Alfabeta - anno V - n. 55 - dicembre 1983

nazismo non richiede un orizzonk universale di legittimazioM. La kginimaziorie t già cima: la razza, la vita, la narura leginimano un determinato popolo, e solo quello. Kant parla invece di i<halicosmopoliti. Quan.to al neolcanti• smo, che cosa vuol dire Molcantismo? Certo, riprerido il discors9 karitiano sui segni di storia. Ma che cosa vuol dire, oggi, 'sqrii di storia'? Perché si possa parlare di segrii di storia, bisogna presupporre una teleologia oggettiva, una natura che ci fa dei segni, e che ci fornisce un filo condutto• re. Oggi quella nqtura t sconf/,arsa: la caralteristica della storia postmo<hma consiste appunto MIia assenza di interlocutori. la storia non ci fa più cerini ni ci fornisce fili coriduttori; la sola cosa che ci res1a t domandard: «Accade che?•, ciot «Capita qualcosa?,,, E guardare a questi 'accadimenti' t proprio il contrario di una utopia: t realismo, t serietd rispetto al tempo coruiderato come ciò che dd le frasi, come riserva di frasi possibili. I 'segni di sloria' sono ora questi accadimenti, queste 1racceprive di un fùo condu1tore. Prendiamo ad esempio Ernst 8/och. li suo Geist der Utopie mi pare proprio uno serino 'wopico' in senso banale, vi t davvero la speranza in una natura e in una umanità redente ... Ma, accanto al Geist der Utopie, Bloch ha scrillo un altro libro, mollo lidlo: Spuren, a« tracce. essere attenti a queste ,,acce - lo ripeto - non t utopia: t puro realismo, t serietd rispetto aJJa sloria e al giudizio. U-diralslaua Fabbri. E in questo spazio, che rilevanza ha il marxismo? Nel libro, non gli dedichi che tre paragrafi .. Lyotard. Il più grande merito del marxismo t che in esso t sempre esplicito il fallo che il sociale t un campo di dissidi. Non t poco. Personalmente, t tUJtoquello che mi resta di vent'anni di marxismo attivo e appassionato. La lotta di classe, invece, mi pare una questione metafuica, e ancor più la teoria del valore. Sul piano dell'analisi dei dissidi, direi anzi che il marxismo non t affatto morto. Se si abbandona una fenomenologia banale, t vero piuttosto il contrario, perché non ci sono mai stati tanti dissidi come ora, parcellizzati, demoltiplicati. LA percezione del dissidio t la massima ispirazione del marxismo. I treparagrafi 'marxiani' del libro sono minimalisti, vogliono dire: non venite a seccarci con la vostra destra scema, o con la vostra sinistra altrettanto scema, umanista e piagnona; la percezioM del dissidio t tutt'altra cosa (di qui, il paragrafo sul riformismo, una posizioM che disprezzo, e credo che si vedll... ). La grande intuizioM di Marx t stata appunto una estrema sensibiliul Mi confrortli del dissidio: una de~rminala classe, il prolelllriato, non pokva accedere alle famiglie di frasi che regolava.tu?.I'econ-0mia borghese. Mancando quindi una regola di giudizio comune, si apriva un torto i"eparabile - dissidio classioo. Ferraris. Sul problema dd dissidio secondo Marx, c't l'esempio dei Martinicani, dll lei fatto in molle occasioni. Lyotard. Precisamente. Un martinicano put} rivolgersi a un tribunale francese per lamentare un danno qualsiasi, per esempio un furto. Sarà ascoltalo, e si giudicherd. Ma se si rivolge a quello stesso tribunale per lamentare il torto di essere francese, non si potrà mai dirimere il dissidio. In/alti, manca una regola di giudizio che possa essere applicala a entrambe le argomentazioni - quella riconosciuta dal giudice francese, e quella del mo.rtinicano che si rivolge a lui per lamentare un torto che il giudice deve necessariamente miscorioscere. La storia recente i piena di dissidi di questo genere. Pensiamo alla gue"a d'Algeria. Molti francesi della mia geMrazione sapevano benissimo che l'indipendenza non avrebbe garantito la democrazia in Algeria; pure, non era giusto che l'Algeria restasse francese ... Fabbri. Nell'opera Les Paravents di Jean Gen~t, ad esempio, quuto dissidio tra francesi e algerini è chiarissimo. Lyotard. Certo. In Le Différend non faccio il nome di Genet, ma moltissime sue cose mi hanno profondamente influenzato. Ferraris. Di fronJe a questi dissidi, qual t la dimensione e il ruolo di una •politica fdosofica•? Vi t lo spazio per un •politico morale• Ml senso