Alfabeta - anno V - n. 46 - marzo 1983

R ecenti vicende giudiziarie, con l'avallo di autorevoli esponenti della sinistra, hanno avviato un processo di beatificazione della classe operaia organizzata, a cui se ne contrappone un altro di demonizzazione nei confronti dello spontaneismo violento e lazzarone. Giorgio Amendola, commentando i 61 licenziamenti della Fiat, osservò: «L'errore iniziale compiuto dal sindacato è stato quello di non denunciare immediatamente il primo atto di violenza teppistica compiuto in fabbrica ... È merito del movimento operaio italiano di aver combattuto le forme spontanee di plebeismo e di aver cercato lo scontro di classe su un terreno di conflitto organizzato,.•. Nelle pagine che concludono l'istruttoria del processo contro Autonomia operaia si legge: «I fautori e i responsabili della violenza politica, in tutte le gradazioni in cui essa si esplica, hanno perso contatto non soltanto con la realtà della lotta di classe, ma con l'inalienabile patrimonio ideale e politico del popolo italiano, con la coscienza delle grandi masse proletarie, ed appartengono ad una schiera di nemici dei lavoratori e della democrazia,.. A questa artificiosa contrapposizione, tra classe operaia disciplinata e leale e classe operaia ribelle e sleale, va opposta una corretta analisi storica delle lotte operaie, dalla nascita della nostra democrazia ai giorni nostri, per due ordini di motivi: in primo luogo, perché all'ombra di questa apologia della lealtà operaia sono state consumate e sono in corso imponenti epurazioni in fabbrica e nella società; in secondo luogo, perché una precisa raccolta e catalogazione degli sleali comportamenti che gli operai devono quotidianamente opporre al padrone consentono una originale ricostruzione della storia della nostra civiltà. Questa ricostruzione, attraverso l'individuazione della continuità esistente tra momenti di resistenza informale, atti di ribellione spontanea e lotte organizzate', dovrebbe essere in grado di dimostrare l'assurdità della contrapposizione tra operai dolci e operai lazzaroni, tra razionalità delle lotte organizzate e irrazionalità delle lotte spontanee. Esistono nella prassi quotidiana in fabbrica dei comportamenti operai che sono vere e proprie dichiarazioni di misura o contrattazioni informali o segnali verso nuovi livelli normativi e salariali. La lunga lotta contro il taglio dei tempi e le autolimitazioni della produzione indicano quanti di questi comportamenti costituiscono preparazioni soggettivamente formative di ampie e articolate controversie sindacali. Giustamente è stato osservato che le norme, che formalmente fissano un equilibrio di forze all'interno della fabbrica, costituiscono la zona sismica del diritto. La prassi aziendale insegna che - una volta conclusasi - una tregua residua sempre una zona d'ombra, all'interno della quale l'imprenditore cerca di recuperare le concessioni fatte e i lavoratori tentano, con nuove pratiche informali, di preparare il terreno per assetti di potere a loro più favorevoli. Queste elementari forme di opposizione operaia sono state spesso bollate, nella storia sindacale, come espressione di spontaneismo privo di prospettive e di luce politica. Riconosce Foa: «Abbiamo spesso definito spontanee, prive di organizzazione (e quindi di continuità) e politicamente cieche, lotte dentro le quali i nostri occhi affaticati dalla routine professionale di sindacalisti, di politici, di storiografi non hanno saputo distinguere gli strumenti, sia pure informali, di organizzazione, le analisi di situae e p o~ste politi AJ:,- lottedifabbrica neldopoguerra biamo scambiato per esplosioni improvvise di rivolta quelle che erano prodotte da un'accumulazione lenta, giorno per giorno, di elementi di resistenza, attraverso la percezione e l'intelligenza dei rapporti in atto»'. Agli interessati beatificatori della classe operaia va dunque data una risposta pacata, prudente e approfondita, che non si risolva in una generica apologia della violenza operaia, vista come sempre giusta e santa. Abbiamo quindi tracciato un itinerario di ricerca che va dalla caduta del fascismo alle lotte ai cancelli della Fiat nell'autunno 1980. A bbiamo preso questi