Alfabeta - anno V - n. 53 - ottobre 1983

11 problema del rapporto cinema-tdevisione può essere risolto con una battuta o con un lungo discorso. La battuta ~= cinema e televisione, in quanto entrambi produttori di immagini, non possono. per ovviaoonvcnicnz.a, che marciare insieme. 11lu.ngo discorso inizia nel momento in cui ci disponiamo a tracciare la strada possibile del loro cammino comune. Ooc:orre intanto premettere qualche riflessione di carattere generale e separata su ciascuna delle due strutture, cominciando col dire che cinema e tv hanno proceduto finora in sostanziale autonomia, nonostante molti scambi e qualche mano tesa da parte della televisione verso il cinema. Tra cinema e tv vi ~ stata finora una reciproca insofferenza. Il cinema ba visto (continua a vedere?) nella televisione la cassa da saccheggiare. La televisione vede nel cinema le spoglie di cui appropriarsi. Ora l'insofferenza sta rientrando e vincendo la oonsapcvolczza che l'uno, lo voglia o no, non può fare a meno dell'altro. Il cinema in Italia ba avuto un momento di grande floridezza a). l'indomani della seconda guerra mondiaJc e forse per tutti gli anni cinquanta, e ci~ quando andare aJ cinema era per gli italiani l'unico modo (o quasi) di impiegare il tempo libero. Un momento di floridezza di cui tuttavia il cinema non ha saputo approfittare: avrelr be potuto, se ne avesse avuto la capacità, utilizzare quel momento cli fortuna per darsi le strutture adatte a reggere, senza mortali sc.onfitte, il momento di caduta della domanda (che puntualmente sopraggiunse a cominciare dagli anni sessanta). Ma non ne ha avuto la capacità. Il fatto i che nel cinema hanno sempre prevalso l'investimento avventuroso, la prospettiva del profitto facile, il dilettantismo finanziario, la ricerca della garanzia pubblica a difesa del capitaJc investito, che finirono per favorire iniziative non sempre sensate e scelte quaJcbe volta irresponsabili. Sicchi era inevitabile che iniziassero le difficoltà quando, con l'affermarsi della televisione e di aJtri consumi per il tcmJX)libero (teatro, baJlo, ecc.), gli italiani presero ad andare sempre un po' meno aJ cinema. Fmo aJ 1976,e ci~ quando l'attuaJe crisi si era già manifestata, l'Italia era il Paese a più aJta frequenza cinematografica. Le statistiche dicono che per un cittadino italiano risultavano venduti più di 8 biglietti aJl'anno - il che vuol dire che l'italiano medio andava al cinema una volta ogni mese e mezzo, contro una volta ogni tTemesi degli americani e dei francesi, e una volta ogni due mesi e mezzo degli inglesi e dei tedeschi. A partire dal 1976, la crisi prese velocità presentandosi nelle due ~ forme, per altro collegate, di crisi di distribuzione e crisi di produzione. E oggi ha raggiunto, nonostante l'apparenza, il punto di massima precipitazione. . -5 [ ~ ~ L a crisi della distribuzione r~- "g gistra· un conto altamente e drammatico in quanto: 1. il ~ numero di sale ancora aperte i sul: periore a.Iladomanda che devono j soddisfare, 2. l'aumento del prcz- ~ ro del biglietto nel corso dcg]i anni 1i ha coperto certamente le perdite Cinema &lv dovute all'inflazione ma non quelle dovute al costo di un esercizio cresciuto ben oltre l'indice di inflazione. La crisi della produzione, inevitabilmente trascinata dalla caduta del consumo, iniziò fin dalla metà degli anni sessanta e aa:clerò la sua corsa con il passare degli anni. Quel tanto di ripresa che sembra quest'anno esserci stata è più apparente che reale: è dovuta al fatto che un certo numero di progetti sono arrivati più o meno casualmente a maturazione nello stesso momento, e a una più massiccia presenza della televisione. Per superare la crisi, in altri tempi si pensò di ricorrere all'intervento pubblico. E nacque l'Italnolegg.io,che qualche prezioso titolo pure lo realizzò, ma mancò al suo obiettivo di fondo, cioè dare al cinema italiano quella base minima di