Danza,Ameri.~e~Giappone Lo spazio di Leonardo coreografia e ideazione di Louis Falco e Rocco Bufano Milano, Teatro Carcano (2 marzo 1983) Leonardo e il potere dell'Uomo coreografie e regia di Vittorio Biagi Reggio Emilia, Teatro Valli (stagione 1980-1981) La Argentina, Mia madre di Kazuo Ohno Milano, Teatro dell'Elfo (23 febbraio 1983) e erti sconcertanti fenomeni di disattenzione e di sciatteria intellettuale lasciano supporre che, secondo alcune istituzioni pubbliche preposte allo spettacolo, gli spettatori italiani si siano trasformati in una massa di signore «in tacchi Luigi XV e abiti da passeggio». Cioè, nelle signore alla moda di cui parla Étienne Decroux in Parole sul mimo. Queste frivole desideravano davvero imparare l'arte del mimo, ma senza faticare, e soprattutto speravano che il «grande maestro» (in questo caso Jacques Copeau alla scuola del Vieux-Colombier) infondesse loro «la scienza sotto forma di cocktail». Supponiamo per un momento che il grande maestro sia la nostra istituzione culturale. Anche se la sua desolante valutazione corrispondesse alla realtà - e cioè a un pubblico tutto inguaribilmente televisivo in senso deteriore, attestato su livelli medio-bassi di fruizione e totalmente appagato dalla degustazione di surrogati spettacolari pseudoculturali, - non si giustificherebbero ugualmente certe inadempienze dello stesso grande maestro, le sue continue omissioni. È un maestro che ha accantonato la massima populista, propria della vecchia gestione culturale tradizionale, secondo la quale il pubblico andrebbe educato. Gli ha sostituito procedimenti spesso estemporanei, certo più ornamentali ed esotici: come il recupero, a volte persino intempestivo, di fenomeni spettacolari per lo più stranieri da trasformare in mode; certe incallite effimeralità. Peggio, il via vai incontrollato di progetti che si accumulano tra l'indifferenza e l'indifferenziazione. Qui si scopre una preoccupante impermeabilità alla riflessione sulla pertinenza delle scelte e una conseguente insufficienza di rigore nell'offerta delle proposte al pubblico. Ridotti in svariati formati cocktail, in effetti, sembrano essere alcuni recenti progetti di danza e di teatro-danza sostenuti dall'istituzione. Chiariamo con due esempi molto diversi, ma ugualmente significativi. L a Ripartizione cultura e spettacolo del comune di Milano ha commissionato nei mesi scorsi a una istituzione privata (il Teatro Carcano), in parte finanziandolo nella forma del patrocinio, il balletto Lo spazio di Leonardo del coreografo Louis Falco e del regista Rocco Bufano. Ne sono stati interpreti principali Luciana Savignano, Angelo Moretto, Louis Perrella, Warren Spears. Collocata nell'ambito delle manifestazioni sul quinto centenario del passaggi0 di Leonardo a Milano, la produzione avrebbe dovuto avere una rigorosa e conseguente veste culturale; avrebbe potuto guidare in forma prevalentemente inventiva oppure didascalica (non ha alcuna importanza l'opzione, data la scelta genericamente celebrativa) all'incontro con la figura e l'opera dell'artista. Ma il dispendioso balletto ha dimostrato di collocarsi in una logica soprattutto commerciale, come era per altro prevedibile, valutando - anche sommariamente e senza troppe cognizioni ballettistiche - chi avrebbe creato il prodotto e quali sarebbero state le intenzioni dell'istituzione privata promotrice. Il balletto è una dorata, americanissima mistificazione. Una passerella nella pseudostoria dell'uomo e nella vicenda probabilmente autobiografica del coreografo, dove emerge un Leonardo buontempone che abbraccia il mondo in una sciatta coreografia finale ispirata all'ultimo Mundial, ma senza un'ombra di ironia. Un surrogato non leonardesco a misura del solito pubblico pregiudizialmente televisivo. Una riduzione ai minimi termini iconografici della più nota opera pittorica del maestro, sorretBib11otecago1or ianco ta da uno sconcertante pressapochismo coreografico che non traduce, o traduce solo in parte, i già confusi messaggi prescelti dal coreografo e concentrati sulla presunta irrefrenabile curiosità dell'artista, che era un ricercatore. Naturalmente, non si tratta di muovere una critica di carattere etico all'operazione, in nome della genialità offesa dell'illustre personaggio, svilito in formato videogame (alcuni video-gamessono bellissimi), traslato dentro un'impermeabile e ottusa linearità di pensiero (a parte qualche lacerazione misogina che si infila nella coreografia). E sarebbe ingenuo accusare di rozzezza culturale il coreografo o deprecare la politica di gestione dell'istituzione privata. Lo stile di Falco rappresenta in Italia quello che mediamente si intende