Alfabeta - anno V - n. 46 - marzo 1983

Richard Collier La malattia che atterrì il mondo Milano, Mursia, 1980 pp. '307, lire 12.000 William Mc Neill La peste nella storia Torino, Einaudi, 1982 pp. 282, lire 24.000 Lorenzo Del Panta Le epidemie nella storia demografica italiana (secoli XIV-XIX) Torino, Loescher, 1980 pp. 248, lire 10.000 Escoffier-Lainbiotte «Cancer, progrès thérapeutiques et psychologie,. in Le Monde de la médecine 17 dicembre 1980 Escoffier-Lambiotte «Un siècle de tubercuJose,. in Le Monde de la médecine 24 marzo 1982 Paolo Vineis «Le mal du siècle,. in Alfabeta n. 44 gennaio 1983 Alberto Magnaghi «La lettera diceva» in Alfabeta n. 45 febbraio 1983 L a riduzione della malattia a manifestazione morbosa «individuale» è una acquisizione recente della coscienza sociale. I secoli passati distinguevano invece malattia da malattia e, se ad alcune conferivano carattere «individuale,. e apporti psicologici scarsi, nei confronti di altre erano soliti riconoscere una presenza «collettiva,. e dare vita a forme rilevantissivarieepidemie me di drammatizzazione sociale1 Quella che segue è la descrizione di questa trasformazione, realizzata dapprima attraverso l'avvicinamento della malattia epideniica alla malattia «individuale» 1e successivamente attraverso il p~- saggio dalla malattia individuale «psicologizzata» a una nella quale questa caratteristica è quasi del tutto assente. Le «grandi» epidemie hanno avuto non soltanto una notevole importanza nei confronti della economia, dell'andamento demografico e della evoluzione dei ~- stumi, ma sono state nel passato vissute come eventi «collettivi», vale a dire come accadimenti che non interessavano soltanto i colpiti dal morbo, ma la società tutta intera. Questo coinvolgimento sociale non operava soltanto sul piano igienico-sanitario (fatto che si verifica ancora oggi), ma anche su quello psicologico. Le tensioni che esse erano solite innescare nell'immaginario collettivo erano cosi profonde che alcuni sono stati indotti ad assimilarle alle rivoluzioni. Le epidemie provocavano la Paura, «una paura c~e gli storici non menzionano mai, ma che certamente fu estesa al(o stesso modo della Grande, UJla paura che, per riprendere il termine del fabulisme, era terrore» (Baehrel). Fu questa stessa paura collettiva che portò a vedere nelle grandi epidemie («grandi» per la loro efficienza omicida) un fatto dovuto alla azione di uno o più gruppi, che agivano come «nemici interni» e che solo un grande sforzo collettivo era in grado di individuare e mettere in condizioni di non nuocere. Poche furono, sotto questo aspetto, le grandi epidemie che non videro la identificazione, Romano Canosa, Isabella Colonnello la condanna e il supplizio degli «untori». Questa «personificazione del minaccioso» a fini esorcizzatori non fu propria soltanto del Medioevo, ma continuò nei tempi successivi, fino a tutto l'Ottocento. Le ricorrenti manifestazioni del colera, ad esempio, furono accompagnate per tutto il secolo dalla ricerca dei suoi «spargitori» e a volte dettero luogo a sequele di assassini. Valga per tutti l'esempio della Sicilia nel 1837, quando la paura del contagio e la ricerca degli «spargitori di polveri» innescò una situazione di tensione sociale acutissima (alla quale non furono estranei dei veri e propri conflitti di classe), culminata in una serie di eccidi. La «paura» era destinata a durare anche nella seconda metà del secolo se, nel corso di una delle ricorrenti comparse della stessa malattia nel Var (Francia, 1884), il fatto - che a noi sembra ovvio - che la mortalità cadesse soprattutto sui coltivatori poveri e sugli operai denutriti, ebbe a cagionare nuovamente la diffusione di voci secondo le quali il colera era una malattia inventata dai ricchi per far morire la «povera