 'illustrano' il testo: ( ... ) testo e immagini, nei loro intrecci ( entrelacs), vogliono assicurare la circolazione, lo scambio di questi significanti: il corpo, il volto, la scrittura, e leggere in essi il regredire dei segni» (trad. it., p. 3, sottolineatura mia). (8) «Il corpus collettivo degli hailru è un reticolo di gemme, dove ogni gem- "'=tma rispecchia tutte le altre, e così di c::s seguito, all'infinito, senza che vi si pos- ~ sa mai cogliere un centro, un nucleo -~ primario di irradiazione» (trad. it., p. ~ 92). ~ (9) «La scrittura è la mano, e dunque il ...., corpo: le sue pulsioni, controlli, riàni, e pressioni, slittamenti, complicazioni, ~ fughe, insomma non l'anima (poco im- È porta la grafologia) nia il soggetto cari- 00 cato del proprio desiderio e incon- lr) scio». i;: (10) «Una ripetizione senza origine, un s evento senza causa, una memoria sen- 1:: za persona, una parola senza ormeggi» ~ (trad. it.t p. 93). (l

Cento haiku a c. di Irene Iarocci presentazione di A. Zanzotto Milano, Longanesi, 1982 pp. 184, lire 8000 N el 1982 è uscito, presso l'editore Longanesi, un volume di haiku tradotti da Irene Iarocci, col titolo immodesto «Cento haiku. In una antologia commentata il meglio della grande tradizione poetica giapponese»; il volume si vale di una presentazione di Andrea Zanzotto. Ora, mi arriva notizia dal Giappone che è in preparazione un secondo volume a opera della stessa traduttrice. Tanta insistenza richiede qualche osservazione. «Vierge vers ... », dice Mallarmé: verginità perduta a ogni lettura, ma ci si augura che la traduzione non faccia violenza al testo. A proposito di questo sonetto di Mallarmé, Luciette Finas pubblica su Esprit (n. 12, dicembre 1976) un saggio esemplare sull'interpretare poesia. Prendiamo una citazione: «Le 'fait accompli' de son poème me laisse, en apparence, une liberté démésurée. L'initiative m'appartient, si effrayante et vaine, que mon premier soin est de l'abdiquer»1 • Raramente i traduttori consen- •·· tono a abdicare: per lo più fanno dure prove di forza con l'autore legittimo, spesso rivelando frustrazioni di poeti mancati; altre volte rinunciano con indifferenza, magari con sciatteria, al travaglio di una approssimazione all'infinito verso una forma certo irraggiungibile perché unica. Nel caso in questione non si tratta di «aura» mancante, si tratta di una indelicata intromissione sostitutiva. Quella del haiku classico è una struttura ferrea: 17sillabe suddivise in tre versi di 5 - 7 - 5 sillabe. In questa composizione così rapida vengono riportate immagini di una concretezza materica che evita qualsiasi ambiguità o allusività, qualsiasi alone s.imbolico,qualsiasi patetismo: nella sua istantaneità il haiku illumina oggetti di una precisione inequivocabile. L'aleatorietà, se così vogliamo dire, del haiku non sta in una incertezza del tema o in una vaghezza di immagine estompée: sta piuttosto nell'omissione di alcuni nessi che dovrebbero collegare le parti del discorso, ed è in queste omissioni che si realizza l'effetto di choc della composizione. La /ente aperta fra il discorso evidente e il suo signifièato sotteso (e non sottinteso) non viene mai colmata. E non deve essere colmata. La sua funzione è di agire come un «buco nero» in cui va a annullarsi ogni associazione convenzionale, ogni meccanismo logico di apprendimento, spingendo il lettore verso un linguaggio liberato che ~ illumina la distanza del soggetto -5 da qualsiasi identificazione imma- ~ ginaria o simbolica. ~ Spesso si è detto che in un certo ......, senso un haiku assomiglia a un koan dello Zen: cioè a una rottura delle sovrastrutture associative note, per toccare il significante primario che l'immagine contiene e che in questo caso non è raggiungi- ~ bile per sostituzione o contiguità, Ì ma solo per un annullamento della ~ pretesa stessa di sapere. Maledetti fllologi / 7 Checos'èil haiku Carla Vasio Vediamo che cosa si può perdere della qualità intrinseca di un haiku in una cattiva traduzione. Prendiamo ad esempio un haiku di Bashò pubblicato (p. 50) dall'edizione Longanesi, uno dei più noti in Giappone. Il testo, nella trascrizione fonetica, dice: «Furu ike ya I kawazu tobikomu I mizu