per danza moderna. Falco poi è l'immagine mitizzata del ballerino nuovo: penetrato nell'empireo dei divi del balletto (ma solo in Italia e in pochi altri paesi europei), questo coreografo, dal vocabolario limitato e banale, fa leva su un certo impatto sensuale-emotivo-negro della sua danza. Mutua gli insegnamenti ricevuti dal suo originale maestro José Lim6n con una determinatissima propensione alla facilità espositiva. Ma la sua non è stata quasi mai la facilità che è frutto di meditazione e di intelligenza, come in altri coreografi americani, ad esempio Twyla Tharp o il maestro della jazz-dance contemporanea, Bob Fosse. Non è semplicità, è semplicismo. Seduce perché è dinamica e viene, in genere, interpretata da una compagnia, la stessa compagnia di Falco, tecnicamente ineccepibile. Ma neanche su questo puma Lo spazio di Leonardo, interpretato invece da un gruppo misto di italiani e stranieri complessivamente disomogeneo. Il senso ultimo del balletto, dell'operazione milanese, è allora l'abbinamento subdolo di Falco, un divo di cassetta, e di Leonardo, portato allo stesso livello, ma senza gioco né ironia. A proposito di Leonardo abbinato alla danza, vale inoltre la pena di ricordare che l'istituzione culturale ignora sistematicamente la produzione nazionale. Non ha considerato, ad esempio, il precedente di un coreografo italiano, Vittorio Biagi, che ha tentato qualche anno fa, con onestà intellettuale e bella artigianalità, una scrittura danzata, liberamente ispirata a taluni testi leonardeschi circoscritti, a talune particolari osservazioni scientifiche del maestro di Vinci (contro la pretesa «americana», magniloquente e tronfia, di restituire tutto lo spirito di Leonardo). Questo persistente provincialismo, questa inguaribile esterofilia, compie tra l'altro non pochi errori di valutazione. Il balletto Leonardo e il potere dell'Uomo di Vittorio Biagi è stato accolto con molto interesse in Francia, mentre non si sa come verrà accolto all'estero questo inconsistente Spazio di Leonardo, pochissimo italiano, per nulla europeo. S peculare a questo discutibile avallo culturale dell'istituzione pubblica, e forse ancora più grave, è la disattenta accoglienza riservala al settantasettenne performer Kazuo Ohno. Pioniere della danza butoh, originale filosofo della nuova danza giapponese, Ohno (capitato - è il caso di dirlo - a Parma per iniziativa del Teatro Due, e a Milano con il patrocinio di Milano Aperta nel mese di febbraio) avrebbe meritato una presentazione accurata, uno studio attento, in luoghi e spazi adatti, della sua ricerca sull'espressione corporea in forma di danza, iniziata negli anni trenta. Concentrata nella presentazione di due soli spettacoli (La Argentina del '77, e Mia madre del '76), la sua presénza ha lasciato invece esigue tracce e ha anzi innescato fenomeni di incomprensione e confusione nel pubblico. Taluni allievi ed epigoni di Kazuo Ohno e degli altri iniziatori del movimento butoh (Tatsumi Hijikata e Mura), ad esempio gli Shankai Juku e il gruppo femminile Ariadone, sono stati presentati prima dei maestri nei teatri e in alcuni specifici circuiti estivi italiani. Così le performances di Kazuo Ohno sono state inevitabilmente paragonate agli spettacoli di questi gruppi più giovani, tra l'altro contaminati dal modello teatrale occidentale e certamente di più immediata leggibilità e con maggiore potere di seduzione. Insomma, la pregnanza semantica e la purezza espositiva del vecchio maestro sono state scambiate per arcaica e sorpassata «novità». Il fenomeno ripete nella stessa forma il confuso meccanismo che ha regolato l'importazione della nuova danza americana: l'arrivo di Merce Cunningham in tempi più recenti (era comparso in Italia con la sua compagnia nel 1964 per la Biennale di Venezia, ma era stato per lo più ignorato), preceduto dall'ampia schiera dei suoi discepoli. Anche qui, scambialo il maestro per l'allievo - un allievo inutile, decrepito, privo di scintillante e accondiscendente verve commerciale, - sono stati sconvolti i piani di un'articolazione logica e conseguente delle proposte. Il panorama di questa avanguardia si è trasformato in Italia in una opaca, spesso indiscriminata, giustapposizione di segmenti senza inizio né storia. Tutte occasioni mancate, tra l'altro, per gli stessi addetti ai lavori della danza italiana, sopraffatti dall'esplosivo boom delle più disparate e frettolose importazioni, ma difficilmente favoriti e guidati all'approccio puntuale e analitico di quanto e come si produce all'estero, specialmente nell'ambito del teatro di ricerca. In Italia la sperimentazione è
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