stabilità che gli permettesse di reggere senza gravi danni alle fluttuazioni (grandi e piccole) del mercato. Cosl l'ltalnoleggio finì di essere ben presto una presenza at• tiva, e negli ultimi mesi dello scorso anno la società è stata addirittura messa in liquidazione. Sperare per altro che il cinema potesse (possa) essere salvato dall'assistenza pubblica è una pretesa ingenua se solo si pensa che ben altri sono g]i impegni assistenziali cui il nostro Stato si dedica: dalle pensioni finte, al salvataggio (clientelare) di industrie decotte, al finanziamento occulto di partiti in quanto strutture di potere, cc.e. ecc. Per il cinema non poteva ave• re che pochissimi soldi, e con pochi soldi si fa molto poco, soprat• tutto se - perfino nella gestione di questi pochi soldi - prevalgono interessi clientelari e di parte. Cosl la crisi non trovò lo sbocco atteso e sopravvisseal tentativo di soluzione rappresentato dall'intervento pubblico. Ma qui oc.corre sbarrare il passo a un possibile equivoco. La crisi produttiva del cinema italiano i solo una crisi finanziaria? Sta tutto nelle difficoltà in cui si dibatte la distribuzione e nella penuria di denaro fresco che affligge la produzione? Oppure difficoltà di distribuzione e penuria di denaro fresco, oltre che essere la causa, sono la conseguenza di una crisi più ampia che comprende anche l'affievolimento della creatività e l'obsolescenza o l'inadeguatezza dei quadri professionali? È indubbio che il cinema italiano i stato un grande cinema: basta ricordare il neorealismo, il cinema cosiddetto impegnato, il cinema di idee e infine, per ultimo, la commedia all'italiana, genere nel quale si sono esercitati con risultati di grande efficacia, qualità e finezza, registi come De Sica, Comencini, Germi, Scola, ecc. Ma fu proprio con la commedia all'italiana che il nostro cinema si chiuse definitivamente nell'autosufficienza del mercato nazionale, trascurando ogni ricerca di una dimensione più ampia. E così, nel momento in cui celebrava un indubbio successo attraverso l'invenzione di un genere capace di avere una risonanza immediata nel senso comune del Paese, la scelta tutta interna effettuata si risolveva in un fattore di chiusura e di progressiva estenuazione di energie. Ma di questo, della debolezza del sistema, con riferimento agli aspetti più specificamente creativo-professionali, parleremo più a lungo in seguito. Angelo Guglit!lmi P assando a osservare il fenomeno televisione (di cui la televisione pubblica ha fino a ieri occupato per intero il campo e oggi è la maggiore componente), non troviamo una situazione più consolante. La televisione al suo esordio (negli anni cinquanta) si presenta, soprattutto riguardo alla sua linea editoriale, in vesti grame e risibili. Tra il 1955 e il 1958, la programmazione televisiva culturale si riduceva all'offerta di alcune serie sugli animali (per giunta domestici, del tipo lo e il cane), o sulle presunte bellezze del nostro Paese, o sul rapporto degli scrittori con gli oggetti della civiltà (del tipo lo e l'automobile). La programmazione informativa consisteva in un notiziario che fungeva sic et simpliciter da portavoce del partito al governo, cioè la Oc, servendo di vetrina e di palcosceP-icoper l'esibizione dei suoi quadri dirigenti. Negli anni sessanta, con l'arrivo di Bernabei - manager moderno e determinato, se pure al servizio del partito che l'aveva scelto piuttosto che dell'azienda che gli era stata affidata, - intervenne una profonda rivoluzione nella pro• grammaz.ione televisiva, con una forte valorizzazione dei programmi culturali e informativi non più e solo finalizzati a glorificare i quadri politici del partito di maggioranza ma anche a diffondere la cultura e i valori che quel partito interpretava e al cui radicamento legava la prospettiva della propria egemonia nella società. Furono anche gli anni della mas• sima diffusione del consumo