saggio ristampato in Uomini e scrittori del mio tempo, Firenze, Sansoni, 1943). Si sa che nel 1937 Maria Zeffu lì lì per vincere il premio Viareggio ma, in ossequio alle tradizionali distrazioni all'interno dei certami militanti, poi non lo vinse. Dopo qualche modesta ristampa il silenzio cadde sul romanzo, e su tutta la produzione di Paola Drigo: la guerra, il movimento neorealistico - produttore di un campo di tensioni entro la letteratura, - assegnarono alla scrittrice un destino cimiteriale. Il merito di aver sottratto a una dimenticanza senza appello questo romanzo va allo scrittore friulano Siro Angeli, già sensibile in proprio a vicende del mondo contadino della sua terra, da lui trasposte in pièces teatrali. Fu lui a ricavarne la sceneggiatura per il film realizzato dal regista Vittorio Cottafavi, presentato dalla Rai al Premio Italia e trasmesso dapprima in tre puntate sulla Rete tre, indi il 2 luglio 1982sulla Rete uno. A ruota l'editore Garzanti ristampò il romanzo con una breve premessa scritta. In Maria ùf è descritta con una discrezione stilistica mirabile per l'epoca (anni trenta) la realtà inquietante, potenzialmente drammatica, di un circoscritto universo di montanari della Carnia, carbonari e pastori, che per merito dell'autrice e per nostra fortuna non sono come molti popolani della letteratura neorealistica dei letterati travestiti da popolani, bensl si configurano legati a una ancestrale sorte tragica, siano adulti con torbidi appetiti o giovani con naturale sete di felicità. Per chi non avesse letto il libro, si nota che la «fabula» e quindi l'intreccio di questo testo - che in sostanza appartiene al genere letterario del racconto lungo, più che del romanzo, proprio per la tensione unitaria dei pochi eventi - si svolgono in quattro parti, a proposito delle quali Ugo Dotti (in Messaggero, 23 giugno 1982)parlò di «quattro quadri per una tragedia,.. Come dire che potenzialmente il lungo racconto è un dramma, concluso difatti da una uccisione, ha impianto teatrale, elemento che certo contribul a suggerire a Siro Angeli la sceneggiatura cinematografica. Una struttura chiusa, quindi: una vicenda che si svolge in quattro mesi e in quattro quadri,o macrosequenze. Nella prima una madre malata, una fanciulla di quindici anni, una bambina di sei, oltre a un barboncino color del fango, scese dai monti della Carnia, vanno con un carretto carico di mestoli, scodelle e cianfrusaglie per la pianura friulana, venditrici ambulanti stagionali povere e affamate. La macrosequenza si chiude con la morte della madre e il definitivo ritorno delle due ragazze, Mariùte e Rosùte, alla squallida baita della Carnia presso Barbe Zef, uno zio carbonaro, povero e ubriacone, presenza ambigua e sottilmente minacciosa. In effetti il primo tempo si chiude con lo stupore e il terrore di Mariùte, la ragazza quindicenne, di fronte all'incomprensibile e misterioso senso della morte e all'altrettanto incomprensibile buio della vita. La morte della madre è, conformemente alla poetica tragica, il primo evento preparatorio del futuro dramma. Il secondo evento preparatorio (di entrambi è responsabile solo il fato) consiste in una malattia della piccola Rosùte, che richiede il suo ricovero in un ospedale di pianura, a Forni; esso è l'avvenimento portante della seconda parte o secondi) quadro. li terzo è il più costruito e significativo: si apre con una parentesi di letizia, l'unica del libro, una serata in una cascina del piano, dove si generano tutte dalla opposiziosi suona, si balla e si tiene un «fi- ne di base, quasi dalla specularità, lò»; segue un dialogo alla baita fra fra il focus tragicus, la sperduta Mariùte e il giovane Pieri, gravido baita, e la lontana pianura, simbodi reciproche