Alfabeta - anno V - n. 46 - marzo 1983

Bi Fernando Pessoa Una sola moltitudine Milano, Adelphi, 1979 pp. 446, lire 14.000 Elias Canetti Massa e potere Milano, Adelphi, 1981 pp. 616, lire 20.000 ~~ Ai que prazer/ Nao cumprir ~ un dever,/ Ter um livro para Ieri E nao fazer!» (Ma che piacere/ non compiere un dovere,/ avere un libro da leggere/ e non farlo!) li titolo di questa poesia di Pessoa 'ortonimo' è «Libertà» e «(Manca una citazione da Seneca)». Certo che, considerando le sovrabbondanti 'istruzioni per l'uso' che accompagnano le opere letterarie moderne e contemporanee, si tira un po' il respiro sentendosi dire, sempre dall'ortonimo, che «Ho scoperto che la lettura è un modo servile di sognare. Se devo sognare, perché non sognare i miei stessi sogni?» È un po' come se il commesso viaggiatore cominciasse col dire che, in fondo, l'articolo che ti sta vendendo potresti anche evitare di acquistarlo. Belli poi, questi versi, letti quando la lettura va diventando un problema strategico ('cioè' militare?). Insomma, Pessoa sembra fin dal primo momento uno di quei rari scrittori che hanno in serbo sorprese d'ogni tipo, capaci quindi di giocare dei tiri alle strategie più sottili di lettura/inquadramento/ interpretazione. Mi sembra cosl che, leggendolo, il meno che si possa fare sarebbe cercare la meno servile possibile delle letture (la meno servile delle letture possibili). Come quella di un de Certeau, per èsempio, che vede il lettore come un cacciatore di frodo, un bracconiere che saccheggia tesori che non ha prodotto ... e se ne va, perché la lettura è deterritorializzazione, è non aver luogo (proprio), è Barthes che legge Proust in Stendhal. Certo, bisogna essere Barthes per permetterselo ... oppure, oppure bisogna essere nessuno. Uno, nessuno, centomila. Ciò che Pirandello in fin dei conti esorcizza, ciò a cui Proust accenna incidentalmente quando parla degli «io» che la sua malattia abbatte l'uno dopo l'altro lasciando esistere solo i due o tre più irriducibili, insomma la tribù degli «ii», che nella letteratura del Novecento è nettamente percepibile, ma sempre in qualche modo come sfondo, diventa per Pessoa il mobile motore e al tempo stesso la materia di tutta la sua avventura poetica. Così, leggendo Pessoa, penso che del riconosciuto disorientamento dei critici - i.e. dei lettori professionisti - bisognerebbe approfittare finché c'è tempo, in questa specie di «vuoto di potere» della lettura competente. Per farla breve, mi capita di leggere Pessoa come il «caso» mancante in Massa e potere di Elias Canetti, e più ci penso più mi sembra che si tratterebbe del caso «decisivo», capace di 'chiudere' questo saggio-romanzo gigantesco fra i più inquietanti del Novecento, l'anello mancante che consentirebbe davvero all'analista del potere come sopravvivenza di «afferrare alla gola» il suo - il nostro - secolo. Mi limiterò perciò a esporta Pessoae Canetti questa fantasticheria lasciandola allo stato di traccia: chi sa che i sogni di un lettore non riescano utili a qualche scrittore ... T utto Massa e potere gravita intorno al caso Schreber, perché Canetti individua nel desiderio di sopravvivere il tratto fondamentale del potere. Potente è il sopravvivente, colui che sopravvive a masse sterminate - in tutti i sensi - di cadaveri. Potere assoluto sarebbe dunque il potere di chi riuscisse a sopravvivere a tutti i viventi, ma questo caso-limite del potere ha un nome, psichiatrico per il momento: è ciò che chiamiamo «paranoia». Per Canetti non esiste differenza apprezzabile tra paranoia e potere: la paranoia è la malattia del potere. Osserviamo di passata quanto sia liberatoria l'assunzione di termini «tecnici», come appunto paranoia, da parte di uno scrittore come Canetti: ci liberiamo contemporaneamente del senso psichiatricodel termine, e penetriamo nella struttura intima del potere. Domanda di passaggio: e se si moltiplicasse questo tipo di procedura? Se si facesse subire ad altre parole consacrate lo spostamento che Canetti impone alla «paranoia»? È anche per que;to che mi pare opportuno parlare di Pessoa - che si autodiagnostica «isteronevrastenico» in una lettera (speRodolfo Granafei dita?) agli psichiatri Hector e Henri Durville - pensando a Canetti. li nemico giurato di Schreber è lo psichiatra Flechsig, che lo attacca lanciandogli contro delle «mute celesti», delle «mute di anime», che egli produce mediante uno strano fenomeno definito da Schreber «scissione delle anime». Potremmo pensare a Pessoa più o meno come a un Flechsig poeta invece che psichiatra; la cosa non sarebbe affatto una forzatura, e in più ci consentirebbe di mettere a fuoco qualcosa che in Canetti rimane sfocato: il rapporto tra 'paranoia' e 'schizofrenia'. «In arte: invece di trenta o quaranta poeti che esprimono un'epoca, due poeti che la esprimono, però ciascuno con quindici o venti personalità, ciascuna delle quali sia una Media fra correnti sociali del momento», scrive Alvaro de Campos nell'Ultimatum («Mandato di sgombero ai mandarini d'Europa»). Si potrebbe crederla una bravata futurista, se non fosse per il piccolo particolare che chi l'ha lanciata, questa dichiarazione di poetica, è poi riuscito anche ad eseguirla. E siamo al nocciolo del «caso Pessoa»: riuscire a essere da solo tutta una letteratura. Ma di questa schizofrenia