televisivo che, con la nascita di una seconda rete, si attestò oltre i IO milioni di abbonati. E furono anche gli anni di strenua difesa del monopolio, la cui sopravvivenza era giustificata con la necessità di assicurare un servizio in cui tutle le voci fossero presemi (quando sappiamo che presente - eccome! - era solo la voce della Democrazia cristiana). Ovviamente, questa situazione non poteva conservarsi a lungo giac.ché, con il centrosinistra, anche altre forze sociali e culturali pervennero alla gestione del potere e fecero valere i loro diritti di partecipazione e di presenza. Il fenomeno per tutti gli anni sessanta si sviluppò con lentezza e solo alla fine del decennio accelerò il passo per compiersi, definitivamente, nel 1975, l'anno della riforma. La riforma decretò la fine della monocrazia democristiana e creò le condizioni perché altre forze - che fino ad allora ne erano rimaste pressoché escluse- si affacciassero all'uso del mezzo televisivo - e, per prime, le forze culturali della sinistra. Presto tuttavia, e per una serie di ragioni legate all'evolversi della vita politica del Paese che intanto aveva assistito all'esaurimento della formula della solidarietà nazionale, l'ingresso di nuove forze sociali e culturali all'uso del video si trasformò nell'occupazione di una grossa fetta di esso da parte del Psi, il secondo partito di maggioranza, che non trovò di meglio che dare al proprio dovere di governare i comportamenti che aveva fin n rimproverato, con giusta severità, alla Dc. Una interpretazione della riforma che spostava l'obiettivo dall'allargamento della base di partecipazione alla moltiplicazione del numero degli occupanti, non poteva che portare a un preoccupante spezzettamento dell'azienda in tanti piccoli feudi, quasi sempre gestiti dall'esterno e quasi sempre all'inseguimento di obiettivi non sempre confessabili. A questo punto (e siamo negli anni '79-80) la crisi della televisione pubblica, i cui germi si nascondevano negli esordi stessi del servizio regolare (a causa degli interessi in fondo privati e di parte che ne avevano ispirato fin da allora la gestione) e che era stata per tanti anni ritardata, scoppiò fragorosamente. L'edificio prese a vacillare, e tanto più tremò in quanto lo stravolgimento e la cattiva applicazione della legge di riforma spalancarono inevitabili spazi all'esplosione dell'emittenza privata, cioè alla nascita di agguerriti networks che contendevano alla televisione pubblica soldi, audienu e programmi. Q uesta è la situazione- e non è certamente incoraggiante - delle due grandi strutture, tra cui è auspicabile e necessaria, anzi indilazionabile, la collaborazione. Sono, infatti, due grandi produttori e distributori di immagini, sono depositari delle uniche capacità professionali e produttive ancora esistenti, sono oggetto di una domanda sempre crescente alla quale è più difficilesottrarsi che cercare una risposta. La risposta è nella collaborazione da intendersi come una vera e propria integrazione. Condizione e premessa della integrazione, tuttavia, è il risanamento delle parti che devono integrarsi: risanamento vòlto non solo a restituire efficienza ai due sistemi ma anche, con il taglio dei rami sec.chi, a raccogliere i finanziamenti occorrenti a riattivare la macchina della produzione. A proposito della quale è bene dire subito che il problema che oggi abbiamo di fronte non è riuscire a produrre singole opere di autore, puntando la totalità dei nostri sforzi al raggiungimento di risultati di qualità. Occorre a qoesto punto confrontarsi con il problema della quantità, e cioè sciogliere il nodo della produzione in serie. Lo scioglimento di questo nodo, infatti, è la condizione indispensabile per potere avere un posto, se pur piccolo, nel mercato degli audiovisivi - che, avendo ormai acquisito dimensioni internazionali, nega ogni possibilità di sopravvivenza a chi con quel problema