La rivist~M--~~ Figure'' - Filiberto Menna «Il progetto moderno dell'arte e la critica» in Figure n. 1, 1982 pp. 122, lire 5.000 La linea analitica dell'arte moderna Torino, Einaudi, 1975 pp. 132, lire 2.000 Critica della critica Milano, Feltrinelli, 1980 pp. 106, lire 3.000 Achille Bonito Oliva (a c. di) Critica ad arte. Panorama della post-critica Milano, Politi, 1983 pp. 234, lire 12.000 e he una rivista di «teoria e critica dell'arte», come si definisce Figure, mancasse nel panorama italiano, appariva evidente anche a un pubblico di non addetti ai lavori, abituati ormai dai mass-media a considerare le dispute della critica d'arte italiana come un susseguirsi di colpi di mano, guidati da una logica di ripicche personali piuttosto che da un disegno teorico, più o meno profondo. Certo, nel panorama editoriale non mancano riviste di gloriosa tradizione (come Paragone-arte) o di attenta cronaca militante (ad esempio, Flash art); ciò che mancava era appunto la sede teorica, oggi svilita e negata, ma pur sempre considerata come necessità superiore. In tal senso Figure, diretta da Filiberto Menna, viene a coprire un vuoto (ha preceduto di qualche mese anche Color, la rivista diretta da Maurizio Calvesi, di prossima uscita), che forse non è soltanto editoriale, ma in certi casi intellettuale. Graficamente progettata secondo canoni di sobrietà e di rigore quasi serioso (neppure un'immagine allevia il lettore in centoventi pagine), Figure presenta nel suo primo numero cinque saggi (di Filiberto Menna, Franco Rella, Manfredo -rafuri, Gianni Vattimo ed Emilio Garrone) e quattro lunghe «comunicazioni». Tema comune: la critica. Di fatto, il discorso sulla critica e della critica su se stessa viene da qualche anno evitato - naturalmente con le dovute eccezioni - e demandato all'azione critica, all'evento, alla mostra, in modo da arguirne solo trasversalmente finalità e motivazioni (non sempre di tipo speculativo). È questo un aspetto della crisi profonda che la critica d'arte sta attraversando, o ne rappresenta già il superamento, attuato operando uno slittamento, mento della crisi attraverso l'accettazione passiva - e quasi allegra - della perdita del ruolo, sedotti dai tanti miraggi che una società massificante attraverso l'informatica può offrire. Entrano allora in campo - e non poteva essere altrimenti - i concetti di «moderno» e di «postmoderno», o meglio, di «progetto moderno» e di «condizione postmoderna», sezionati da Menna con molta acutezza. Progetto implica necessariamente l'idea di volontà del soggetto progettante (nel nostro caso il critico, o l'artista); «condizione» è invece uno stato di acquiescenza, di stasi, di acquisizione di un dato di fatto. Menna si schiera decisamente in favore del primo termine, indicando così una precisa scelta di campo critico e, in seconda istanza, operativo. Ma progetto e condizione sono soltanto apposizioni attributive dei vasti e ormai magmatici concetti di «moderno» e «postmoderno»: voci, soprattutto la seconda, assurte ormai alla gloria della banalità giornalistica. Menna invece ne analizza i punti fondanti con l'occhio attento di chi vuole scoprirne le contraddizioni e le aporie. Partendo - com'è logico - dalle affermazioni di Lyotard, si enucleano le caratteristiche della condizione postmoderna, individuandole - per quanto riguarda soprattutto arte e critica - nella «filosofia dell'azzeramento» (Lyotard), nella sfiducia per la teoria, infine in una sorta di anarchismo critico: il sapere tradizionale, secondo i teorici del postmoderno, basato sul binomio vero/falso, sarebbe stato trasformato fino a fargli perdere ogni carattere «denotativo», per fargli assumere un ordine «performative», basato questa volta sul binomio efficiente/non efficiente. una migrazione territoriale verso i A I «si può leggere tutto e in lidi dell'efficacia e dell'efficienza tutte le maniere», di Lyodi stampo manageriale? tard, corrisponde la