kantiano? Lyotard. La ~nsione di una •politica filosofica• non i certo quella di una 'grande politica', di una Grosse Polìtik alla Nietzsche. È piuuosto una piccola politica, una micro/ogia - costruire una linea di resistenza, in senso qua.similitare (M parlano Bwor e Launay in un libro che t uscito dalle Presses Universitaires de France, Résistances, e-bontà loro - mi citano come un 'resistente'). Resistere non comporta l'assumersi grandi responsabilità: basta trovare degli scopi molto semplici, ma di cui si sia sicuri. (Un piccolo esempio: Fabbri t stato in California nel periodo di massima autoritd della linguistica di Chomsky, e 'ha resistito'; resistere t una serie di comportamenti di questo genere). In ogni filosofia c'è un minimo politico, che non è mai enfatioo. Perciò, per esempio, una politica filosofica non t quella delle Deux sources di Bergson, che i penosa, ma piuttosto quella dei primi due capitoli del suo Matière et mémoire; oppure la ~ politica di Spinoza, çhe appartiene davvero a/l'ordine della .5 resistenza. Certu, resistenza è un nome bizzarro, pla1ea/e - [ bisogna diffidarne come della peste. Ferraris. Sopra11u110in italiano. ~ Fabbri. Piil che 'resistenza', in ilaliano bisognerebbe trascrivere 'resis1e,e· (la «resistenza,,,ha lo charme indiscreto di li; un quadro pompierJ. Resistere sembra ancora possibile, esi- S s1ere t (non solo fdosoficamente) più complicato. Ma, tor• ~ nando a Le Différcnd, mi pare che il discorso sulla respon- ~ sabilitd ririvii al problema cenlrale nel tuo libro, quello della e frase etica. A un certo punto, mi pare, essa t per te più es importante di quella politica. Lo si vede nell'analisi di Levi- i nas, che conceni,a una tua riflessione molto più lunga. Per i Leviruu, l'etica precede la stessa ontologia; ma, per te, non vi può essere supremazia di un regime di frasi rispetto a un altro. Per cui, ti domando in primo luogo di stabilire il tuo dissidio con Levinas; e, in secondo luogo, vorrei conoscere il legame tra il 'resistere' e il regime etico. Lyotard. Quanto ai rapporto cori Levinas, la sua filosofia è una bella descrizione del sistema thlla obbligazione. In quella direzione, si t spinto anche più lontano del Kant della Critica della Ragion pratica, perché ha abbandonato il piano trascendentale ponendosi a un livello fenomenologico (t una sorta di complemento a Husserl). Per parte mia, cerco però di cogliere l'obbligazioM in un universo che non è quello di Levinas: esamino le frasi della obbligazione, considerandole come un regime discorsivo in cui l'istanza marcala t quella del dutinatario, nari quella del destinatore, che t 'ba"ato'. Ovviamente, il 'dissidio' principale tra me e Le· vinas t che, per lui, la frase etica ha una dimensione egemonica. Credo che su questa egemonia si debba essere molto cauti, perché reintroduce l'idea di una unitd e di una essenza del linguaggio, che si manifes1erebbe in modo eminente in un regime piuttosto che in al1ri. E questo equivoco si paga salato, in termini di ignoranza, o meglio di irigenuilàpolitica. Quanto alla tua seconda domandll, sulla egemonia della 'responsabilità': quando parlo di responsabilild rispetto ali' «accade•, rispeno agli eventi, utilizzo evidentemente una terminologia trana dllll'etica. Ma credo che non sia l'etica ciò di cui tratto-è piuttosto uriapolitica filosofica, t istituire un Contra tyrannos, perché la tirannia e l'ingiustizia pesario sempre sugli eventi, li inibiscono, li cancellano: t Faurisson che nega semplicememe l'esistenza dei lager nel Terzo Reich. Questa responsabilitd non t un'etica, ma piuttosto una deontologia. E non lulte le deontologie sono etiche - per esempio, le deontologie professionali. Sono generi di discorso sottoposti a finalitd particolari. In questo caso, la deonrologia suorierebbe all'incirca: «Se ci si vuole filosofi, allora bisogna essere allenti agli eventi•. Eterogeneità ddle lamlglie di frasi Ferraris. Questa deontologia specifica del discorso filosofico t anche ciò che lo differenzia dal discorso teorico. Per lei, in/alti, teoria e filosofta non sono o.ffa110sinonimi, ma piullosto si contrappongono. Reductio ad unum: sùggerimen1i per un harakiri politico-morale Lyotard. Certamente. Per