Alfabeta - anno V - n. 47 - aprile 1983

Operazionseorriso Angelo Guglie/mi Giancarlo Ferretti Il best-seller all'italiana Bari, Laterza, 1983 pp. 133, lire 10.000 E, fin troppo evidente che il destino di un romanzo o di una poesia, di un quadro o di una composizione musicale, è di essere letto o visto o ascoltato, ma a me pare altrettanto evidente la speciosità della pretesa che lo scrittore, quando scrive, debba pensare al lettore, il pittore allo spettatore, il musicista all'ascoltatore. Lo scrittore scrive pensando alla letteratura: prima che libri produce opere, cioè produce scrittura. Produce letteratura in quanto invenzione di forme e progetto intellettuale. È anche chiaro che la letteratura in quanto prodotto dell'immaginazione viene calata e messa a disposizione per la fruizione in un oggetto che è il libro. Ed è allora al libro che viene delegato il compito di intrattenere rapporti stretti e diretti con il lettore, e di risolvere il problema del collegamento tra scrittura e lettura. Scrittore e lettore sono due nozioni indipendenti, governate da uno sviluppo autonomo, e se entrano in contatto (tra di loro) è solo attraverso una mediazione (il libro), che mentre appare la più naturale tante volte si rivela essere la più inadeguata e ostile. Non è da oggi infatti, anche se il fenomeno si è fatto più chiaro oggi, che si coltiva il dubbio sulle capacità del libro di essere· una mediazione a livello; e sempre più diffuso e comune è il convincimento che il libro sia appunto un tramite inadeguato, uno spazio imprigionante. Dunque la letteratura ha per obiettivo la letteratura, produce cioè- corrie si è più sopra accennato - scrittura, che mette a disposizione (per la naturale fruizione) in oggetti che più spesso prendono la forma di libri ma che, almeno in teoria, possono assumere le forme più varie. Si pone poi il problema dell'uso dell'oggetto, cioè della lettura. Ma a questo punto le istruzioni per l'uso sono di responsabilità dello scrittore? È lui che deve metterle a punto e redarle? Si intende, non formulandole a parte ma comprendendole nel progetto di costruzione del libro-oggetto. No, mi pare proprio di no. O comunque non è solo lui, ma più di lui è il critico, il politico, l'operatore sociale e insomma quell'insieme di figure e di ruoli che guidano e gestiscono lo sviluppo complessivo di una società; in altre parole non si può far carico solo allo scrittore della comprensibilità di quel che fa: la comprensibilità sarà tanto maggiore quanto maggiore sarà il livello di crescita e di sviluppo della società alla quale appartiene; per altro la comprensibilità della letteratura, quindi più in generale di un'opera d'arte, non è per forza legata all'esistenza di un rapporto tra quell'opera e il singolo lettore. e cioè la diffusione della letteratura conta, oltre che sulla lettura, su molti altri e più indefinibili canali di comunicazione. Chi è più «illeggibile» di Dante? Quanti (parlo del lettore comune) possono affermare di avere capito ciò che hanno letto? Eppure Dante è patrimonio ben radicato in ciascuno di noi. E l'importanza straordinaria di Joyce nella cultura contemporanea, e mediatamente nella vita intellettuale e affettiva dei singoli individui, è proporzionata al numero dei lettori che ha avuto? Evidentementé no, giacché ha avuto relativamente pochissimi lettori. E pochissimi lettori ha avuto (per scendere al più piccolo) la neoavanguardia italiana. Eppure indiscutibile è, a mio parere, il ruolo che ha svolto nella trasformazione, nei modi di pensare, di reagire e di sentire del nostro Paese. D unque il collegamento letteratura-lettura può anche essere debole, senza che questo per forza significhi che la letteratura rifiuti il destinatario o comunque che non ne abbia uno. Dire che lo scrittore quando scrive non deve porsi il problema del pubblico non significa affermare che questo problema per lui non esiste. Esiste, eccome, ma esiste in termini affatto particolari. Infatti, lo scrittore disinteressato al pubblico come consumatore di libri (cioè che non ha come punto essenziale di riferimento, quando scrive, il pubblico come consumatore di libri) è fin troppo interessato al pubblico in quanto segno di realtà, cosicché la riflessione sul pubblico di ogni scrittore diventa la riflessione sulla realtà. Oggi invece accade - afferma Ferretti nel suo Best-seller all'italiana - che rinteresse dello scrittore per il pubblico è in forte diminuzione; in rialzo è invece l'interesse dello scrittore per il lettore. O meglio: gli scrittori italiani scrivono oggi non per i lettori (in quanto referenti di realtà) e quindi per il pubblico, ma per il consuBibliotecaginobianco mo. I lettori sono lettori tanto che siano cento quanto un milione. E spesso capita che i cento diventino domani molte centinaia di migliaia e il milione zero. Dunque, non si conte.sta che gli scrittori italiani scrivano per i lettori: si contesta che scrivano per il consumo, cioè che scrivano per soddisfare le aspettative più facili del pubblico di cui stimolano lavoracità più che la capacità di scelta. Ma qui Ferretti compie una forzatura unendo in uno stesso fascio scrittori diversissimi come Calvino, Eco e Pontiggia da una parte e Saltini, Luce D'Eramo e Mancinelli dall'altra. Non è vero che i due gruppi di scrittori hanno in comune la stessa capacità di usare gli strumenti più aggiornati delle scienze semiologiche e del linguaggio, e insomma di approfittare della maggiore scaltrezza, intanto intervenendo nella