appunti per una prima puntata della ricerca tra i mille fatti del dopoguerra: le lotte per il pane, contro il mercato nero, contro il ritorno dei fascisti in fabbrica e nelle istituzioni, contro la disoccupazione. Lotte aspre - che videro spesso il ritorno in scena delle armi, - ma anche lotte ingenue, mal gestite e che sfociarono in gran parte in scpnfitte talvolta clamorose. E non certo per responsabilità del plebeismo anarchico e dello spontaneismo irrazionale: quegli anni videro il massimo di disciplina, di senso di sacrificio e di lealtà da parte della classe operaia e di tutti i ceti oppressi e subalterni (ciò comportò anche un inaridimento delle prassi di opposizione informale all'interno della fabbrica). È noto che la Cgil, sindacato unico, autolimitò in partenza le possibilità di un'azione volta a incidere su tempi, modi e contenuti della ricostruzione del potere di comando del capitale sulla società e sul lavoro, puntando invece a svolgere una difficile funzione di contenimento e di regolazione delle lotte operaie'. Affermò Di Vittorio nel luglio 1945: «Si nota, qua e là, anche fra i lavoratori, qualche eccesso, sia per il contenuto di Antonio Bevere ciascuna rivendicazione, sia per le forme con le quali si tenta di farle accettare. Noi vogliamo eliminare questi eccessi. E vogliamo farlo rawivando nelle masse lavoratrici la coscienza del dovere che ad esse impone di armonizzare la difesa e la conquista delle loro legittime rivendicazioni con gli interessi generali del paese e con gli obiettivi generali che le masse si propongono di raggiungere»'. L'ideologia del lavoro, i miti dell'efficientismo aziendale e produttivistico, la neutralità del ruolo dei tecnici (Togliatti reclamò a gran voce il ritorno in fabbrica dei tecnici «epurati») furono posti a base della strategia delle organizzazioni storiche della sinistra. Dalla Russia venne importato il mito di Stakhanov, perforatore delle miniere di carbone del Donez, esaltato dalla stampa del Pci perché aveva aumentato la produttività del lavoro di 5-6 volte. Alla Fiat, nel settembre 1945, fu promossa dal Cln di azienda e dalle commissioni interne una gara di emulazione tra le sezioni e tra i reparti di stabilimento per incrementare la produzione (l'incremento oscillò tra il 43 e il 100 per cento)'. L'aumento della produttività costitul una delle mete più agognate dai sindacalisti in quegli anni, tanto che anche per tale obiettivo Di Vittorio e Lizzadri auspicarono, nel corso del direttivo Cgil del luglio 1946, di nutrire meglio gli operai:'«Questo problema della scarsa produttività credo che si possa prima di tutto eliminare dando da mangiare di più agli operai. Son stato fra i minatori della Monte Amiata e ho appreso dalla loro viva voce che mangiano solo 200grammi di pane durante il lavoro e 200 per cena. Come si può avere il coraggio di chiedere superiori sacrifici a questa gente?»' È facilmente documentabile che questo coraggio fu trovato in tutti gli anni immediatamente successivi alla Liberazione, e che i lavoratori italiani, in attesa della vittoria elettorale e/o fidando nella doppia linea del Pci (che mantenne per alcuni anni la sua struttura armata clandestina)', accettarono terribili sacrifici. Erano comunque tempi difficili: una massa immensa di disoccupati premeva su strutture produttive in fase di riorganizzazione; all'antagonismo tra le classisi aggiungeva, sul piano delle tensioni sociali, il profondo rancore che gran parte della popolazione settentrionale nutriva contro i responsabili delle vessazioni e delle atrocità del periodo fascista; la guerra di liberazione aveva lasciatouna visibileeredità, sul piano delle armi e della propensione alla violenza, che rendeva ancora più precario il mantenimento dell'ordine pubblico. La presenza delle truppe americane nel paese e i pesanti condizionamenti degli accordi tra le grandi potenze erano sicuramente in grado di ribaltare a danno delle sinistre un uso irresponsabile e cieco delle violente spinte al rinnovamento radicale provenienti da gran parte della classe operaia, dai reduci, dai partigiani, dai disoccupati. Ma - suggerisce Quazza - occorre ancora accertare se tra rivoluzione e cedimento non ci fosse