vent'anni-dagli anni cinquanlll sirn, alla metil dei settanta - ho molto sofferto a causa della egemoriia del teorico nel pensiero, per cui tutti i problemi venivano trai/ali in termini puramen'le cognitivi. Ad esempio, si 'leggevano' i quadri avvalendosi di sistemi teorici, c~ si ammetteva implicitamente - e inconsciamenle - che essi fossero essenzialmerite oggeuo di conoscenza. Ricordo di aver avuto continui scontri con Louis Marin, quando ei-a rigidllmenie semiologo, e effeuuava con totale determinazione queste 'letture' leoriche della pittura. Ferraris. Nel suo libro, però, /eifa un esempio che mi ha colpito molto di più - sulla 'povertà' della teoria, e del pen• siero speculativo. È l'esempio del fallimento della teoria della giustizia rispetto al nazismo. Lei scrive che Hitler non è staro giudicato, ma solo abbattuto come un co.rierabbioso, e che anche la dialet1icanon ha saputo dare risposle (è il caso di Adorno) al problema del nazismo, considerandolo come una mostruosità incongrua e irrazionale. E proprio la dialettica ambisce a una immagine pura della teoria; basta pensare al passo della Metafisica di Aristotele che chiude l'Enciclopedia di Hegel: il pensiero che pensa se stesso viene posto al vertice della gerarchia dei discorsi - una egemonia assoluta della frase cognitiva, che finisce per inibire un giudizio che verta su regimi di frasi eterogenee. Lyotard. Infatti, t indicativo che Hegel prenda proprio quell'Aristotele, più 'teorico' e meno utilizzabile per il giudizio. Ma vi tanche l'Aristotele dell'Etica nicomachea, secondo il quale i giudici giudicano secondo la propria phronesis. Ora, non si t mai saputo esattamente in che consistes• se la phronesis; ma per quanto se ne sa, appartiene alla frase del sentimemo, e non a quella della conoscenza. Ferraris. In Aristotele, la stessa ontologia tende a risolve,. si in una dossologia, in un invenlario di opiriioni e giudizi. Penso a una/rase come «L'opinione universale t la misura de/l'essere•, che si legge rie/l'Etica nicomachea. Lyotard. Aubenque ha dimostrato come in tutto Aristorele non vi sia una episteme del 'essere; e nel passo che ciii si riconosce la massima concessione di Aristotele ai Sofisti. È forse il passo più notevole di tulio l'aristotelismo, il tr,ionfo su PlaloM. Aristotele, infatti, riconosce che vi sono generi di discorso del tutto e1erogenei - cosa affatto esp_licita,del resto, a/l'inizio del Perl Hermenèias, là dove Aristotele sostUrie di voler trallare soltanto del discorso apofantico - ma che altri generi discorsivi, per esempio la preghiera, nan assecoridano la medesima logica. In sostanza, Aristotele dice: «lo faccio la logica delle frasi apofantiche, di quelle c~ che hanno un referente e un senso». Ma insieme specifica che altre famiglie di frasi hanno una organizzazione del tutto eterogenea. Proprio questa cognizione della eterogeneitd coslituisce ai miei occhi il genio di Aristotele. Fabbri. Aristotele parla di incompossibilitd tra discorsi, per cui un discorso passionale, come lapreghiera, non segue le stesse regole di un discorso apofantico, come la teoria. Ora, mi chiedo che cosapu/J avvenire se trascriviamo qUl!Sta eterogeneitd sul piano delle facoltà umane. Mi spiego: invece di fondare ogni facoltà secondo una psicologia sostanzialistica, non sarebbe meglio riprendere l'ipotesi aristotelica, per cui le pretese facoltd altro non sarebbero che gli effetti di diversi tipi di discorsi reciprocamente incompossibili? In questa prospettiva, le faco/td sarebbero effetti di senso di regimi di frase eterogenei. La passione si inscriverebbe quindi in una logica della sensibilità, o della sensazione, come direbbe forse Deleuze. Una logica che non t presupposta (sarebbe una melllfisica grama), ma che si presenta come effetto di un regime discorsivo (proprio come dice Aristotele: ci sono discorsi che servono a oommuovere, altri che vanno bene per convincere, e non li si può omologare). Lyotard. Verissimo. Ma si apre una domanda a cui riel libro non ho risposto: da dove proviene il ripiego.mento della eterogenei/Il dei generi di discorso sulla pretesa identità dell'uomo? Che cos'è questo narcisismo fondamenta/e che ha imposto la propria egemoriia sul pensiero occidentale (e che, per esempio, nei Sofisti non era affano presente?) Fabbri. Anche la semiotica e la linguistica riconoscono chiaramente che gli attori stessi sono definiti dal discorso, e nori il contrario. Ciò comporta un riesame radico.ledel rapporto tra soggetto e oggetto, che divengono dellé semplici istanze discorsive. Lyotard. Ma anche quelle istanze sono 'in male di iderititd' ... Va riconosciuto a Heidegger il merito di avere indicato appieno l'umanismo che distorce la nostra concezione del linguaggio. Anche se, per parte sua, Heidegger mi sembra aff/.itto da un fortissimo cratilismo: la convinzione che risalendo la storia delle parole, cercaridone l'etimo, effettuando una sorta di anamnesi, si possa giungere a un senso originario e ('ovviamente') più vero. li che conferisce alla sua rifles• sione un tono insopportabilmeme edificante, mistico, luterano. Ho cercalo di sbo.razzarmeM Mlla mia visione del liriguaggio .. Ferraris. Di 'urbanizzare' Heidegger, come dice Habermas a proposito del lavoro di Gadamer sulla eredità heideggeriana? Lyotard. Peggio, di suburbanizzarlo, di farne una filosof,a di periferia, nel senso in cui Wittgenstein dice che il liriguaggio è come una ciltd, a cui ogni giorno si aggiungorn, nuovi sobborghi. Nome e necessità Fabbri. Heidegger aveva una concezioM del linguaggio alquanto rappreseritazionale. L'idea delle radici delleparole come deposito di un significato più 'autentico' t ancora morfologica nel senso più banale, quello della grammatica: 'decostruendo' e rimontando le parole, tentava di passare (nuJ come?) da U/1 livello di sigriificazione all'altro. In sostanza, dunque, Heidegger non po1evaporsi né il problema dei regimi di frasi, né quello della dimensione pragmatica del linguaggio, che è viceversa quella da cui muovi tu. E credo che sia importante sottolineare questo fatto, perché attualmente la concezione filosofica del linguaggio mi pare soggetta a una grande divaricazione. Da una parte, nel post-heideggerismo predomiha l'immagine lessicalizzata e rappresentazionale del linguaggio; dall'altra, la dimensione pragmatica diviene appannaggio esclusivo della tradizione della linguistic analysis. Ora, mi pare che 1ucata/orizzi su questa duplice 1radizione. Lyotard. Rispelto a Heidegger, in particolare, il mio lentativo t prendere in esame non la parola, ma la frase, che comporto. già una dimensione pragmatica .. Fabbri. E rispetto alla linguistic analysis? Nel tuo libro dedichi un intero capitolo, il secondo, all'esame delle tesi di Kripke sul nome. Ma ne fai un uso 'perverso'. Lyotard. Non so in che cosa consista la perversione del mio uso. Gli americani hanno le110alcuni passaggi del capi· toto su Kripke e hanno rifiulato di pubblicarli sostenendo che non sapevo quel che dicevo. Dunque, la mia è piuttosto ingeriuitd. Comunque, muovendo da Kripke, mi sono fo.tt0 una idea del nome come di un quasi-deillico: il nome non designa nulla, ma su questo nulla si fondano operazioni di significazione, prove di realtà, definizioni. Ora, la mia impressione t che Kripke, per quanto possa presentarsi come un essenzia/ista, non omologhi il rn,me all'essenza: il nome t un designatore rigido, certo, perché rion cambia, ma questo non signif,ca (come vorrebbe invece Russell) che esso è una definizione abbreviata. Che si giunga a nominare non significa che si giunga a mosrrare. Si pu/J nominare Socrate, ma resteranrio sempre aperti problemi come: ciò che mostro è anche ciò che chiamo Socrate? E poi: chi t Socrate? Ma cit}che consente la convergenza di questi interrogativi è pur sempre il nome. Perché queste domande supporigono lapermanenza del nome 'Socrate' come designatore rigido. Siamo in un mondo di riomi, e non solo non ci siamo dati il riostro nome, nuJ in generale non ci si dd il mondo dei nomi. E se questo mondo di nomi non t la realtd, pure, quando si vorrd parlare della rea/td, si dovrd ricorrere necessariamente a esso. A esso si riferiscono le operazioni cognitive che si propongono di dare un seruo al reale. Per questo il nofm è un qua.si-deittico: non ha altra funzione se non quella di designare, ma non designa nulla dal momento che non t un deittico. -,: ..J ,.

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