l'invenziondeell'isterica D:M. Bourneville P.M.L. Regnard Tre storie d'isteria a c. di A. Fontana Venezia, Marsilio, 1982 pp. 254, lire 20.000 G. Didi Hubermann L'invention de l'hystérie Paris, Macula, 1982 I n Tre storie d'isteria, costituito dalle cartelle cliniche e dalla documentazione fotografica su tre isteriche, ricoverate alla Salpètrière nel decennio 1870-1880, assistiamo a una delle più determinate ed efferate imprese conoscitive che la scienza occidentale abbia tentato. Ci è difficile comprendere perché mai l'isterica rappresenti, nel secolo scorso, un quesito particolarmente arduo per il sapere medico e perché si organizzino, intorno a questa figura evanescente, una pratica clinica, una metodologia e una teoria destinate ad assumere valore paradigmatico. Non è tanto col definire l'isteria un'affezione epocale, provocata da una società moralistica e sessuofobica, che troveremo una risposta soddisfacente, in quanto l'età vittoriana non detiene certo la palma della repressione sessuale e della misoginia rispetto alle precedenti; piuttosto, dovremo considerare l'isterica istituzionalizzata il punto terminale di una amministrazione plurisecolare del corpo femminile, l'esito ultimo della sua grammaticalizzazione. In questo senso, i curatori della collana (Alessandro Fontana e Mario Galzigna) presentano il volume come un tassello della genealogia del soggetto moderno; ma, a dispetto del complesso congegno di osservazione, registrazione, manipolazione e strumentazione, assemblato per captarlo, il soggetto rimane qui evanescente definendosi, in ultima analisi, come la tessera mancante. Oggetto d'indagine è la donna in quanto rappresentante la sessualità femminile, polo d'attrazione del desiderio maschile e, al tempo stesso, luogo della sua mancanza, alterità, difformità: è la donna sessualmente attiva, vale a dire (in un'ottica maschile) giovane e bella. Da sempre questo oggetto del desiderio costituisce un enigma per l'uomo che ha inteso, nel suo corpo, un sapere segreto, che vi ha scorto un godimento sfuggente alla regolazione. Come efficacemente ricostruisce Giulia Sissa («La Pizia delfica: immagini di una mantica amorosa e balsamica», in aw-aut n. 184-185,pp. 193213), la Pizia di Delfi profetizza attraverso un corpo cavo, in cui i vapori della terra si trasmutano in parola oracolare. Ma questo rapporto corporeo con il sapere ha qualche cosa di indecente, qualche cosa che lo rende comunque estraneo, per eccesso o per difetto, alla circolazione della cultura. Sappiamo che Aristotele situa la donna, unita- •mente al tiranno e al crematista, fuori dallo spazio razionale della polis, dalla grammaticalità del logos, dalla legalità del nomos. Se la donna, in quanto madre, può costituire l'anello di congiunzione tra la natura - i suoi tempi, i suoi spazi, la sua specifica produttività - e l'organizzazione sociale, come materia erotica rimane invece aliena e inquietante. Il desiderio femminile, che è impossibile ridurre al registro della maternità socializzata, rappresenta una sfida per la tassonomia del mondo, un irriducibile ostacolo alla sua esaustiva formalizzazione. Paola Manuli, nei suoi studi sulla scienza antica (vedi «Fisiologia e patologia del femminile negli scritti ippocratici» in Hippocratica, Paris, Cnrs, 1980), ha dimostrato come la medicina costruisca la sua dimensione antropologica, così come il suo specifico campo disciplinare, decretando l'emarginazione del corpo femminile, per il quale appronta una scienza regionale e separata: la ginecologia. In questo spazio, preposto alla amministrazione del diverso, il medico individua nell'utero il significante privilegiato del corpo femminile. L'utero è inteso allora come un animale indomito o come un demone che il ginecologcrpuò, con una terapia che metaforizza il rito sacrificale, placare ed esorcizzare. Si tratta comunque di una terapia sintomale perché il disordine costitutivo del corpo femminile può essere regolato solo dal dominio sessuale maschile, che trasforma la sessualità in maternità. «Dell'isteria - scrive ancora P. Manuli («Elogio della castità», in Memoria n. 3, marzo 1982) - il coito è farmaco assoluto». S i opera in tal modo, all'interno del corpo della donna, una contrapposizione tra sessuale e materno dove, al secondo, è demandato il potere del farmaco, il primo termine restando invece connotato di patologicità. Una contraddizione che Sorano (I secolo d.C.) cercherà di superare proponendo alle donne l'ideale della castità o, quanto meno, una gestione la più oculata possibile del loro corpo erotico e materno - l'integrità del quale è affidata a un intenzionale regime di frigidità e astinenza. La sua precettistica medica ed etica persegue un distacco dalla immediatezza del bisogno e dalle necessità istintuali che equipara, intorno al comune valore della castità, i due sessi. Ma il presupporre Bibllotecag;nob.anco Silvia Vegetti Finzi una identità sessuale che prescinde dal reciproco scambio e misconosce la potenza del desiderio, produce una iconografia fittizia della mascolinità e della femminilità ove ciascuno persegue, attraverso la negazione dell'altro, l'affermazione della propria unità e integrità. L'ideale dell'astinenza sessuale veicola in tal modo due figure antropologiche - quella del monaco da una parte, e della suora dall'altra - destinate a esemplificare i valori dell'istituzione religiosa. La monaca, votata alla verginità, è una donna che, contrariamente alla sposa, non ha bisogno di coniugarsi con l'uomo per realizzare la sua femminilità. Mentre la moglie si sottomette alle leggi della riproduzione biologica, la suora si declina in una pratica metaforica. Le tappe dell'ordinazione rimandano esplicitamente agli accadimenti fondamentali della sessualità femminile, così come il rito ne riprende i contenuti, solo che lo sposo ideale prende il posto di quello reale e l'icona di Gesù bambino sostituisce il figlio mai nato. È facile intravvedere nelle storie di mistiche, quali quelle riportate nel volume in discussione, come queste metafore trascinino imprevisti importi d'affetto, sollecitino imbarazzanti vissuti immaginari. Parole e simboli si rivelano più pregnanti e vischiosi del previsto sì che lo sposo celeste può indurre un delirio erotico, e il divino bambino sollecitare una imperscrutabile maternità isterica. La mistica, questa protagonista della conventualità secentesca, sembra realizzare - nella povertà di socializzazione e nella deprivazione culturale della sua istituzione - una autonomia dell'immaginario, una priorità del fantastico sul reale, una separazione ed enfatizzazione del mondo interiore che (con tutte le differenze indotte dal diverso contesto istituzionale) saranno ripresi dall'isterica e infine fatti 'corpo teorico' dalla psicoanalisi. Il prodigio della levitazione rappresenta appunto il distacco raggiunto nei confronti di una 'realtà bassa', mentre l'assenza segna il rifiuto di uno scambio sessuale impossibile. Sono performances che accadono, comunque, nella forma dello spettacolo, chiedono un pubblico, reclamano attenzione, anche a costo di incorrere nella demonizzazione e nella repressione spietata che ne consegue. Dal luogo della sua verginale segregazione, la mistica, così prossima alla strega, sfida l'uomo a possederla nella forma sublime della conoscenza. La sua seduzione assume allora le modalità di una produzione di segni criptici, sfuggenti a ogni regolazione categoriale, mentre il femminile si conferma, per utilizzare le note metafore freudiane, l'enigma, il continente nero della conoscenza - in quanto tale, però, capace di produrre una fascinazione potente dello sguardo maschile, la captazione di un desiderio di sapere che trova esca nella completa irriducibilità del suo oggetto. S i costituisce così una modalità di rapporto - erotico e cono- , scitivo a un tempo - che connette tanto la monaca al suo confessore quanto l'isterica al suo medico, dove alla volontà indagatoria dell'uno fa riscontro il nascondirnento enigmatico dell'altra. La mistica, cosl come l'isterica, è una sfinge evocata dalla domanda e cancellata