seduL'editoriale della rivista e il sag- cente ipotesi di una critica svincogio di Menna analizzano questi lata da ogni riferimento all'opera aj ~ aspetti dello status critico in ma- e, di qui, una critica generalizzata niera molto articolata, e finalizza- e diffusa. A questa posizione si av- ~ ta al rilancio dell'idea di progetto vicina anche la provocatoria frase ~ critico. Che la crisi della critica sia di Feyerabend - citato anche da ..,. da inserire nella più generale mes- Menna - il quale, nel suo abbozzo ti sa in discussione di ogni teoria del- «per una teoria anarchica della co- ~ la conoscenza è cosa ormai assoda- noscenza», afferma che «l'unico il ta. Meno automatico è, secondo principio che non inibisce il pro- B, ~ I onn~ rago, n81 suiii"n éeò è: qualsiasi cosa può andar bene». Tuttavia, non bisogna dimenticare che, nonostante tutto, l'intento di Feyerabend è progressista, procedendo infatti dalla non uniformità del pensiero scientifico per «far progredire la scienza in modo controinduttivo»: la molteplicità dunque, perfino il caos è produttivo, se dalla controinduzione scalurisce il rinnovamento. Ma progresso e rinnovamento non sembrano termini confacenti alla «condizione» postmoderna. D'altro canto, lo stesso· Menna attribuisce a pensatori «moderni», come Adorno, la priorità di definizioni dell'arte come «esponente della rivolta contro l'organizzazione», riportando dunque nell'ambito del moderno ciò che è stato spiegato come uno dei vessilli del suo superamento. La classificazione, che secondo alcuni apparterrebbe all'ordine denotativo del sapere e quindi al pensiero moderno, di fatto si può contestare e negare proprio a proposito del concetto di arte. È chiaro poi che una polverizzazione delle informazioni - dovuta all'avvento apparentemente semplificante dei nuovi sistemi di comunicazione, dell'informatica, basata sulla scomposizione del dato, sino al termine ultimo del binomio sì/no, - sia che appartenga a un sapere moderno (come ribadisce Menna, citando anche il proprio saggio, del 1968, «Profezia di una società estetica,.) sia a modelli postmoderni (Barilli, in Tra presenza e assenza), pone l'arte - e la critica - di fronte al problema di un'esteticità diffusa, di massa. È la vecchia questione della morte dell'arte, che in questo caso trasfigurerebbe nel sociale, appunto in un'esteticità di massa, propiziata dalle tecnologie informatiche dell'era elettronica. È questa la realizzazione del progetto delle avanguardie storiche, sempre alla ricerca di un rapporto osmotico tra arte e vita, della «definitiva liberazione dell'uomo» (Mondrian) da parte dell'arte stessa? Calvesi, in Avanguardia di massa, ne aveva • già colto analogie, ma ne aveva anche indicato le grandi differenze: l'avanguardia di massa fallisce quando resta sul piano della teatralità, della provocazione, della mera immaginazione, dello scandalo, senza costruirsi nel lavoro e nel progetto. Tuttavia, la pratica delle avanguardie artistiche dal 1960 circa a oggi - è la tesi di Menna - si è configurata in maniera quasi antitetica rispetto alle avanguardie storiche: infatti, se in queste l'utopia era nella volontà di sconfinamento nella vita, nella pratica sociale, le avanguardie moderne hanno agito in maniera sostanzialmente diversa. Il debito che molti movimenti giovanili hanno contratto con i modi e i metodi delle avanguardie è indubbio, ma è altrettanto vero che mai come negli anni sessanta e settanta è stata vitale quella linea analitica dell'arte che ha fatto dell'autoriflessione sullo specifico artistico il proprio credo. Inflessibile sino alla più rigida, e talora asettica, tautologia, l'artista concettuale di quegli anni ha analizzato e sezionato i propri strumenti linguistici, prima di chiedersi se fosse ancora possibile lo sconfinamento dell'arte nella pratica della vita, dall'artistico, cioè, all'estetico. E, un'analisi che lo stesso Menna ha condotto con estremo rigore