stata un'altra politica che poteva consentire di far maturare quella spinta dal basso di cui la Resistenza era figlia e portatrice, e di attribuire alla classe operaia quel ruolo di protagonista che restò nelle mani delle vecchie forze conservatrici'. F urono comunque frequenti - sia pure in un quadro di disciplina e sacrifici - gli atti di aperta ribellione degli operai alle pesanti condizioni di vita imposte dal rinascente capitalismo italiano. Le numerose occupazioni di fabbrica effettuate durante le agitazioni per miglioramenti salariali e per le epurazioni dei fascisti furono spesso giustificate dai sindacalisti come misure a tutela dell'ordine pubblico, in quanto comportavano la permanenza degli operai all'interno dei cancelli e quindi una maggiore controllabilità di questi. A Torino, nel luglio 1946, gli operai costrinsero il sindacato a una lotta di tre giorni - invece delle poche ore di sciopero programmate - dopo che l'Unione industriali, alla richiesta del pagamento di un premio di Liberazione, aveva risposto con un invito agli associati «di versare 1.000 lire, non obbligatorie, come prestito da restituirsi scalarmente sulla paga». Mentre i dirigenti affidavano a un comitato la definizione delle formalità dell'azione di protesta, «in non poche fabbriche il fermento era già giunto a tal punto che la semplice dichiarazione di sciopero venne interpretata come un vero e proprio ordine di battaglia. Vi fu chi volle eccedere e tentò l'occupazione materiale degli stabilimenti, degli uffici, dei centralini telefonici, con la costituzione di presidi agli ingressi delle fabbriche». Sui livellidi legalità della lotta vi sono diverse opinioni. n settimanale della Camera del lavoro scrisse: «Braccia incrociate, massima calma. Nessuna occupazione delle fabbriche. Nessun atto di violenza. Il rimanere nelle fabbriche inoperosi è un diritto che i lavoratori hanno acquistato nelle giornate insurrezionali... Inoltre, rimanere nelle officine è anche soprattutto una garanzia non trascurabile per l'ordine pùbblico». La Confindustria, dal canto suo, chiese lo sgombero delle fabbriche evidentemente occupate, in cui erano state notate squadre armate••. Le lotte contro il carovita e contro il mercato nero impegnarono molte delle energie della classe operaia, che ricevette naturalmente il frequente appoggio di una popolazione esasperata dalla fame e dalla speculazione. Ad esempio, nel settembre 1946circa diecimila donne si recarono dal prefetto per ottenere immediati provvedimenti sui prezzi dei generi alimentari; alcuni gruppi invasero gli uffici e sequestrarono il prefetto, minacciando di gettarlo dalla finestra. Le forze di polizia furono fatte allontanare e le -dirigenti dell'Udi riuscirono a incanalare la rabbia delle manifestanti in un corteo alla Camera del lavoro. Questa manifestazione sediziosa non mancò di avere effetti: il prefetto dispose un calmiere sui prezzi e l'istituzione di magazzini annonari". L'odio contro i fascisti, il timore di un loro ritorno sui posti di lavoro, il dispetto e la rabbia per il fallimento dell'epurazione, scatenarono piccole e grandi ribellioni in fabbrica. Foa sottolinea molto bene il carattere non astratto, non retorico, ma corposo e denso di significato politico di questo antifascismo popolare. Nella concreta esperienza proletaria, il fascismo era stato sfruttamento e arbitrio, e i bisogni elementari del dopoguerra - con la fame, il freddo, l'insicurezza per il futuro, - erano fatti direttamente risalire alla guerra e al regime che l'aveva voluta. La stessa resistenza alla liquidazione dell'epurazione era una difesa disperata della maggiore libertà che si viveva in fabbrica e una strenua opposizione al ritorno dei portatori dei sistemi persecutori e vessatori vissuti nel passato regime. ln fabbrica, negli anni successivi alla Liberazione, furono frequentissime le fermate spontanee per opporsi al ritorno degli «indesiderabili» o all'erogazione degli stipendi e degli arretrati agli allontanati, oppure per protestare contro la scarcerazione di qualche criminale fascista 12 • Nel novembre 1947, a Milano, il ritorno massiccio alla lotta antifa-

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==