programmatica c'è il risvolto politico (mai assente in Pessoa): «In politica: monarchia scientifica antitradizionalista e antiereditaria, assolu- . tamente spontanea per la comparsa sempre imprevista del Re-Media. Relegazione del Popolo al suo ruolo scientificamente naturale di mero fissatore degli impulsi del momento». È sempre l'ultimatum di Campos, che non riesco a vedere come un incidente di percorso ma, caso mai, come il «testo letterario più intelligente prodotto nel periodo della Grande Guerra», secondo l'opinione di Charles Search (o Thomas Crosse?), eteronimo traduttore delle opere di Campos in lingua inglese. S empre di nuovo mi sento risospinto verso Canetti: il modello paranoico sembra insufficiente all'analisi; potrebbe esserci un potere schizofrenico? Ora, questo è proprio uno dei punti lasciati in sospeso da Massa e potere. Canetti descrive la schizofrenia in un paragrafo ('Negativismo e schizofrenia') del capitolo «Der Befehl» (Il Comando), perché vede nei processi schizofrenici tentativi maldestri di liberarsi dalle 'spine'. Spina è, nel linguaggio di Canetti, ciò che avviene quando eseguiamo un ordine: esso non è tanto 'interiorizzato' da noi, come si dice, quanto piuttosto 'incarnato' nel senso letterale che ci si infligge nella carne, restandovi miniaturizzato quanto inalterato. Una spina, insomma. Per chi è sovraccarico di spine, diventa vitale non udire e non eseguire più alcun comando. Ma se diventa impossibile non udire e non comprendere il comando, assisteremo a quei comportamenti che gli psichiatri definiscono 'negativismo' e che sono determinanti nei processi schizofrenici. Chi riceve il comando trova un modo disperato per eluderlo, «facendo esattamente il contrario di ciò che gli ordinano,.: «Se gli si dirà di andare avanti, egli tornerà indietro; se gli si ordinerà di tornare indietro, andrà avanti. Non si può dire che così egli sia libero dal comando. La sua è una reazione inetta, impotente ... » L'isolamento è il tratto comune degli schizofrenici, quindi la rigidità, l'essere come statue. Ma improvvisamente la statua si anima, mostra un'influenzabilità fantastica. Gli ordini vengono eseguiti «con tale rapidità e perfezione da far pensare che chi ha chiesto loro di agire così sia penetrato in essi e agisca al loro posto,.. Ora, la spiegazione decisiva di un comportamento così assurdo, Canetti la trova nelle immagini stesse che popolano il delirio schizofrenico. Tutti sanno che gli schizofrenici sono quelli che «odono le voci,.; Canetti parla di una donna che crede di «avere tutti gli uomini nel suo corpo,., di un'altra che sente «parlare le za.nzare,., di un uomo che ascolta «settecentoventinovemila ragazze», di uno che sente «le voci sussurranti dell'intera umanità,.. E spiega tutto ciò vedendo lo schizofrenico come «frammento spezzato della massa». Ciò accade perché lo schizofrenico, così carico di spine da sembrare un cactus, e avendo bisogno più di chiunque altro di immergersi in una massa per liberarsi da limiti, distanze, obblighi, finisce per creare una massa illusoria dentro di sé: «Non potendo trovare la massa fuori di sé egli vi si abbandona entro di sé~. Perciò «nelle immagini degli schizofrenici compaiono - sotto molteplici aspetti - tutti i tipi possibili di massa: si potrebbe perfino incominciare da qui un esame della massa». Si potrebbe. E sarebbe interessante - dopo che la schizofrenia è 'passata di moda' insieme agli (av, anti) psichiatri. Si potrebbe restituire la parola a chi davvero se ne intende di questi 'miti' che sono le 'malattie mentali', o perfino di questo mito che è la massa stessa. Ecco perché non si tratta di psichiatrizzare Pessoa, ma di mettere caso mai in rapporto la sua schizofrenia artisticamente dominata con la paranoia artisticamente analizzata da un Canetti ... finché i professionisti della lettura ci lasciano il tempo di chiederci, per esempio, per quale strana coincidenza Pessoa scriva: «De onde è que estiio olhando para mim?/ Que coisas incapazes de olhar estiio olhando para mim?/ Quem espreita de tudo?/ As arestas fitam-meJ Sensaçao de ser sò a minha espinha./ As espadas» (Da dove mi stanno guardando?/ Quali cose incapaci di guardare mi stanno guardando?/ Chi spia da tutto?/ Gli spigoli mi fissano./ Sensazione di essere solo la mia spina./ Le spade). Del resto i matti non mancano nella 'galassia eteronimica', come la c.hiama Antonio Tabucchi nel saggio introduttivo: Bariio de Tei-. ve, Antonio Mora, filosofo neopagano «paranoico con psiconevrosi intercorrenti». Alberto Caeiro no, non è folle ma tubercolotico, e passa la vita ritirato in campagna. In fin dei conti Pessoa gioca con la follia come forse mai si era fatto e un po' al di là di Rimbaud, ma anche di Duchamp, perché finalmente qui non si tratta di spiazzare l'oggetto, l'opera, la poetica, ma ciò che nella nostra tradizione non è mai veramente risultato spiazzato: l'Autore e il suo corpus. Canetti osserva che chi sa quanti nomi si potrebbero mettere al posto di ogni nome della storia; e non è lo stesso per gli autori? Ma, come scrive Soares, «sempre, disconoscendo noi stessi e gli altri, e proprio per questo intendendoci allegramente, passiamo nelle volute del ballo o nelle chiacchierate dell'ozio umano ... ».

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