Alfabeta - anno V - n. 46 - marzo 1983

soggetto, ma non fa che riprodurne la stessa fine. 11politico non tram~llita per, ma con, il soggetto. E quanto in complesso - ma con accentuazioni anche sensibilmente differenziate - emerge dalla lettura del volume Le rovine del senso. Molti i contributi stimolanti e significativi, da quello di Rovatti a quello di Ferraris, a quello di Fabbri. L'intervento che vorrei qui focalizzare è però quello di Baudrillard. Qui la rovina del senso è ormai l'antefatto scontato: rispetto al quale resta appena da definire la modalità - incantata o disincantata, «passionale» o «ascetica» (come spiega P. Meneghetti nella sua relazione) - della sua assunzione. In ogni caso la «freddezza» che 'asciuga' la stessa «passione» riduce il significato della distinzione; o, più precisamente, lo consegna allo statuto costitutivamente ambivalente di una «contemplazione estatica» che traduce l'evento della perdita (del senso) in una positività «non mediale», aperta al ritorno infinito della Seduzione. È proprio quest'ultima, infatti, spogliata di qualsiasi potenziale miticoproduttivo, a liberare l'oggetto in una sorta di «purezza» iperreale, di «forza vuota», in grado di manifestarne l'assoluta sovranità. D'altra parte la progressiva, e ormai definitiva, elisione della barra differenziale tra simulazione e Seduzione, implosione e Scambio, accettazione e Sfida, costituisce da tempo la direzione estremamente coerente dell'intero discorso di Baudrillard. Da questo punto di vista, allora, la ricerca che più di ogni altra sembra rispondere in positivo alle sollecitazioni baudrillardiane è quella di Mario Perniola. Proprio dal suo recente Dopo Heidegger, infatti, che sviluppa - in modo forse un po' «bloccato», a sistema chiuso, - le suggestive intuizioni presenti nel suo precedente lavoro La società dei simulacri (Bologna, Cappelli, 1980), emerge una linea di discorso sempre più nettamente definita in termini propositivi. Non è possibile in questa sede seguire l'analisi che Perniola dedica alla trasformazione dissolutiva del rapporto tra filososia e organizzazione della cultura nel passaggio dalla fase «dialettico-statale» a quella «nichilistico-populistica». Ma l'acquisizione più significativa che ne risulta è che la rottura degenerativa oggi pienamente affermata non è che il compimento visibile di una premessa già profondamente radicata nell'ordine precedente. Proprio nell'immediatezza con cui è usato lo schema (per altro fruttuoso) della secolarizzazione risiede quell'eccesso di linearità di cui si diceva. Ma anche la molla per un rovesciamento positivo, affermativo, altrettanto diretto: ciò che Perniola chiede al nuovo operatore culturale è non solo l'abbandono di qualsiasi nostalgia del Senso, ma l'assunzione radicale, «ipercinica», della sua scomparsa; che va riconosciuta, tematizzata, praticata in quanto tale. Questo taglia fuori dal suo progetto l'intero versante 'alternativo-negativo', 'tragico', della cultura europea, e lo indirizza «verso ciò che è, ed è sempre stato, più derivato, più ripetuto, più ibrido» (p. 77). È solo in questo «pensiero-cosa» o «cosa-pensiero» - storicamente realizzato nel «rito senza rito» della Roma preciassica, nel- ! 'indifferenza gesuitica del cattolicesimo barocco, nella contaminazione sincretistica dell'Europa ultraeuropea - che è possibile ritrovare il germe di un «pensiero effettivo, di un'effettività pensante» (p. 78). Soprattutto il riferimento ignaziano riprende il filo del capitolo fo~ p~ originale e felice della Società dei simulacri, «L'essereper-la-morte e il simulacro della morte». In esso è ricostruito il carattere intrinsecamente simulatorio (copia di copia, copia senza originale) e, dunque, eminentemente antirappresentativo del cattolicesimo controriformistico. Vale la pena di segnalare come proprio su questo punto l'analisi di Perniola diverga radicalmente da quella consegnata allo splendido frammento di Schmitt Romischer Katholizismus und politische Form (1923), discusso da G. Duso («Tirannia dei valori e forma politica in C. Schmitt», nel Centauro n. 2, 1981). Il presupposto comune è la opposizione del cattolicesimo alla ragione produttiva del cristianesimo riformato. Se il calvinismo è il vestibolo teologico del produttivo capitalistico, il cattolicesimo romano «è, in senso eminente, politico, a differenza di codesta assoluta oggettività economica» (op. cit., ed. Miinchen 1925, p. 22). Ma proprio sulla natura politica del cattolicesimo le due interpretazioni si spaccano. Mentre per Perniola essa è assoluta «simulazione», e