speranze. In questo lo alternativo del mondo, della vilibro che specchia un decorso della ta: il Passo della Mauria, al di là vita in cui abbondano le ripetizioni del quale sta la baita, separa le legate ai cicli più tristi della natu- due realtà terrestri. Intorno al luora, non c'è che quest'unico mo- go della tragedia iJpaesaggio è primento di spensieratezza per la gio-- mordiate, atto a fare da sfondo a vane candida, bella, canterina Ma- sentimenti del tutto elementari: riùte, personaggio che sin dall'ini- dirupi, baite sepolte nel silenzio zio pare segnato per contrasto da sotto la neve, solitudine assoluta, un destino tragico. E difatti il ter- immagini di paura. zo quadro si chiude con la violenza Giù nella valle le ricche cascine sessuale esercitata nella solitaria rumorose, i ..filò•, la gioventù albaita dal vecchio Barbe Zef ubria- !egra. Cosi Mariùte vede la pianuco sulla ignara nipote. ra: «Quella bella campagna aperNella quarta e ultima parte l'e- ta, grassa, come era rjcca ed allevento tragico precipita: la giovane gra in confronto alla nuda aridità coraggiosa Mariùte, capace di sop- della montagna dove era nata, alla portare lo stupro, i rapporti ses- stretta valle dove si annidava il suo suali successivi alquanto anima1e- casolare». Lo spazio nel libro si schi di Barbe Zef, la sifilide tra- costruisce sempre su questa opposmessale dall'uomo, la degrada- sizione segnica: montagna I pianuzione, la sconfitta di tutte le spe- ra, alto / basso, stretto I ampio, ranze in proprio, ormai singolar- magro / grasso. In pianura, ossermente lontane ... lontane da lei, verà Mariùte, le case hanno belle quando intravvede analogo desti- finestre, vasti granai, mentre nella no per la sorellina su cui ha proiet- baita tutti vivono in un solo locale tato il senso del vivere, allora nel e a un certo momento, dopo una silenzio della notte uccide con un bufera tremenda che distrugge la colpo di scure lo zio ubriaco e ad- piccola stalla, anche pecore e gallidormentato, dopo averlo guardato ne dividono il poco spazio. e aver sentito, nonostante tutto, Alla mancanza di spazio si afun attimo di pietà. Ultime parole fianca la mancanza di tempo: la videl libro: ._Nonun grido: solo un ta nella baita si svolge secondo un fiotto di sangue,.. ritmo elementare che è assenza L'istante di pietà e la seguente dei segni di un tempo storico. uccisione dello zio hanno la quali- Quando Mariùte torna alla baita Acquaforredel /620 circadi originee soggettonon identificati tà delle punizioni della tragedia greca in quanto vi domina la componente fatale, l'intreccio dei destini toccati in sorte a esseri umani ignari - in altre parole, vi domina il fato dei vinti. Quel che di nordico affiorante in più dai quadri tragici, non consueto nella letteratura mediterranea, ben si addice all'universo montano e aspro della Carnia e più in particolare ancora a quel funereo BoscoTagliato, oltre il Passo della Mauria, presso cui si trova la baita di Barbe Zef, dove i ceppi degli alberi segati appaiono, scrive la Drigo, «enormi monconi di membra umane inchiodate alla terra,.: «Le piogge, i venti, le nevi, avevano strappato a quei monconi la scorza, li avevano vuotati del midollo, ed essi apparivano ora nudi, grigi, più simili all'osso che al legno, senza una foglia verde, senza ombra di vita,., una «sinistra ceppaia,.. Non si può dire fino a che punto l'autrice ne sia stata cosciente, ma certo quei tronchi paragonati a «:monconidi membra umane,. sono il degno sfondo per un taglio di testa con la scure, sembrano annunciarlo al lettore. E qui meritano rilievo, a parer nostro, alcune contrapposizioni fondamentali che reggono tutta la struttura del racconto e ne illuminano una certa lontana parentela con l'epica tragica. Esse