Unapseuii-querélle E, sempre proficuo fare attenzione, e non solo nell'ambito della critica letteraria, a distinguere le querelles dalle pseudo-querelles. Le prime nascono quando entro la cultura di un dato momento storico si produce un campo di tensioni, cioè uno scontro tra forze centripete che aspirano a persistere intatte e forze centrifughe fornite di un impeto di rottura e di trasformazione. Già negli anni venti Sklovskij aveva con la consueta arguzia affermato che, se in ogni epoca coesistono diversi punti di vista e indirizzi, nell'arte come nella critica, vi è tuttavia sempre nella fase della esistenza simultanea una scuola o un indirizzo che si impone, assumendo un ruolo dominante sino a raggiungere una sorta di canonizzazione. Nel frattempo gli indirizzi minori, che sussistono in funzione di cadetti, avviano un rapporto dialettico, quando non di scontro, con l'indirizzo dominante e, dal momento in cui quest'ultimo viene a trovarsi canonizzato, essi cominciano a produrre squilibri, granelli di anarchia che mantengono, a suo dispetto, la società in stato di grazia finché una delle linee cadette prenderà a sua volta il posto di quella dominante. In altre parole, non esistono nell'universo letterario prolungati diritti di maggiorascato. In questa prospettiva molte polemiche del passato hanno esercitato un importante ruolo di rinnovamento. sa» (la Repubblica, 14 maggio), ecc. Un vero trionfo del buon gusto! LJ oggetto del contendere, schematizzato, è oggi questo: la critica letteraria tenderebbe a divenire, e in parte sarebbe già divenuta, una scienza della letteratura, qualcosa di asettico, tecnico, fornito di stabili apparati scientifici, atto a essere parimenti applicato a Mallarmé o all'ultimo poetucolo, in quanto il testo sarebbe per lo studioso soltanto un pretesto. Di conseguenza, questa linea critica chiuderebbe la via, secondo gli uni, all'unica cosa che in fondo conta veramente, il «piacere del testo»; secondo gli altri, la chiuderebbe al giudizio di valore e al senso stesso della comunicazione sociale fra testo e lettori. Va riconosciuto che il mettere insieme un numero così notevole di imprecisioni e incomprensioni nei riguardi dell'ultimo quindicennio della critica italiana, magari try: Semiotica della poesia, 1983) o alcuni altri stranieri e italiani, ben noti a chi lavora in questo campo (e per un primo colpo d'occhio basterebbe al non esperto leggere le interviste di La semiotica letteraria italiana, a cura di Marin Mincu, Milano, Feltrinelli, 1982). E allora? Come spiegare la genesi di questi errori di decodifica? Forse vi contribuiscono fondamentalmente due fattori concomitanti. Da un lato un epigonismo attivissimo dovuto all'approdare al testo letterario da parte di studiosi provenienti da altre discipline, esse sì scientifiche e cui si deve l'apparato, che scandalizza i nostri letterati, a base magari di formule, simboli, quadratini, triangolini. Chi guarda la letteratura da una prospettiva culturale diversa può funzionalizzare il testo letterario ad altro tipo di ricerche. E in democrazia culturale ciascuno fa ciò che gli pare. Se mai, tocca al critico e al sociologo della letteratura serio l'atto del distinguere. aprile vi è stato un convegno di critica semiotica a Milano, organizzato dal direttivo di Co"ente e in particolare modo da Fulvio Papi, convegno assai frequentato da giovani, dove la ricca e a momenti appassionata discussione finale tra filosofi, sociologi e critici verteva proprio sul significato da dare ai metodi in una disciplina, quale la critica, imparentata più con la creazione artistica che con la scienza; ma tra i presenti non si sono visti coloro a cui questo discorso avrebbe giovato, siano essi critici edonisti o pragmatisti. Presso i primi domina l'idea del «piacere del testo». Cosa meravigliosa a cui tutti ci dedichiamo nel delizioso téte-à-téte fra testo e lettore; ma la critica ovviamente vuole essere operazione non individuale, bensì riscaldata al sole della socialità culturale. Come direbbe Alberto Cirese, si può fare l'amore e si può fare una teoria sull'amore, ma non si possono fare le due cose contemporaneamente. ; Diverso il caso delle pseudoquerelles che si presentano con alcune caratteristiche proprie: la polemica può essere repetitio di uno scontro già avvenuto anni prima e presentarsi