" .... ce impropriamente Ferretti colloca in un contesto troppo generico, comprendente anche autori che non solo non hanno scritto libri di successo ma che comunque motivano diversamente - reiterando la proposta di personaggi pur sempre ponatori di verità universali come già Cassola e Pratolini - la ricerca di un successo per altro non raggiunto. D opo la grande stagione - grande non so se per i risultati conseguiti ma certo per l'immenso impegno profuso - degli anni sessanta, in cui la letteratura ha fatto un enorme sforzo di riflessione su se stessa, di rivolgimento dei suoi obiettivi e di conseguente ristrutturazione del suo campo, è intervenuto un periodo di riflusso e di acqua bassa in cui ogni tensione ha corso il rischio di ritirarsi. A questo punto i nostri scrittori - gli scrittori che avevano contribuito al rinnovamento della cultura e della pratica letteraria nel decennio 1960-70- hanno più o meno consapevolmente pensato che era arrivato per loro il tempo di avere cura del pubblico che fino allora avevano trascurato come distratti da incombenze più gravi. Ma commettevano un errore di calcolo e cedevano a un autoinganno consolatorio. Infatti, non è vero - come abbiamo già avuto occasione di accennare - che la letteratura degli anni sessanta mancava di un pubblico di destinatari, e non è vero una volta che abbiamo deciso di misurare la dimensione del pubblico non tanto dal numero dei suoi componenti quanto dalla profondità dell'incisione che quella singola opera o quel complesso di opere ha prodotto sul corpo della cultura. Da questo punto di vista, la letteratura italiana degli anni sessanta aveva avuto un pubblico non irrilevante, più ampio certo di quello di cui aveva usufruito la letteratura dei decenni precedenti e forse pari soltanto al pubblico su cui avevano potuto contare le avanguardie storiche dei primi del secolo. Se ciò è vero - ed è vero, - non corriamo il rischio di creare equivoci affermando che gli scrittori italiani negli anni settanta non hanno cercato il pubblico ma il consumo. Giacché, a loro, il pubblico non era mai mancato: erano mancate le vendite. E la prova è subito pronta: si può forse dire che i Fratelli d'Italia di Arbasino o Capriccio italiano di Sanguineti abbiano avuto molti acquirenti? Ceno che no. Ma si può dire che non abbiano avuto pubblico? Di certo no. Fratelli d'Italia e Capriccio italiano insieme ad alcune altre opere creative e pochi testi teorici - primo fra tutti Opera aperta di Umberto Eco - non hanno avuto difficoltà a trovare le mediazioni e i canali più opportuni - anche se non erano quelli del pubblico di massa - per portare nell'istituto della letteratura e forse più in generale della cultura rivolgimenti cosl essenziali e radicali da informare tutto il periodo successivo, non esclusi i giorni di oggi. Il nome della rosa ha forse arricchito il suo autore ma è dubbio che abbia prodotto «guasti» sufficientemente rimarchevoli all'istituto della letteratura. La ricerca di un pubblico per ogni scrittore è la capacità di rompere le abitudini, di provocare spostamenti, di anticipare emozione. li pubblico, il vero pubblico, è sempre nascosto. Obiettivo dello scrittore è raggiungerlo Il dove si nasconde e giace ancora estraneo a se stesso. E a compiere questo percorso è indifferente che lo scrittore sia aiutato da un lettore, da cento o da un milione: questo lo scrittore lo ha ~ sempre saputo, oggi lo ha dimenti- ;g_ cato e cerca il milione di copie. ;; P er altro il convincimento - cui partecipa anche Ferretti - che la produzione letteraria di avanguardia sia elitaria e per pochi è un convincimento erroneo. Giacché, guardando alle esperienze finora fatte, è vero proprio il contrario. Si rifletta con attenzione a quelle che furono le caratteristiche delle avanguardie storiche del primo Novecento e alle motivazioni della loro nascita. Si scoprirà che le avanguardie dei primi decenni del secolo nacquero proprio con lo scopo di democratizzare e mettere a disposizione di tutti le emozioni, i sentimenti e i pensieri che l'opera d'arte sa provocare e che, finché erano