pratica letteraria per realizzare un astuto progetto di cattura del pubblico. E non è vero, non fosse altro perché Saltini e Luce D'Eramo sono sempre rimasti estranei - se pure volutamente - al gtande moto di rinnovamento culturale che negli anni sessanta ha investito e rivoluzionato l'istituto delle lettere, e appartengono decisamente a quel mondo che Ferretti individua come romantico-novecentesco nel quale già si attardarono gli scrittori degli anni cinquanta e sessanta, cioè i vari Cassola, Bassani, Pratolini, ecc. Calvino. Eco e Pontiggia si definiscono proprio in opposizione a quel mondo, che hanno provveduto a demolire e rinnovare. E allora per loro il discorso va condotto a parte, e in un contesto del tutto diverso. Per altro. appurata la necessità di tenere ferma la distinzione tra scrittori appartenenti a tensioni culturali non omologhe, e cioè tra scrittori di ricerca e scrittori di istituzione, una volta che anche di questi ultimi si voglia parlare, la scelta non può cadere su Saltini o la Mancinelli ma su ben altri e più autorevoli autori. Si deve parlare piuttosto della Morante e della sua Storia, di Moravia e del suo 1934, e di altri ancora. È indubbio che Elsa Morante con La storia ha perseguito con sagacia e determinazione un progetto di conquista del pubblico. Il romanzo fu scritto quasi in chiave di scommessa verso coloro che, sognando le alte tirature della narrativa all'estero, hanno l'abitudine di lamentare il ruolo di Paese minore cui anche in questo campo siamo condannati. Certo la scommessa, per giunta riuscita, era nascosta dietro motivazioni ideologiche e di poetica ben più complesse. E dicendo «era nascosta", non vogliamo dire che si trattava di motivazioni del tutto pretestuose. Infatti, la ricerca di una così vasta platea (quale traspare dall'ordito della Storia) ha indubbiamente comportato una adesione sincera da parte dell'autrice al bisogno di favola che certo è presente negli strati più popolari del pubblico. Nella Morante l'adesione al «semplice», alle motivazioni elementari, è stata sempre una scelta di poesia. È chiaro che, allorché radesione al «semplice,. diventa sfruttamento del «semplice», la scelta finisce di essere poetica per diventare esclusivamente commerciale. A ltro caso interessante del capitolo scrittura-pubblico è quello degli scrittori Fruttero e Lucentini - anche da Ferretti considerato, - del secondo dei quali ricordiamo quel mirabile 1 compagni sconosciuti che nel 1951, anno in cui uscì, si impose come un sorprendente campione di letteratura esistenziale, del tutto eccezionale in Italia. Dopo quella prima opera - così straordinaria e in anticipo sui tempi per la scelta linguistica compiuta - Lucentini e Fruttero hanno iniziato una collaborazione avente per obiettivo la produzione letteraria per un grande pubblico di massa. Ho l'impressione che le ragioni di questa scelta siano state e siano anche di ordine polemico, cioè di insopportazione per la presunzione di tanta letteratura, che fa coincidere l'altezza dei propositi con l'illeggibilità del dettato contrabbandata per quel tanto di «mistero,. in cui consisterebbe il valore della poesia. Né è da trascurare il piacere dell'artigiano per il proprio manufatto, e la gratificazione per un successo onestamente conseguito. Fruttero e Lucentini riuniscono una doppia virtù: quella dell'onestà e l'altra della capacità professionale. Sono dunque onesti professionisti di cui lamentiamo la quasi totale assenza in Italia quando ci scontriamo con il problema di approvvigionare il mercato dei mass-media con prodotti che uniscano l'efficacia espressiva all'alta qualità tecnica. Ancora è da riflettere sul caso Moravia e, nella fattispecie, sul suo romanzo 1934. Moravia è uno scrittore seinpre distintosi per le grandi tirature, e ciò è accaduto e per le sue doti di vero romanziere (forse unico in Italia, dove crescono, più che narratori, scrittori in prosa con tendenza alla lirica o al saggio) e per la sua volontà e capacità di essere sempre al centro delle cose e fortemente attento a quanto intorno a lui sta accadendo (che gli sia congeniale o estraneo). Moravia è un vero scrittore laico e cioè sempre capace di privilegiare le opzioni della ragione su quelle dell'ideologia, le scelte della riflessione su quelle dell'emotività. Ma allorché è a corto di ispirazione, cioè di motivazioni necessarie, la sua attenzione per la realtà diventa l'attitudine a prendere il «sopra,. dell'onda che, con la sua intelligenza, vede arrivare prima degli altri. Ma tutte le onde sono destinate a smorzarsi non lasciando traccia del percorso e dello spettacolo di cui sono state protagoniste. E allora non credo che sia del tutto un caso che il suo 1934 sia uscito proprio a ridosso dell'anno in cui televisioni, gazzette, rotocalchi, ecc. (in Italia e all'estero) gareggiano a chi più si distingue nella rievocazione e celebrazione dei fasti e nefasti del fascismo e del nazismo, di cui non nascondono l'intrinseco orrore non disgiunto tuttavia dal fascino del ricordo. E l'ultima Morante, cioè Aracoe/i, non sceglie per campo d'azione lo stesso periodo? e gli anni trenta non sono al centro di Zefiro di Aldo Rosselli, che fino a ieri era stato uno degli scrittori sperimentali più attenti ai problemi linguistici e strutturali del fare romanzo? E qui torniamo al discorso che ci sta più a cuore. E qui, soltanto qui, può collocarsi la riflessione su Calvino, Eco e Pontiggia che inve- :i

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