Alfabeta - anno V - n. 50/51 - lug.-ago. 1983

Se si anticipa Hobbes (come - bontà sua - mi fa dire A. Zanini, «Machiavellerie», in Alfabeta n. 44, gennaio 1983) si sta con gli assolutisti, se Spinoza con i repubblicani. Molto bene. Ma ci restituisce tutta la complessa articolazione di quel mondo l'immagine di un Rinascimento pre-critico che si spacca in due linee «antagonistiche», assolutamente «alternative», «l'una, benedetta, che va da Hobbes a Rousseau a Kant a Hegel; l'altra, maledetta, che va da Machiavelli a Spinoza a Marx» (A. Negri, L'anomalia selvaggia, Milano, Feltrinelli, 1981, p. 279)? Sarà ancora 'metafisicamente' necessario che la distanza dal modello hobbesiano significhi contiguità con quello savonaroliano e pre-moderno degli ultimi apologeti della libertas fiorentina? E in ultimo: non intravvede Machiavelli proprio in quella «libertà» i presupposti del suo inevitabile rovesciamento 'assoluto'? E cioè l'impossibilità di una laicizzazione integrale dell'agire politico, il suo resistente residuo 'teologico'? I n realtà è proprio l'elemento di massima divaricazione dal quadro concettuale hobbesiano quello che separa radicalmente - perché categorialmente - Machiavelli dalla tradizione dell'Umanesimo fiorentino: e lo isola in un'inconfondibile specificità nell'ambito della filosofia politica moderna. Esso è espresso dall'idea di compatibilità di governo e conflitto o, più in generale, di elementi reciprocamente contrapposti (virtù/fortuna, decisione/norma, progetto/esistenza). Meglio ancora: della loro produttività.alla forza e all'espansione dell'insieme che li contiene. , Il sistema è compattato dalla tensione interna dei suoi elementi contraddittori. La conflittualità non solo non va ricomposta, come pretendevano i nostalgici repubblicani, ma nemmeno neutralizzata, come vorrà successivamente Hobbes. Per quest'ultimo - dentro un progetto di integrale statualizzazione del politico e dunque di relativa spoliticizzazione della società - governo, o addirittura 'politica', è possibile solo in assenza di conflitto. È questo il punto su cui, nonostante l'assoluta novità del proprio lessico concettuale, Hobbes resta ancora bloccato al paradigma aristotelico di concordia come forma necessaria delI' ordo politico. Su di esso si esercita la potenza davvero 'rivoluzionaria' della critica machiavelliana: dal Rapporto di cose della Magna al Ritrae/Odi cose di Francia fino a quei primi sei capitoli dei Discorsi che cambiano i connotati dell'intera filosofia politica precedente. Non solo conflitto non è inversamente proporzionale a politica, ma la possibilità di governare il conflitto è relativa alla misura della sua politicizzazione. Roma - a differenza di Sparta e Venezia - costituisce la massima espressione storica di questo modello teorico. Fino a che la lotta sociale è stata contenuta entro limiti e strumenti politico-istituzionali, la storia di Roma ha mantenuto una direzione ascendente. Quando invece - come nel caso delle leggi agrarie (Discorsi I, 37) per Roma, o dello scontro di 'fazioni' a Firenze (/storie Fiorentine VII, 1) - il conflitto si depoliticizza in direzione di un'eccessiva economicizzazione o di un'eccessiva privatizzazione, allora il ciclo s'inverte e inizia la decadenza dell'intero organismo. È il punto di massima chiarezza del disegno di Machiavelli: se politicamente controllato, il conflitto sociale è produttivo; se politicamente incontrollato, è distruttivo. Ma è in grado la nettezza di questo teorema di contenere tutta la ricchezza, e anche l'ambivalenza, dell'inquietante meditazione machiavelliana sul destino del politico moderno? O anche: perché, una volta identificato il proprio limite di governabilità, il conflitto tende sempre e comunque a fuoriuscirne? La risposta pertiene da un lato all'inerenza, all'interno dello stesso «vivere civile», dei germi destinati a corromperlo, e dunque alla natura autodistruttiva della libertà, come si evince dai testi relativi al passaggio - non contingente ma necessario - dalla Repubblica romana (progresso) all'Impero (decadenza); dall'altro al carattere costitutivamente contraddittorio dello strumento politico deputato alla conservazione o, quando sia troppo tardi, al rinnovamento dello Stato. Come è noto - e // principe ne costituisce la più significativa esplicitazione - quest'ultima richiede la potenza concentrata di una «mano regia» in grado di rigenerare la «materia corrotta». Ma anche il nuovo potere si rivelerà effimero se, una volta ristabilito, non saprà imporre al corpo sociale le condizioni della propria sopravvivenza espansiva. Vale a dire: educazione, costumi, religione - e cioè un sistema di controllo ideologico delle coscienze, di cui la famigerata pratica simulativa costituisce il tramite più esterno ma anche più penetrante. Qui si radica, con la forza di una irriducibile necessità, il residuo mitico-teologico, trascendente, di un politico trascinato al massimo della propria secolarizzazione - eppure mai del tutto e completamente laicizzato. Assoluta laicizzazione, d'altra parte - è la via intrapresa, a partire da Locke, dall'intera tradizione liberale, - significa 'neutralizzazione' e cioè progressiva spoliticizzazione. Per resiBari Chabot, Polyphonix 5 Italia, 1983 stere, per sussistere, nel mondo moderno - è forse l'insegnamento più tragico, meno accettabile perché meno rassicurante, di Machiavelli, - il politico deve continuamente lavorare all'estensione della propria trasparenza, ma non può dimenticare il lato notturno della propria origine. S ul carattere 'profondo', non riducibile a una specifica emergenza storico-geografica - come già sottolineava con forza E. Cassirer (The Myth of the State, trad. it., Milano, Longanesi, 1971, pp. 205-26), - della riflessione di Machiavelli, esiste un raro e prezioso riscontro contemporaneo. Si tratta del saggio Su/l'Impero romano di J. Ortega y Gasset apparso sulla Nacilm fra il giugno e l'agosto 1940 (ora pubblicato da L. Pellicani nella raccolta degli Scrini politici della Utet). In esso, pur senza citare colui che in Spagna invertebrata (ivi, pp. 534-35) chiamerà «la mente più chiara del (suo) tempo,., «il mago di Firenze», Ortega riprende in maniera quasi letterale il problema lasciato genialmente irrisolto da Machiavelli. Partendo dal De republica di Cicerone, e prima ancora dal Libro sesto delle Storie di Polibio, Ortega individua «nei 'dissensi civili' la condizione stessa su cui si fonda e da cui emerge la salute dello Stato» a Roma (ivi, p. 989). Ciò non toglie, tuttavia, «che una società esiste grazie al consenso, alla coincidenza dei suoi membri in certe opinioni ultime» (pp. 989-90). E dunque: «Come conciliare una cosa e l'altra?» (ivi). È esattamente la questione drammaticamente posta da Machiavelli circa il limite di governabilità del conflitto. Abbiamo visto come lo strumento cui in ultima analisi questi demandava la funzione d'ordine fosse il 'collante' dell'ideologia, e cioè una serie di 'credenze' destinate a tenere insieme interessi reciprocamente confliggenti. Precisamente l'espressione usata da Ortega. Egli suppone la presenza di una doppia stratificazione dell'immaginario sociale, la prima «superficiale», la seconda «profonda,.. Quando il dissenso concerne la prima fascia, allora il suo esito è positivo e produttivo. Ma quando intacca la seconda, allora il corpo sociale resta «tagliato in due. Il linguaggio simbolizza ciò parlando di cuori che si separano o di un cuore che si scinde in due: è la dis-cordia, come il suo opposto è la con-cordia» (ivi, p. 990). Ma perché l'ingresso del conflitto nel secondo, e più interno, strato genera tale rovina? Appunto perché, mentre il primo è il terreno delle «idee,., il secondo è quello delle «credenze». Sulla differenza tra «idee» e «credenze», Ortega si diffonde a lungo in una serie di articoli anch'essi raccolti e prefati da un'opportuna introduzione di L. Pellicani nel recentissimo Aurora della ragione storica. Basti dire che, mentre le idee pertengono a un ambito di senso, le credenze riguardano direttamente la sfera dell'esistenza, cosicché «possiamo dire che non sono idee che abbiamo, ma idee che siamo» (Aurora della ragione storica, p. 242). Ma che altro significa l'inestricabilità del nostro essere dalle credenze che lo innervano e determinano, se non l'impossibilità di sottoporle a qualsiasi vaglio critico? Le credenze «sono dogmi intorno all'universo e alla vita, norme morali, principi di diritto ( ... ) realtà indiscutibili», e cioè una «fede», una «nuova rivelazione» (Sull'Impero romano, pp. 290, 294), che assolve - nel mondo secolarizzato - il ruolo dell'antica religione. A questo punto appare chiaro il nesso - fin troppo scopertamente teologico-politico per un autore che è stato disinvoltamente letto come portatore del disincanto liberale - che stringe lo strato «basico» delle credenze alla governabilità del conflitto sociale: «La concordia sostanziale, fondamento ultimo di ogni società stabile, presuppone che nella società ci sia una credenza ferma e comune, inquestionabile e praticamente inquestionata, intorno a chi deve comandare» (ivi, pp. 993-94). L'antico interrogativo di Machiavelli riceve qui una risposta politicamente inaccettabile per chiunque non legga nell'avvento