no oto». La traduzione letterale è: Furu, vecchio; ike, stagno; ya è un segno di accentuazione e di pausa; kawazu, rana; tobikomu (parola composta da tobu, volare, e komu, entrare), si tuffa; oto, suono; no, di; mizu, acqua. La traduzione che ci viene data è: «Nello specchio antico / d'acque morte / s'immerge / una rana. / Risveglio d'acqua». A parte la cadenza dell'originale sono piccole». Bucchò gli chiese: «Attualmente, a che punto sei arrivato?» e Bashò rispose: «Sotto la pioggia il muschio è verde». Di nuovo Bucchò domandò: «Qual è la legge del Budda prima che il muschio cresca?» In quel momento Bashò udì il tonfo di una rana che saltava nell'acqua e disse: «Il suono di una rana che si tuffa nell'acqua». Da questa risposta Bucchò capì che Bashò aveva raggiunto un alto grado di illuminazione e si congratulò con lui. L'illuminazione non è una modificazione progressiva e non è neppure un'esplosione nucleare: è la rottura improvvisa di un diaframma, come il ploff di una rana che tuffandosi nell'acqua infrange la superficie stagnante della nonshisa ni, in solitudine; Kikaku suggerì Yamabuki ya, il fiore di kerria. Bashò li lodò e propose a sua volta Furu ike ya, vecchio stagno. Tutti furono presi da profondo rispetto e dissero che in qùesto verso si apriva completamente l'Occhio del haiku: lo stesso avvento del Budda era contenuto in queste 17 sillabe. In questo haiku è dunque raffigurato un Occhio che si apre, non un quadretto di genere. Per riferimento citiamo la traduzione di R.H. Blyth: «The old pond / a frog jumps in / the sound of the water» (R.H. Blyth, Haiku, eastern culture, Hokuseido Press, 1949), e quella di E. Miner: «The old pond is stili / a frog leaps right into it / splashing the water» (E. Miner, Gli studi cinematografici di Sievering, presso Vienna, realizzati dalla Sascha-Film nel 1916. perduta nel frastagliamento di questi versetti; a parte l'ingentilimento abusivo dell'immagine per cui «vecchio stagno» diventa «lo specchio antico d'acque morte», con una leziosaggineda illustrazione fine Ottocento, in cui oltre tutto si perde quella qualità bassa dell'immagine, programmatica in uno stile che ci teneva a distinguersi dalla precedente poesja di corte; a parte questo e altro, quello che si perde è l'efficacia della parola tobikomu, suono di rottura intorno a cui le altre sillabe si aggregano, che significa «balza, si tuffa» e che invece viene graziosamente tradotto con un «s'immerge» ulteriormente addolcito dall'elisione. Vediamo, dunque, che cosa c'è dietro quel tobikomu, che è il centro dell'interesse dovendo esprimere un colpo improvviso, una rottura, uno choc auditivo e emozionale. Si racconta che Bucchò, un monaco illuminato del tempio Komponji, maestro di Bashò, andò a far visita al poeta nel suo eremitaggio. Lo accompagnava un uomo chiamato Rokuso Gohei, che appena arrivato gridò: «Ma, come? La legge del Budda in questo giardino tranquillo con alberi e erbe?» Bashò rispose: «Le foglie grandi sono grandi, quelle piccole conoscenza; è il «suono d'acqua» di tobikomu che rivela l'improvvisa illuminazione della mente inerte. Una rana che si immerge sarà più graziosa ma non infrange nulla. La storia continua dicendo che più tardi Sampiì si congratulò con Bashò per la profonda religiosità del suo verso, ma un altro discepolo osservò che mancava la prima parte del componimento e bisognava completarlo. Bashò invitò i discepoli a comporre essi stessi il primo verso: Sampiì propose le 5 sillabe Yoyami ya, l'oscurità del crepuscolo; Ransetzu disse Sabi- ~ie ltbenbe \IJIJOlDQtll)l)ic .,CinBmatoro1auho" ber -Oetcen Aagai.t unb LoulliLa.mJére au~ Lroa. _. TlgUoh .... 6306 V orstel lun;:en tion 10 Uh,r·t}rii~ bi~ 8 llh,r 2!brnbl. 