dalla risposta. L'una e l'altra, poi, non sono che la rappresentazione di una sessualità femminile dimidiata, resa narcisisticamente infantile dalla sottrazione della componente genitale. Risulta evidente, dai resoconti clinici, che le isteriche, indipenqentemente dalla loro età anagrafica, sono bambine: l'istituzione psichiatrica, infatti, riconosce, accoglie e amministra soltanto le loro pulsioni parziali, connotate di devianza, di anormalità, di perversione. Non è certo quello il luogo del coniugale e del materno che trovano invece, nella dimora familiare, legittima collocazione. Il desiderio di maternità, espresso dal ventre gonfio esibito dalle ricoverate, non viene mai riconosciuto come tale; allo stesso modo si registrano deliri di parto, angosce d'aborto e l'automutilazione del capezzolo infertasi da Geneviève, senza attribuire loro particolare rilevanza o significato specifico. Sembra che l'organizzazione manicomiale non possa accogliere l'isterica come un tutto, senza sconvolgere la sua stessa economia. Occorre allora ridurla a oggetto medico, inscriverla completamente in una logica di malattia, diagnosi e terapia. Ma tutto l'apparato perde colpi -di fronte a una sintomatologia sfuggente a ogni tassonomia, a una fruizione perversa della terapia, alla parodia della malattia e della guarigione. Dalle cartelle cliniche abilmente selezionate da Fontana, emergono tre indimenticabili figure di donne, giovani, belle, narcisisticamente sventate, che si scoprono insofferenti all'ambiente miserabile, faticoso e violento cui la nascita le ha destinate. Preferiscono invece (e si ha talora il senso di una scelta di vita o di quei ribaltamenti esistenziali di cui sono capaci le eroine dei romanzi erotici settecenteschi) l'atmosfera protetta, premurosa, attenta, le frequentazioni altolocat~ che trovano alla Salpètrière, dove si installano da divine, con tutti i vezzi, le bizze e le moine delle primedonne. Fuori di lì hanno conosciuto per lo più due cose: la tranquillità del convento (ove sono state più o meno a lungo allevate) e la brutale accoglienza che la società riserva alle giovinette prive di tutela familiare. Sono storie di stupro, di incesto, di fuga, di maternità illegittime, di inganno, di sfruttamento e di solitudine. L'istituzione psichiatrica, nella nuova versione «scientifica» voluta da Charcot, accogliendole nei suoi ruoli, permette loro di regredire alle esperienze più gratificanti. L'isterica, ammessa alla Salpètrière, ha dinanzi a sé una carriera: se sarà tanto brava da costituire un 'caso', sarà osservata, registrata, fotografata, potrà recitare la sua parte alle lezioni del martedì, dove, addobbata con larghi cappelli adorni di piume (perché anche i visitatori degli ultimi posti possano scorgerne i movimenti), mimerà efficacemente il «grande attacco isterico,., il pezzo forte del suo multiforme repertorio. Ma quella che, per certi versi, può sembrare una opzione, si rivela una trappola in cui l'isterica rimane invischiata, moltiplicando, il suo divincolare, i lacci che la stringono sì che lei stessa, infine, è la carceriera e la prigioniera di sé. In un'alternanza di fuga e di captazione, di rifiuto e di reiterata richiesta, in un intreccio inestricabile di sofferenza e di piacere, inizia con il suo osservatore una lotta vischiosa di complicità manifeste e implicite. Più appare arresa allo sguardo manipolatorio del medico, più gli affida il suo corpo inerme, mollemente sdraiato tra gonfi cuscini di piume, più gli sfugge nel luogo segreto del suo godimento autoerotico. Ma questo climax è preceduto da tutta una serie di schermaglie volte a irretire l'interlocutore in un gioco di preliminari erotici, dal quale il medico si difende trincerandosi dietro la neutralità della registrazione, l'imparzialità del metodo. I ntorno alla coppia costituita dallo psichiatra e dalla sua isterica, alla loro segreta complicità, il tempo si ferma e lo spazio si contrae. Il brusio della grande macchina istituzionale tace in-
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