gente» e, a tal fine, erano state avvelenate le fontane ed erano stati addirittura lanciati dei razzi porta-malattia (Patritti). S oltanto nel nostro secolo la «causalità colpevolizzante» tende a limitarsi alle calamità di ordine politico, economico, ecc., e cessa di comprendere anche le catastrofi sanitarie, telluriche, ecc. (Bouthoul). Solo da questo momento in avanti, per quanto concerne anche le epidemie a mortalità estesa, non si assiste più alla ricerca di capri espiatori. L'immaginario collettivo cessa di manifestarsi con la virulenta passione del passato, e la causalità «scientifica»prende definitivamente il posto della imputazione psicologica. La «paura» del canto suo continua, ovviamente, a esistere, ma non è più una grande paura collettivo-sociale. Il suo posto è preso da una rete di «piccole paure» individuali, residui della frantumazione borghese della grande paura originaria: esse d'ora in avanti non potranno essere gestite che a livello individuale, come individuale è lo scambio che predomina nella società e individuali le passioni che vi si producono. L'epidemia di febbre influenzale detta «spagnola» alla fine del 1918 costituisce l'espressione di questo nuovo modello di epidemia. (Mc Neill vede in essa uno dei primi esempi di epidemia diversa da quelle tradizionali, anche quanto a contenuto, modo di operare, rapporti con l'ambiente circostante, ecc.). In questa epidemia, durata circa cento giorni (dall'ottobre 1918 al gennaio 1919), i malati infieriscono più su se stessi che su immaginari capri espiatori, anche a causa del virus che molto spesso attacca il sistema nervoso. Suicidi, violenze su di sé e sugli altri sono fatti che avvengono con incredibile frequenza. In un ospedale di Liverpool, ad esempio, gli infermieri devono impegnare tutte le loro forze per tenere a bada alcuni soldati deliranti che hanno attaccato dei rasoi ai manici di scopa con i quali vogliono andare a combattere. A Parigi, dove le forze dell'ordine sono decimate dalla «spagnola», si fa ricorso ai volontari per sorvegliare le sponde della Senna dove confluiscono gli aspiranti al suicidio, ma persino i volontari stessi, attaccati dal male, vi si buttano dentro. La malattia procura squilibri con violenti attacchi allucinatori molto simili a quelli causati da droghe. I malati spesso si conside0 rana colpevoli dei peggiori misfatti mentre vengono attaccati e oppressi dagli incubi. Raramente le allucinazioni sono liberatorie - come nel caso di un giornalista americano ricoverato a Padova che, delirando, vede Dio con ai piedi la madonna impersonata da sua moglie che lo rassicurano sulla sua sopravvivenza! Alla figura dell' «untore» si sostituisce una debole vena di superstizione più diffusa in Oriente e fra le popolazioni di colore, dove la pandemia lascia le tracce più pesanti (sembra infatti, secondo Collier, che l'India, il Madagascar, il Messico, l'Africa, la Nuova Zelanda, il Guatemala, le Indie Orientali olandesi, il Cile e l'Italia siano state, nell'ordine, i paesi che ebbero il più alto tasso di mortalità). Nelle campagne giapponesi i contadini cercano di esorcizzare il male scrivendo sulle loro porte: «Non c'è nessuno in casa». In Cina per spaventare e allontanare lo «spirito del male» inscenano feste con palloncini colorati e scoppi di mortaretti, mentre nel Tibet tengono svegli gli ammalati con il suono di cimbali e tamburi per non farli dormire troppo, affinché il male non si impossessi di loro, vedendoli all'erta. Nei villaggi indiani la gente si adopera per creare una immagine desolata dell'ambiente al fine di «impietosire» il male e· indurlo ad astenersi dall'entrare in luoghi cosi poveri. A questa personificazione del male in Oriente fa riscontro altret-

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