della società di massa un tradimento apocalittico dei valori dell'Occidente, e dunque non riconosca ad alcuna «aristocrazia spirituale» il compito di mediare il rapporto tra politica e vita nel mondo contemporaneo. Ma non è questo - tanto è ovvio - il punto che adesso interessa sottolineare. Quanto la.necessità di evitare il rischio - al quale Ortega opportunamente ci richiama - di scambiare il processo di secolarizzazione moderna per la risoluzione del problema da esso stesso posto: che è quello del rapporto forte, non alternativo, tra progresso e decadenza. Secondo Pierre Chaunu, il fatto che il concetto di 'decadenza' nasca storicamente insieme, dentro, quello di 'progresso' (Hi.stoire et décadence, in particolare pp. 29194) non indica una semplice coincidenza, ma la ferita originaria che segna indelebilmente l'intero processo di civilizzazione occidentale. Politica, fin dalla sua genesi concettuale, è concepita come il tentativo di rimarginare questa ferita: le sue chances di successo sono proporzionali alla coscienza dell'inesauribilità del proprio compito. Alta definizionveideo Lf appuntamento che Francis Coppola mi aveva lanciato, dopo il rifiuto a usare il nastro magnetico (in sostituzione del negativo cinematografico) per la realizzazione di Un sogno lungo un giorno, è arrivato puntuale, luminoso e definito sulle mie spalle di ricercatore di: immagini-coloretonalità-luce-energie. Sono stato perciò colto non impreparato dall'incarico, da parte di Giuliano Montaldo, di curare la fotografia per Arlecchino a Venezia che, prodotto dalla Rai, avrebbe costituito la presenza italiana nella sperimentazione del nuovo sistema Sony: «High Definition Video System». Non avendo potuto partecipare (perché impegnato nelle riprese di Wagner) alle prove che lo stesso Coppola aveva effettuato per gli Zoetrope Studios, il mio atteggiamento verso la possibilità conoscitiva di un sistema audiovisivo così rivoluzionario è stato, sin dalle prime parole di Montaldo, non solo entusiasmante ma addirittura passionale. Il doveroso sopralluogo, con il Centro produzione Rai di Milano, nella città di Venezia ci aiutò a meglio definire lo stile visivo del racconto e soprattutto a cercare di capire come un sistema legato da un suo naturale cordone ombelicale (la telecamera e il suo corpo centrale possono vivere a una distanza massima di cento metri l'una dall'altro) avrebbe potuto essere e muoversi in una città indubbiamente particolare come quella lagunare. BIo 11 o lCCa y In obian vO Vittorio Storaro La conoscenza diretta del sistema «Hdvs», in un successivo viaggio a Londra (durante l'esperimento televisivo curato dalla Bbc), lasciò Montaldo e me indubbiamente colpiti dalle possibilità del sistema stesso. L'ingegner Zaccarian della compagnia Cbs e i vari tecnici della società Sony immisero nelle nostre menti quelle informazioni che la loro esperienza in «alta definizione» credeva fossero più necessarie a persone che - pur avendo una specifica conoscenza cinematografica - si accostavano per la prima volta, e con tanta umiltà, a una possibilità di formazione - controllo - distribuzione dell'immagine, del tutto nuova per loro. L'emozione fu quindi molto grande quando - alcuni giorni dopo - vedemmo per la prima volta immagini da noi pensate-costruiterealizzate simultaneamente alla loro formazione, in alta definizione e in suono stereofonico. L'uso narrativo che ci accingevamo a fare di quelle che ancora si possono distinguere come telecamere (ma che indubbiamente, oltre alla loro denominazione, dovranno modificare il loro stato fisico, per il nuovo uso che si chiederà di svolgere loro) ci portò ad alcune considerazioni, già al primo impatto. 11 video ad alta definizione è stato indubbiamente pensato per essere utilizzato su schermi più vasti dei monitors sinora in uso. Ci troviamo quindi ad avvicinare e forse a estinguere quella differenza che da sempre ha separato «cinema» e «televisione»: l'entità d'ingrandimento dell'immagine, formata originariamente su un negativo cinematografico o su un tubo elettronico. Qualsiasi immagine, registrata in alta definizione, deve essere pensata visionabile su uno schermo di apprezzabile grandezza. È necessario raccoglierla e registrarla con tutti quegli accorgimenti tecnici che ne permetteranno un buon ingrandimento (qualità che fino ad oggi ha distinto l'immagine cinematografica). L'incredibile possibilità dell'immagine (finora prerogativa televisiva) di essere visualizzata nello stesso momento della sua formazione, varia completamente l'atteggiamento e la responsabilità di

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