ne La linea analitica dell'arte moderna, dove però l'atteggiamento analitico dell'artista nei confronti del proprio oggetto era enfatizzato sino a costituirne l'unica possibilità di sviluppo dell'arte moderna. Del resto il saggio - datato settembre 1974pare risentire del clima artistico nettamente improntato da un lato dall'arte concettuale, dall'altro dalla «Pitytura-pittura,. o «Pittura analitica». Soltanto in uno degli ultimi paragrafi («I limiti della formalizzazione,.) Menna mette in guardia contro i rischi di «una strenua, quanto sterile, volontà di coerenza», che si risolve in vuota tautologia. Tuttavia, rimane ne La linea analitica il sentore di una fiducia e di una necessità quasi scientista nella possibilità - in questo caso attribuita all'artista - di decostruire il linguaggio dell'arte «dalle icone alle figure», per giungere a un modello linguistico assimilabile in qualche modo al linguaggio scientifico. Il saggio attuale corregge un po' il tiro rispetto alla «linea analitica», e ribadisce alcuni concetti già espressi nel 1980, in quel prezioso testo che è Critica della critica. La componente strutturalista - prioritaria, benché articolata, ne La linea analitica - viene nettamente mitigata nel saggio più recente, forse perché oggetto del discorso è la critica, pratica comunicativa il cui territorio non ha tuttora confini ben definiti. Anche in questo caso, tuttavia, compiendo una verifica - la prima - dello statuto della critica, Menna ha ben chiara ridea di «progetto critico», istanza irrinunciabile per evitare - come si è già detto - le secche di una mera omologazione dell'esistente. Alla funzione teorica va affiancata - nella critica - una funzione storica, entrambe basi imprescindibili per l'atto critico per eccellenza, l'attribuzione di valore. Modello linguistico teoriéo, dunque, coadiuvato dalla capacità di lettura diacronica dell'arte per individuarne le «varianti,. storiche, rispetto al sistema teorico, e infine - momento prettamente soggettivo dell'agire critico - il giudizio, la messa in causa delle due precedenti componenti, la trasformazione della teoria in prassi. A questo «statuto della critica» sono sottese per lo meno due certezze teoriche interdipendenti: la possibilità cli formulare un modello critico (le variabili si possono individuare soltanto rispetto a un sistema di invariabili) e la capacità di avere come termine di riferimento non soltanto il proprio linguaggio, ma l'opera d'arte, e cli indicarne un futuro possibile. Sono posizioni decisamente polemiche nei confronti sia dell'arte che si pone come critica (il concettuale, che ora ha però perduto la forza dell'attualità e ci interessa meno), sia della teorizzazione dell'assoluta ineffabilità dell'arte, intesa come trasparenza, come ostensione della cosa in sé, per quello che è: il risultato negativo di tali posizioni, alla fine solidali, è la «critica creativa, che tende a trasformare - scrive Menna - I'opera in un oggetto trasparente attraverso il quale contemplare se stessa e i procedimenti della propria scrittura». Al «progetto» cli Menna, però, molta «giovane critica» sembra avere ormai attribuito un valore non più militante, ma storico: al recentissimo convegno «Critica ad arte. Panorama della post-critica», curato a Pisa da Achille Bonito Oliva, troppi critici si sono mascherati dietro i concetti volgarizzati di nomadismo, di attraversamento, e di ineffabilità dell'opera, e di impossibilità della scrittura, forse per nascondere un interesse - strettamente operativo - della nuova generazione critica: quello della scelta di uno schieramento strumentale, tattico, meramente politico, per quanto seducente. Uno schieramento svuotato di senso. Occorrono invece la pazienza e la ricostruzione del dibattito teorico e, insieme, del tramite fra tale dibattito e la valutazione dei nuovi oggetti della ricerca artistica.
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