cioè assenza di ogni referente retrostante, per Schmitt significa «rappresentazione» di «qualcosa di preesistente, trascendente». Che questo qualcosa non sia altro che «idea» («al politico appartiene l'idea»), nulla toglie della sua potenza determinativa: «Ma essa (la Chiesa cattolica) possiede la forza ( ... ) solo perché possiede la potenza della rappresentazione» (p. 26). Non è facile entrare nel merito della pertinenza storico-concettuale: sta di fatto che la divergenza interpretativa ha una decisiva conseguenza sul piano teorico. Una volta contratto il politico nell'orizzonte della tradizione cattolica, e una volta schiacciata quest'ultima sull'asse simulazione-simulacro, non resta che accettarne-organizzarne il dispiegamento implosivo. • Qui massima intensificazione iperreale coincide con massimo svuotamento reale. Politicizzazione con neutralizzazione. Denuncia critica con mimesi affermativa. Al simulacro della politica va opposta una politica del simulacro che ne faccia propri, e sviluppi, tutti gli aspetti più degradati, manipolatori, 'gesuitici' appunto. Legato al destino del senso, il politico sperimenta così un'effimera liberazione: può essere finalmente ciò che è sempre stato, e cioè nulla più della sua effettiva apparenza. Il problema è risolto con un semplice rovesciamento di guanto: ma è vera risoluzione o resa incondizionata al suo inalterato spessore? S immetricamente opposto all'intervento di Baudrillard è quello - altrettanto significativo - di Luhmann. I loro discorsi no già stati altre volte accostati (si veda per tutti C. Formenti, «Bit-game», in Alfabeto n. 13, 1980), nonostante sensibili distonie categoriali, linguistiche, stilistiche. Tengo fermo il raffronto. Più che di semplice analogia si tratta di vero e proprio incastro: i due 'sistemi' aderiscono l'uno all'altro come interno ed esterno, sfondo e superficie, dritto e rovescio. Non penso solo alla irrilevanza che entrambi assegnano alla variabile soggettiva e al conseguente rifiuto del suo arcaico apparato concettuale. E neanche ad alcuni motivi paralleli, come quello della desensibilizzazione del cittadino indotta dal processo di complessificazione del diritto, o quello - ormai canonico - della ritualità fantasmatica del momento partecipativo. Quanto, più precipuamente, al gioco di sdoppiamento o autoriflessione individuato da Luhmann come l'unico meccanismo in grado di moltiplicare la risorsa scarsa del potere e degli altri codici simbolici parsonsiani necessari alla tenuta evolutiva delle società complesse. Ma anche quest'ultimo punto non è che l'indicatore esterno di una più intensa convergenza di fondo: che è relativa alla comune trasposizione di precarietà e contingenza - la possibilità della crisi ( ma anche della catastrofe) - da elementi eccezionali a elementi strutturali del sistema. Proprio su questo scatta la divergenza - anche qui speculare - del punto di vista con cui è guardata la possibilità critica, esplosiva o implosiva che sia: da Baudrillard come evento da assecondare, da Luhmann come da scongiurare o ritardare. A questa opposizione incatenata si lega la diversa risposta data al problema del simbolico e a quello del senso. Se il simbolico è considerato da Luhmann, anziché in via di estinzione, in fase di proliferazione proporzionale ali'esigenza di differenziazione funzionale del codice comunicativo dei nostri sistemi sociali, anche il senso sopravvive in qualche modo alla sua stessa fine. Sarebbe troppo lungo anche accennare alla articolata relazione che Luhmann istituisce tra esperire vivente, agire, e rappresentazione linguistica. Ne risulta in ogni caso una 'resistenza' del senso, determinata non solo in positivo attraverso il concetto di selezione (che, stabilendo confini e identità, rappresenta in certo modo il rovescio di quello baudrillardiano di simulazione come equivalenza-indifferenza), ma anche in negativo attraverso il motivo - è il tema dell'intervento in Le rovine del senso - del senso del non senso. Ciò significa che il senso non si manifesta solo nelle alternative positive, ma anche in quelle storicamente irrealizzate. Ma - e torniamo all'asse generale di ragionamento - come questo si riflette sul problema del politico? Anche qui permane il rapporto: ma, ancora una volta, simmetricamente rovesciato rispetto alla soluzione di Baudrillard. Il politico finisce, deve finire, non per 'riflesso condizionato' della morte del senso, ma proprio per proteggere la possibilità sistemica della sua durata. In altre parole: il meccanismo di riduzione della complessità ambientale