chiusi (emozioni e sentimenti) dentro le forme a'uliche ed elitarie della cultura classica, potevano essere fruiti da coloro (pochi in verità) che di quella cultura possedevano per educazione e per censo le chiavi segrete. A tutti gli altri (ed erano tanti) erano negati. Perché allora questi ultimi potessero accedere ai piaceri estetici, era necessario rompere (e questo fecero le prime avanguardie storiche) quelle forme chiuse, di sofisticata elaborazione, e lasciare che i contenuti estetici racchiusi nell'opera d'arte passassero attraverso mediazioni alla portata più o meno di tutti, e si offrissero al comune godimento se pure con il rischio di non suscitare molto di più di una partecipazione elementare, di non interessare che i livelli emotivi e più superficiali del lettore o spettatore. Sono convinto che è anche in questa prospettiva che dobbiamo guardare il futurismo italiano o Majakovskij, il dadaismo o la scrittura automatica. Questi movimenti, oltre che appoggiarsi a più profonde motivazioni ideologiche e di giudizio critico sul contesto storico-culturale in cui erano apparsi, perseguivano un proposito , uliotecaginobianco (anche ingenuo) di semplificazione della realtà dell'arte attraverso la messa a disposizione di una specie di «fatelo da voi» estetico, che se certo non consentiva la produzione automatica di oggetti dota!i di valore autonomo, pure incoraggiava - attraverso la estetizzazione diffusa della vita di tutti i giorni - la crescita generalizzata di capacità di partecipazione, di adesione e di attenzione agli aspetti extrautilitari e di gioco che sono parte non trascurabile, appunto, della realtà artistica. E dove sta la fortuna, la furbizia e il reale merito dell'«effimero» Nicolini se non nell'aver capito il carattere «popolare» delle forme di comunicazione appartenenti o comunque usate dalle avanguardie storiche? Cioè la capacità di queste forme di aggregare un pubblico (al di là del diverso grado di cultura e di conoscenza degli individui che lo compongono) attivando un livello di comunicazione per così dire in presa diretta e cioè in grado di consentire un passaggio, sia pure ridotto, di contenuti estetici senza ricorso a mediazioni intellettuali? Una volta scoperto che le condizioni storiche attuali (contrariamente a quello che si crede) riservano solo alle avanguardie culturali la possibilità di un reale rapporto con il pubblico, come può accadere che una verità in fondo così comoda venga smarrita ·dacoloro che oggi dovrebbero avvantaggiarsene? Come può accadere che gli scrittori oggi operanti, e che pure ieri si erano distinti nella pratica della sperimentazione letteraria e dunque di una proposta di scrittura di avanguardia, tendano a sostituire alla riflessione sulla realtà il rapporto con gli acquirenti - manovrando di conseguenza le tecniche compositive e le scelte formali - e, più in generale, tendano a privilegiare il lettore sul pubblico, il primo dei quali lo stesso Italo Calvino, uno scrittore sostanzialmente alieno da calcoli mediocri, in Se una noi/e d'inverno 1111 viaggiatore non resiste alla tentazione di eleggere a protagonista del romanzo? È che il pensiero, la cultura di avanguardia ha esaurito la spinta propulsiva, determinando ristagni e ripiegamenti. Gli scrittori che si erano distinti negli anni sessanta e anche nei cinquanta per i contenuti innovativi proposti, oggi producono opere per così dire di risulta. Opere che utilizzano furbescamente gli strumenti formali dell'arte d'avanguardia ai fini della promozione del consumo: grosso modo come accade per la cartellonistica pubblicitaria che, come si sa, ha preso a piene mani nell'armamentario formale dei movimenti figurativi più avanzati del Novecento: dal cubismo all'astrattismo, all'espressionismo, ecc. Lf opera d'arte e il pubblico sono due entità distinte, ognuna con una propria autonomia e regole di comportamento. Per avvicinarle è necessario o agire sull'una o sull'altro; dunque o sulle opere o sul pubblico. l nostri scrittori hanno deciso di intervenire sulle opere giungendo a manomissioni ripetute. Ferretti ricorda