dopo la morte della madre sarà stupita che tutto sia identico a prima, quasi automatico, legato solo ai ritmi di un vivere primordiale: dormire, accendere il fuoco, cucinare, pascolare le pecore. Dalla fis.sitàdi spazioe tempo nasce l'altra opp:>5izionepertinente ai due poli montagna e pianura: immobilità/ trasformazione. -Nulla è cambiato in quel posto, da anni; nulla cambierà per anni ed anni ancc>ra». lnvece: --Nellecittà, nei villaggi,nei luoghiabitati, la vita varia e corre; l'aspetto delle cose può trasformarsida un mese all'altro; l'uomo fabbrica case, getta ponti, apre strade; edificae distrugge; la gente parte e ne arriva di nuova; le impressioni si sovrappongono alle impressioni•. Dunque mobilità di cose, persone, stati d'anima, di fronte alla fissità,staticità, immobilitàdella vita montana. Entro queste coordinate spaziali e temporali la primordia\ità è del corpo come dell'anima; cosi è solo la morte per scure, gesto necessario, a impedire a Barbe Zef di realizzare un primordiale incesto, cioè l'amore sessuale con Rosùte, che una maga, sorta di sibilla, interrogata risponde esserè figlia e non nipote di Barbe Zef. La tragedia è per l'appunto provocata dal balenìo di un futuro incesto, situazione che ha la sua abituale sede ed esistenza nell'ambito della tragedia antica. Penetrante il rilievo di Gaudio Magris nella sua acuta recensione (sul Corriere della Sera, 30 maggio 1982), là dove egli parla di un'epica della fisicità, riferibile non solo all'incontro-scontro dei corpi umani, ma a quella che è la corposità della ,es, della cosa: il fango, la neve, lo scroscio dell'acqua di un torrente. Per il lettore d'oggi può essere interessante l'inserimento del romanzo non solo nel clima letterario degli anni trenta - cosa già tentata dai critici di allora sopra citati, a cui si rimanda per non essere ripetitivi, - ma l'inserimento nella realtà sociopolitica di allora: il romanzo esce poco dopo la conquista dell'Etiopia e la proclamazione di un'Italia imperiale. Da questa prospettiva l'opposizione montagna I pianura si potenzia con l'altra: condizione primordiale di vita I mito della grandezza imperiale. Siamo in un universo di miseria che ha la allucinante forza di un assioma; non guerra di conquista, ma una guerra dei poveri, di cui è simbolo la scure insanguinata nelle mani di una fanciulla povera e infelice, destinata a perdere per sempre quello che non ha mai avuto. Il Potere è lontano, lontano: nessun segno di presenza del fascismo, nemmeno iconico. Quando Mariùte, come già notò Elio Bartolini (Il Gazzettino, 15 luglio 1982), entra nell'osteria di Forni, dove si trova a bere Barbe Zef, non solo vede i ritratti appesi del re e della regina, non quello di Mussolini che non c'è alla parete, ma li vede come emblemi di una bella favola: «La regina aveva un diadema di brillanti in testa, e sei file di perle dai chicchi grossi come nocciole. ( ... ) Il re invece le piaceva un po· meno: era vestito come un uomo qualunque, appena con nastro a tracolla che non voleva dir nulla,.. Nessun segno di presenza storica, dunque. Siamo anche da questo punto di vista fuori del tempo storico. Niente giornali fra questa gente, niente notizie, niente scuola; Mariùte non sa leggere perché le scuole sono lontane, giù nel fondovalle. L'Italia montanara non sa cosa fa il fascismo, lo ignora. Q ualche riflessione finale sul romanzo dal punto di vista delle sue realizzazioni formali, della sua scrittura. Quando la Drigo lo compone, gli americani non offrono ancora i grandi modelli alla narrativa italiana; i critici dell'epoca citarono il Verga per l'ancestrale senso di rassegnazione degli infelici, Grazia Deledda per le connotazioni arcaiche del reale, la Percolo in quanto essa pure era