relativa, e cioè la selezione in cui consiste il processo di conservazione-produzione di senso, è reso possibile solo dalla spoliticizzazione del conflitto. Ciò - come è spiegato in Konfliktpotentiale in sozialen Systemen ( ora tradotto nella raccolta antologica Potere e codice politico) - non significa affatto una soppressione dei conflitti che, in quanto essi stessi sistemi, vengono anzi dichiarati necessari alla differenziazione sistemica, ma «solo a patto che, tà della contraddizione) dalla razionalità centrata di tipo weberiano alla pluralità dei suoi segmenti o sottosistemi produttivi, come appunto quello politico. Ma proprio questo è il punto cieco dell'intera teoria. Può essere produttivo un sottosistema politico,-rigidamente sottratto all'intreccio con gli altri sottosistemi, e agli effetti innovativo-conflittuali in esso impliciti? È curioso che l'approdo schmittiano circa la predicata 'autonomia' del sottosistema politico passi proprio per la richiesta di quella neutralizzazione intesa da Schmitt come il maggior pericolo del mondo contemporaneo. R iprendiamo il discorso iniziale. Le contraddizioni di Baudrillard (meglio: del baudrillardismo) e di Luhmann ripropongono l'interrogativo di partenza sulla legittimità di derivare linearmente - nel primo caso in maniera diretta, nel secondo inversa - il destino del politico da quello del senso. Ci si è richiamati alle nozioni machiavelliane di origine e di esistenza come irriducibili all'intentio progressiva del Senso. Ma è fin troppo evidente che esse - la loro specifica 'ulteriorità' - non possono essere immediatamente trasferite, proiettate, nel nostro spazio concettuale. Il 'dopo' del Senso non può essere in nessun modo riportato al 'prima'. Credo tuttavia che il riferimento non debba essere lasciato del tutto cadere. Della necessità- ma anche del rischio - di questo rapporto con il tema delle origini (I'esistenza originaria), l'esperienza teorica di C. Schmitt è altamente emblematica, e perciò tutt'altro che ripercorribile in positivo. Proprio quando alcune categorie ermeneutiche si dimostrano esaurite, compiute, per Schmitt si apre uno spazio di pensiero per l'origine. Questo egli intende per pensare dassicamente il politico. Ma 'classico' non vuol dire, per lo stesso Schmitt, riproposizione di una veduta organicistico-ricompositiva del politico, propria di una tradizione reazionaria da cui egli consapevolmente si distacca - non vuol dire impossibile risalita all'indietro, revoca, dei grandi processi di secolarizzazione modernizzante che hanno caratterizzato il mondo contemporaneo, - ma individuazione all'interno dello stesso segmento secolarizzante di potenti nuclei teologici ancora reciprocamente confliggenti. È appunto la considerazione di questa radicale incompiutezza ad aprire a un ritorno problematico sull'origine-esistenza. È subito chiaro - proprio a partire dall'errore, dal 'tradimento' di Schmitt nei confronti delle sue stesse categorie - che in questo caso origine non può significare 'Fondamento'. È proprio l'origine-fondamento, infatti, a immettere il politico nel calco cristallizzato del Senso. Se l'origine fonda il processo, il processo deve realizzare l'origine, verificarne-compierne il telos. Su ciò che possa emergere dalla rottura di questo nesso, su ciò che possa significare, anche per il poli- .,, tico, il riferimento a un'origine che ··•-"="""'--.-., non sia insieme Fondamento, il dinel contempo, esista anche una garanzia contro eventuali situazioni indesiderate, che potrebbero emergere, nel processo interattivo, quali conseguenze della negazione» (pp. 170-71). Questa esclusione del discontinuo 'forte', dell'antagonismo morfologico (come osserva G. Marramao in «Il 'possibile logicum' come frontiera del sistema», nel Centauro n. 1, 1981), non è un limite di ragionamento di Luhmann - la tesi di Lyotard - quanto il suo esito massimamente conseguente: relativo allo spostamento della acontraddittorietà (dell'impossibiliscorso non può che restare aperto, altamente indeterminato. Come anche sulla possibilità e il significato di un cominciamento diverso e opposto a Fondamento - inteso cioè non come chiusura e predeterminazione dell'esito, ma come massima apertura di possibili, inedito sviluppo di potenze inespresse, arricchimento di esperienza. Un'ipotesi, per ora, appena abbozzata, ma che ha al centro una domanda sul modo di adoperare, non-contro ma per la trasformazio- . ne politica, l'effetto liberatorio espresso dalla tendenza dissolutiva del Senso della Storia.

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