che un'operazione del genere fu addirittura teorizzata da Eco in Apocalittici e integrati, dove l'autore «dopo aver collocato nell'area di un midcult italiano certi romanzi di successo di allora, vi contrappone un romanzo capace di trasferire stilemi da livello superiore a livello medio, o esperienze di avanguardia a livello di consumo in modo intelligente e produttivo». Dunque la scelta è tutta degli autori, e in essa gli editori hanno piccola parte. In contrasto con Ferretti e d'accordo con l'opinione più generale, anch'io ritengo l'editoria italiana I ancora attestata a un livello preindustriale e la sua attività improntata all'improvvisazione degli obiettivi e delle iniziative. Tendo dunque a diffidare dell'esistenza di un rapporto diretto tra scelte editoriali e scrittura. e più mi convince l'affermazione di Ferretti che su di essa (sulla scrittura) gravi eventualmente «una zona d'ombra» che riguarda «le autocensure e gli autoediting più o meno inconsci, l'influenza obiettiva che possono esercitare certi modelli di fama e di successo, e in generale i condizionamenti surrettizi e le modifiche indotte nel lavoro creativo e nel testo anche quando non c'è nessuna quiescenza da parte dello scrittore, o c'è magari una dichiarata opposizione». È dunque tutta dell'autore la responsabilità dell'operazione sorriso, anche se in questa operazione egli esprime e porta anche le esigenze dell'editore, che tuttavia per l'occasione svolge un ruolo di coda. Se l'editore esistesse come presenza autonoma, capace di iniziativa, più che sulla scrittura e dunque sul testo cercherebbe di influire sul pubblico, e cioè cercherebbe con una concreta politica editoriale (coordinata con interventi facenti capo ad altre responsabilità e punti decisionali) di colmare i dislivelli che oggi rendono così problematica e addirittura impediscono ogni reale (e non momentanea e fittizia) democratizzazione del consumo culturale. Forse è proprio l'assenza dell'editore rispetto a questo obiettivo che induce lo scrittore a surrogarlo, prendendo su di sé il compito di promuovere il consumo del libro, attraverso una astuta combinazione degli elementi che lo compongono. Né di questo ci rammaricheremo troppo; solo non possiamo non riconoscere che questa operazione non appartiene al dibattito e allo sforzo teso a fare avanzare la cultura delle idee e delle forme artistiche, e piuttosto svolge un ruolo importante nell'assicurare un'alimentazione magari di qualità al bisogno quotidiano di favola, alla fame disordinata di fantastico che è in ognuno di noi. Per concludere, riconosciamo a Ferretti il merito di avere fatto luce con intelligenza e bravura sul meccanismo oscuro che collega scrittura e mercato, offrendocene alcune prove convincenti con le acute analisi di Se una noi/e d'inverno un viaggiatore e soprattutto di li nome della rosa. Ciò che non condividiamo del discorso di Ferretti è la sua affermazione finale secondo la quale il compito nuovo che caratterizza il critico non è tanto (e semplicemente) di mettersi in rapporto con il testo ma di porsi di fronte al testo come prodotto. Ed è proprio ciò che egli ha •fatto in questo saggio: ma un tale atteggiamento lo ha portato, e non poteva non portarlo, a dare un rilievo particolare all'esame del prodotto o comunque a risolvere l'esame del testo nell'esame del prodotto, facendogli perdere di vista ogni criterio di valore (confusione di Eco e Calvino con Saltini e Luce D'Eramo), non consentendogli di distinguere tra pubblico e lettore, tra mercato e vendite, tra consumo e fruizione. Il pubblico può esistere anche se non c'è il lettore, il mercato - nel senso di circolazione intellettuale del prodotto - anche se non ci sono le vendite, la fruizione anche senza il consumo. Forse in questo equivoco Ferretti non sarebbe caduto se avesse rovesciato la sua equazione e avesse detto - e si fosse comportato di conseguenza - che il compito del critico non è tanto di mettersi di fronte al testo come prodotto, ma piuttosto di porsi di fronte al prodotto come testo.
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