quindi un po' gozzanianamente vestita di tempo. Oppure può offrire il rifiuto di ciò che c'è, ma senza accompagnarlo con un chiaro modello alternativo. A volte dietro le pseudo-polemiche si riscontra da un lato un fastidio umorale o ideologico, dall'altro una non precisa conoscenza dell'oggetto del contendere. L•z;;:~~~ Ecco, si ha un po' la sensazione che il gran parlare in questi ultimi mesi, a livello principalmente giorda sinistra: fohn Greaves e Peter Blegvad, Polyphoni.x 5 Italia, 1983 nalistico e da parte di intellettuali sufl'auctoritas del signor Roger fra loro assai diversi, contro le co- Shattuck, risulta operazione in siddette metodologie critiche rien- certo senso assai curiosa e quasi tri, in parte almeno, nello statuto conturbante per la scarsa conodi una pseudo-querelle, laddove scenza dei lavori critici del periodo ben altro peso di proposte alterna- che risulta a essa sottesa, ecceziotive distingueva l'opposizione a Ja- ne fatta - chissà perché- per i testi kobson, allo strutturalismo e alla usciti nell'ambito del Saggiatore. nascente semiotica negli anni ses- Stando così le cose, si può o voltasanta da parte di una allora ag- re pagina e uscire a prendere una guerrita critica sociologica e ideo- boccata d'aria, o limitarsi a postillogica (si era alcuni anni a monte lare alcuni degli enunciati più eiadel fatidico '68). morosamente eccessivi. E poiché L'aspetto ripetitivo già è stato il cardinale di Retz diceva che «in rilevato da un intelligente articolo fatto di calunnie tutto quello che di Romano Luperini (in Il Quoti- non nuoce serve a chi è attaccato», diano di Lecce, 1°maggio 1983); il mettiamo subito sul tavolo le due critico vi osserva giustamente che affermazioni più estreme, da un entrambi i fronti di allora si sono lato quella della critica come spostati indietro, gli oppositori scienza della letteratura, dall'altro hanno reciprocamente assimilato quella speculare del puro «piacere vari punti di vista dell'altro, sicché del testo». «il problema è quello di fondare Che non esista e non possa esiuna nuova teoria della letteratura, stere scienza della letteratura - per magari avvalendosi anche delle la natura stessa dell'oggetto artistiscoperte della semiocritica, piutto- co, ambiguo, polisemico, sfuggensto che quello di attardarsi in pole- te a ogni definitiva sistemazione miche ormai superate». critica, oltre che per la natura del· Un segnale odierno del soprad- soggetto inquirente o uomo storidetto, più o meno razionale, «fa- co, coi suoi condizionamenti perstidio» è dato dalla monotona roz- sonali e sociali, - è nozione che da zezza di alcuni titoli: «Semiologo, un ventennio illustrano col loro lati dichiariamo guerra» (l'Unità, 21 voro i critici semiotici seri, si chiafebbraio), «Attenti, c'è una nuova mino Starobinski o Lotman, ChatInquisizione» (l'Unità, 23 marzo), man o Segre, Riffaterre (di cui il «Semiologo, discòlpati» (Tutto/i- Mulino ha appena tradotto il bel Bib'1 oriti cag I nob i ainoco 1978, Semiotics of PoeMa qui interviene purtroppo l'altro fattore a cui si è fatto sopra riferimento: per distinguere bisogna con pazienza leggere, non comportarsi come il lettore descritto da Malerba che i libri si limita a fiutarli, aprirli a caso, leggerli attraverso le altrui recensioni. In questo modo ecco nascere i luoghi comuni, che quando diventano tali, cioè comuni, si riferiscono a cose già vecchie: ecco il logocentrismo o la «scientificità » contro cui come un don Chisciotte si affanna, per esempio, Alberto Arbasino sulla Repubblica del 14 maggio. N on si renderebbe certo giustizia a Chomsky attribuendogli la responsabilità di quelle inverosimili grammatiche scolastiche a base di alberi, alberelli, formule e simboli che per anni hanno traumatizzato insegnanti e studenti delle scuole medie; né si renderebbe giustizia a Croce attribuendogli i pensamenti di alcuni tardissimi epigoni del crocianesimo. Come dire che, per obiettare - operazione di per sé gradevolissima, - bisogna ben conoscere l'identità dell'altro, non confondere quindi il famoso armaiolo che temprava spade a Toledo con un mercante di ferramenta. Nei giorni 9 e IO dello scorso Questo l'acutissimo Roland Barthes lo sapeva molto bene. I critici semiotici, o almeno così chiamati nella polemica, si presentano in Italia come negli Stati uniti o