non ha il coraggio di confrontarsi. Complesso, dunque, è il compito che il cinema e la televisione devono affrontare nel prossimo futuro. Ma come affrontarlo? E siamo giunti al vero nocciolo della questione, e cioè: come e che cosa produrre. Dico subito che né io né altri possediamo l'asso nella manica, e nessuno è in grado di fornire risposte altro che problematiche, che più che indicare soluzioni indicano possibili attese di soluzioni. Comunque comincerò col rispondere alla prima domanda: come produrre. e ome produrre significa: con quali soldi e con quali strut· ture. Con quali soldi. - Per i motivi già detti è inopportuno e prima ancora improprio far conto su previdenze di origine statale. I possibili finanziamenti bisogna ricavarli da una riforma della spesa di cui il settore ha fin qui complessivamente beneficiato. Negli ultimi dicci anni questa spesa (costituita da incasso cinema, canone radio e tv, pubblicità tv e cinema), anziché - come comunemente si crede - essere aumentata, è diminuita a causa del crollo della componente cinema. Facendo pari a 100il complesso degli investimenti registrato nel 1974,nel 1978questo valore è sceso a 66, e nel 1981è risalito a 78. Poiché per altro sono fortemente aumentate in proporzione le spese della distribuzione rispetto a quanto avveniva nel 1974, tanto più (sempre in proporzione) è diminuita la quota dì investimento destinata alla effettiva produzione. Cosl la prima misura di risanamento cui dar mano deve essere il ridimensionamento della distribuzione cinematografica, che ha bisogno di vedere riequilibrato il rapporto tra domanda e offerta con la chiusura delle sale eccedenti, e forse pervenire a una revisione del prezzo dei biglietti, che potrebbero essere caricati di una specifica tassa da devolvere - insieme ai guadagni conseguenti al processo più generale di riorganizzazione - alle esigenze del rilancio della produzione. Riforma altrettanto energica è necessaria per le strutture della Rai-tv in vista di un loro ricompattamento, e quindi della chiusura di tutti quei buchi e fessure da cui fuoriesce denaro improduttivo. Il ricompattamento dovrà riguarda• re: l'area dei lelcgiornali che, mentre difettano nel numero dei giornalisti, sono sovradimensiona• ti nel settore dei mezzi e delle apparec.chiaturc tecniche a disposizione; l'area dei programmi propriamente detti, che denunciano una utilizzazionenon razionale dei mezzi tecnici nonché una insufficienza di linee editoriali, soprattutto in riferimento alla Terza rete; e l'arca dei supporti che rivendicano, in contraddizione con la loro stessa funzione, una costosa autonomia che comporta una duplicazione inutile (e dispersiva) di ruoli, di responsabili, di competenze. Infine occorre procedere, con legge o altro strumento utile, a normalizzare l'emittenza privata allo scopo di superare l'attuale disordine e incertezza di iniziative e obiettivi che ne caratterizza l'attività e che inevitabilmente si trasforma in una dispersione dì risorse preziose. Attraverso questo triplice inlervento- sulla distribuzione cinematografica, sulla organizzazione della Rai-tv, sul riordino dell'emitlenza privata-è possibile raccogliere i finanziamenti occorrenti per avviare una intensa attività di produzione. Con quali struuure. - Non vi è dubbio che il rilancio dell'attività produttiva cinematografica non può che trovare il suo punto di forza nella televisione pubblica alla quale ovviamente compete questa responsabilità, e perché la maggior parte dei finanziamenti occorrenti per il rilancio non può che essere reperita al suo interno e perché è il maggior distributore di «immagini,. e per le sue dimensioni d'azienda. Certo \'assunzione e la gestione di questo ruolo comporta per la televisione pubblica non solo la necessità - come si è sopra detto - di un recupero di efficienza attraverso la riorganizza-

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