1. •·ubrtksarhelll"r grhcn 1111chUca1111e. !!. Debl's 1-"rilh~tDc:k. :J. Dt'r Seht't.ren• KcblclCer am lluu11tplati. f. Polllhthe ~klnnni:srnischir.dcnbelt~n. 5. Ule dcmolfrtti :uuuer. o. f'e~tiu,r In 1ilzz:i. ,. IJrr l.:lscubabuxug. I. Bezlrk,KarntnerstrassNer..45 (t:inoano )truqnftraf1e -.!, f)od;i,artnn). ~ C!;inh-Ut 60 kr. .,.. Pubblicità del Cinématographe dei fratelli Lumière (Vienna, marzo 1896). «The Monkey's straw raincoat», Princeton Un. Press, 1981). Quella di Blyth, il decano dei traduttori di haiku, nella sua,secchezza è la più vicina all'originale, mentre Miner, pur °rispettando l'essenziale dei versi, il «sabi» dell'old pond, lo scatto della rana,io splashing dell'acqua, tuttavia è pressato dall'ansia di non spiegare abbastanza. Egli stesso dice della propria tecnica di traduzione: «By endeavoring to preserve the line order and cutting, we bave sought to pay due tribute to the need of explicability»2 - preoccupazione pericolosa per il traduttore di una poesia in cui omissioni sintattiche e parole tronche sono usate ad arte non solo per marcare le pause, ma anche perché il lettore possa trasgredire i limiti che gli porrebbe una immagine finita. L'azione arbitraria in questo caso è proprio «chosen one meaning out of severa! possible one». Oltre a limitare la prevista partecipazione del lettore, si finisce col cadere nell'equivoco di annettere il haiku ai generi tipicamente occidentali della poesia di frammento e di ambiguità; invece, è aspirazione di un poeta di haiku riuscire a rappresentare in 17 sillabe un universo compiuto, contenuto in una percezione istantanea di tempo e di luogo. Non si tratta quindi del frammento di una realtà incompleta, ma piuttosto di un intero universo presente in un unico oggetto di attenzione. «Vede le differenze dopo aver visto l'unità: questo fa il poeta», dice Tokoku Kitamura, scrittore di epoca Meiji. Sarebbe meglio; dunque, parlare di polisenso piuttosto che di ambiguità, allusività o rinvio, e di costante fuga del significato in vista di una ulteriore estensione. R itorniamo in compagnia delle rane, animali molto rappresentativi nel bestiario della favolistica orientale. A pagina 107 della edizione Longanesi si legge: «Dopo la pioggia / la raganella / con caute mossette / sale sul tronco scivoloso / dell'albero di banane». Il testo dice: «Amagaeru I basho ni norite I soyogi keri». Si nota che amagaeru è una rana verde che vive in ambiente umido; basho è il banano, e norite vuol dire star sopra; soyogi è un verbo che si usa per l'oscillare delle foglie nel vento; e keri è l'ausiliare per il passato. L'immagine presenta, dunque, una rana posata su· una foglia di banano che ha oscillato nel vento. Si può ricordare che la posizione della rana dritta nella schiena e salda sulle zampe è spesso citata dai maestri di Zen come esempio di posizione corretta. Si può dire che si tratta di una tipica immagine «sabi», parola chiave per capire molta arte giapponese, derivata dal verbo sabishi, che indica l'introversione della solitudine, e anche consonante con il sostantivo sabi, che vuol dire ruggine (per un maggior approfondimento si veda· Juzo Karaki, Letteratura del Medioevo, Chikuma Shobo; 1955). Si possono fare molti riferimenti, ma certo le «mossette caute» e il «tronco scivoloso» nel testo non ci sono e risultano fuorvianti rispetto all'immagine originale così calibrata sulle due condizioni: la stabilità della rana e l'oscillare della foglia, un momento di equilibrio nell'oscillare del «mondo fluttuante». Se anche ci si volesse rammaricare per una immagine «povera» e si cercasse di renderla più attraente, si dovrebbe evitare tutta- - via di trasformare un haiku nella Vispa Teresa. Per non dare l'impressione che il haiku sia una poesia religiosa, prendiamo un ultimo esempio di componimento dedicato alla vita familiare. A pagina 138 dell'edizione Longanesi si legge: «Un brivido di freddo, I lì sul pavimento della camera / al toccar col piede / il pettine della mia povera cara». Il testo dice: «Mini shimu ya I naki tsuma no kushi wo I neya ni fumu» ed è di Buson. Vediamo ora che mi ni shimu significa «penetra nel corpo» (shimu, penetrare; mi, corpo) e indica una sensazione molto forte, molto intensa. Si può dire di una visione di bellezza sentita fortemente o di un rimprovero efficace o di qualsiasi sensazione penetrante; si può dire anche del vento autunnale e in questo senso diventa kigo dell'autunno, cioè indicatore di stagione, tanto più che l'autunno è il momento in cui tutto tende a ritirarsi verso l'interno mentre per la primavera si usano parole che indicano l'aprirsi verso l'esterno.

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