a Tolcio o nell'Urss con la qualifica di assai attrezzati. In effetti hanno lavorato a lungo in prospettiva anche interdisciplinare per attrezzarsi appunto; e questo comincia a mettere in sospetto un settore dei succitati detrattori, quello a cui dà fastidio la preesistenza di metodi di approccio nei riguardi del singolo testo. La ragione di tale attrezzatura - chiamiamola rozzamente così, - cioè di una preparazione di tipo storico, sociologico, semiotico oltre che filologico-linguistico, sta nel fatto che, come già ha messo in luce nel dibattito Angelo Guglielmi («Chiamo Gadda come testimone», in l'Unità, IO marzo - si osservi tra parentesi come continui nei titoli la metafora processuale), i metodi possono essere tutti buoni, ma solo se usati a proposito: ogni testo richiede il suo tipo di approccio. Il che già svuota l'obiezione di griglia precostituita. Anzi qui ci si accosta al vero nodo della questione: ogni critico che si rispetti, quindi anche il semiologo, partito dal piacere del testo con relative intuizioni, tenta di accrescerlo e poi di comunicarne il senso mettendo in opera delle strategie di approccio, il cui fine è appunto di capire qualcosa di più dell'oggetto misterioso e passibile in ogni epoca, come si sa, di decodifiche assai diverse. Del resto, già Omar Calabrese ( «Non nascondetevi dietro Paperino», in l'Unità, 26 febbraio) si è domandato con un bel gioco di parole quale valore avrebbero i «giudizi di valore» se impressionistici e non guidati da un qualche criterio di approccio. Un aspetto della critica semiotica sottaciuto dalla polemica giornalistica, con eccezione per l'intervento di Cesare Segre ( «Quei nostalgici del fanciullino», in Tuttolibri, 2 aprile), e caratteristicoproprio di questi ultimi cinque o sei anni, è il tentativo di attuare un diverso modo di fare storia della cultura, di inserire cioè i testi letterari nella contestualità di un'epoca specifica coi suoi meccanismi culturali, le sue molle dirette e indirette, i suoi ricambi. Questo recente privilegiare il punto di vista del sociale e dello storico, ma senza perdere l'identità propria del testo (a cui sono abbastanza indifferenti i pragmatisti, preoccupati solo dei destinatari) fa evitare il pericolo sia del ritorno alla vecchia sociologia sia delle ri~ cadute nello storicismo. In pari tempo si carica di maggior pregnanza storica il duplice processo dal testo ai lettori e dai lettori al testo. Né è casuale che questa sia la !ematica del prossimo convegno annuale (in ottobre) della Associazione italiana di studi semiotici (Aiss). Non è un caso nemmeno che le ricerche italiane di questi ultimi anni sui modelli culturali e su «come parla» una cultura siano oggi sentite all'estero come cosa nuova e subito tradotte. È anche questo un segnale. Forse un modo di liberarsi dal punto di vista limitativo dovuto alla «provincia Italia» potrebbe essere quello di guardare di più, sia pure con discrezione, ai «luoghi» del mappamondo dove idee e punti di vista critici vengono messi a confronto con più ampiezza di prospettiva; e non irritarci o consolarci sempre con le cose caserecce - come le chiamava Gadda, - con i periodici ritorni ai modelli del passato. Oggi si fiutano nell'aria da molte parti del sociale e del politico la restaurazione e il riflusso; possibilmente non aggiungiamoci il restaurativo critico. Trovo molto' giusto quanto ha scritto A. Guglielmi (art. cit.): «In realtà (e in· fondo) la funzione del critico non è dissimile da quella dello scrittore; l'uno e l'altro lavorano, se pur con strumenti diversi, a tenere in attività il processo della elaborazione culturale (di elaborazione di una cultura), al quale è legato il continuo miglioramento e aggiornamento delle possibilità e della capacità di conoscenza e di consapevolezza di una società e di un popolo». Non resta che augurarsi quindi da ogni parte un serio confronto fra i diversi criteri di misura scelti e gli esiti concreti raggiunti con la ricerca applicata, piuttosto che rosari di discorsi generali e spesso generici. A meno che, ci si scusi la brutalità dell'ipotesi, sia la critica tout-court a essere messa sotto accusa dagli edonisti o dai pragmatisti e il suo disarmo generale a essere auspicato, magari in forma ancora inconscia e segreta.
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==