friulana. Non è questa la sede per una specifica indagine sulle fonti dirette e indirette, sui vari fenomeni di intertestualità, bensl per un cenno sulla scrittura del romanzo. È difatti lecito affermare che proprio lo stile squisitamente sobrio impedisce alla tematica del libro di sfociare in un drarnmone; nei momenti più drammatici della narrazione, lo stile ha una nettezza vitrea. Più complesso il problema sottilmente semiotico del rapporto fra il narratore, la Drigo, e i personaggi. Come si sa, la cosa più difficile allorché vi è una grande distanza culturale fra il narratore e i suoi personaggi è scegliere il punto di vista da cui la storia deve essere narrata, indi restarvi fedele. Nel film sceneggiatore e regista banno optato·per il punto di vista dei personaggi, e perciò hanno scelto la parlata furlana. Ma nel libro qual è il punto di vista narrativo privilegiato? In altri termini, chi parla? A chi appartiene la sensibilità con cui sono viste e descritte le cose? Risponderei che un certo ibridismo linguistico, destinato a lasciare il lettore un po' perplesso, testimonia l'alternarsi di due punti di vista, del narratore e del personaggio. A volte la Drigo guarda l'universo da lei creato come il buon Dio o come il narratore classico, con brevissimi cenni metanarrativi; più spesso invece si mette all'interno, privilegiando il punto di vista della protagonista Mariùte, di colei che non a caso fornisce i.I titolo al libro. L'ibridismo a cui si accennava affiora soprattutto al livello della scelta lessicalee della fraseologiacome dire che la Drigo solo parzialmente assorbe la lezione vcrghiana di una forma interna della parlata locale sottesa alla lingua italiana del libro. La possibile campionatura degli usi linguistici della Drigo nel romanzo offre una raggera di esiti, in quanto si va da qualche caso di dialogato in puro dialetto, mimesi quindi vera di cui sono portatrici le contadine della pianura con la forza fresca e profonda della loro parlata, a un italiano medio proprio del narratore con minuscoli calchi (l'ospedale è detto ospitale), a punte letterarie che non si ambientano bene: terreo pallore; imprescindibile; ella indugiava in cucina ad agucchiare; sì era destata, ecc. Un insieme atto a produrre qua e là delle dissonanze che si fanno vere stonature quando il tono alto passa a Mariùte. Può, per esempio, Mariùte pensare fra sé: «Se gli domando troppo, si adirerà•? Pertinente invece il lessicofurlano a indicare precisi oggetti: scarputis, fantate, usgnot, fio/o a olio, ccc., o l'inserimento di canzoni e villotte furlane, qualcuna oltre tutto molto bella. Per concludere, il romanzo Maria Zef di Paola Drigo è tanto saturato e animato di vita che non vi è pagina dove essa non sia cercata con immediatezza e sofferta da un personaggio. La vita qui è una materia indocile, oscura, ingannevole, il cui senso va ben al di là della letteratura, dei ludi verbali che quest'ultima comporta: si può, per una irresistibile associazione di idee, pensare a quel residuo di umanità ai margini che oggi è chiamato il quarto mondo. Siamo quindi grati a Paola Drigo di averci messi di fronte, senza alcuna enfasi pragmatista, a una realtà che è in sé fatalmente dram- ac malica, sconcertante, vertiginosa .5 come un brutto sogno e che pro- i prio per questo lascia dentro l'ani- - mo del lettore quel segno, quella ~- traccia un po' enigmatica a cui Aristotele con parola gros.sadava ~ il nome di catarsi, di momento in- l trospettivo e purificatorio. Forse la Drigo sarebbe stata lieta di sa- :;:: pere che il suo libro può condurre i:: il lettore a una inconsueta ricapito- j !azione del senso stesso della vita ~ umana su questa terra. ci
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