vita, dare a essa una risposta, possederne gli avvenimenti, dominarli, il racconto non è possibile, perché il senso della storia, ci dice Blanchot, «è perduto», né si può imporre un tempo e una scansione alla propria intimità e alla propria fantasia. Immagine di un ordito 'pieno', che non concede spazi bianchi, sospensioni o estravaganze, il racconto chiede di mettere in fila - senza crepe e senza vuoti - gli episodi di un'intera esistenza. Ma il ritmo della parola ha una sua fatalità: conosce tempi discontinui e segue regole soltanto affettive. I ricordi, infatti, tornano non richiesti; costringono il soggetto a interrogarsi («Chi ero io?»), a parlare in prima persona («lo vivevo soprattutto nelle città ... Devo confessarlo, ho letto molti libri»), a narrare non lo svolgersi dei fatti, ma l'accadere dei sentimenti («Non avevo sentito la mia vita spezzarsi? Sì, ciò era accaduto ... »). Il racconto prevede, per Blanchot, un movimento del linguaggio che non significa espressione ma solo prestito di sé, solo rendiconto: «Interrogavano la mia storia: Parla, ed essa si metteva al loro servizio. Mi spogliavo in fretta di me stesso. Distribuivo loro il sangue, la mia intimità, prestavo loro l'universo, li davo alla luce» (p. 31). Ma di fronte all'altro che ingiunge controlla e spia, il pensiero si immobilizza, il dire si avvolge su se stesso, si ripete, finisce col ri-dire: «Io non sono né sapiente né ignorante. Ho conosciuto gioie ... » Un altro autore si rifiuta al racconto e, anziché narrare, preferisce domandarsi come far vedere «fuori di sé» ciò che crea; come mostrare ciò che pensa, rivelando a chi legge perfino le tracce dei propri dubbi e le cancellazioni. È Edmond Jabès. Poeta ebraico di lingua francese, riconosciuto fin dagli anni sessanta come grande scrittore, è molto noto ormai. Ma forse non in Italia, dove gli intellettuali e gli accademici sono troppo preoccupati delle loro sorti universitarie. e i giornalisti hanno sempre troppo daffare per accorgersi che un poeta di tale spessore era qui tra noi. Felice del suo breve soggiorno fiorentino (è stato ospite di Foné), è già ripartito per Parigi e al pubblico (numeroso, certo) che l'ha ascoltato ha lasciato il ricordo della sua voce calda e grave, del suo sguardo luminoso, delle sue parole semplici e tuttavia profonde. Agli altri, è restato un libro: Le Liv re des Questions, presentato e tradotto in italiano solo oggi, grazie alle Bibli edizioni Elitropia, curate da Gianni Scalia. Il testo, uscito nel '63 presso Gallimard e subito consacrato dalla critica francese (tutti ricordano gli articoli di Jacques Derrida e Maurice Blanchot), è il _primo di sette volumi (pubblicati nel corso di un decennio), in cui il poeta dà inizio a un'interrogazione senza tregua sulla vita (sulla sua vita, perché «siamo condannati a .non parlare se non di noi stessi»), sulla scrittura, sulla parola. Una parola insostituibile («basta una nota falsa, una nota stonata perché l'edificio crolli»), che non sta al posto di nient'altro, perché è vita e non apparenza; una parola lacerata che trattiene l'invisibile e, dunque, non è soltanto pura visibilità, non è soltanto segno verbale destinato a scambiarsi: «Prima e dopo la parola c'è il segno I e nel segno il vuoto in cui cresciamo. I Così, in quanto ferita, solo il segno è visibile. I Ma l'occhio mente» (p. 93). «Non trascurare l'eco,. li libro delle interrogazioni ( così suona il titolo italiano) è una meditazione sul linguaggio e sulla scrittura molto singolare, perché imprime al pensiero il ritmo inconsueto della messinscena attraverso un ventaglio di voci. Con maggiore frequenza ricorrono quelle dei rabbini, che nella finzione poetica fungono da commentatori: avendo già avuto - al pari dell'autore - il presentimento del libro, essi possono esplicarlo e partecipare agli altri «le loro riflessioni di lettori privilegiati», quasi a indicare nel commento la luce e l'eco della parola che - come trascritta da una memoria comune - lega insieme chi la pronuncia e chi la interpreta o la legge. Accanto, incalza una folla di figure che annotano, chiosano, domandano. Nessun dialogo s'instaura tra loro («Non esistono, parlati o scritti, dialoghi tra persone»): ciascun personaggio parla come tra sé, risponde a se stesso, a un'interrogazione che è solo interiore. Il testo che ne vien fuori ci colpisce non solo per la profondità teorica, ma anche per la.sua tessitura: è una sorta di oratorio, ove l'autore scompare per lasciar posto alle parole «dal senso molteplice» in cui ciascuno, assieme a lui, si può ritrovare. L'opera procede per domande, che a volte si sgranano come a bassa voce (tra parentesi e in corsivo), a volte si snodano in forma di «colloquio intorno a un libro», o in forma di diatriba che gira in tondo, si avvolge e torna su se stessa approfondendosi, proprio come avviene in un maneggio di cavalli. «Il cammino della conoscenza è rotondo», ci avverte Jabès, e l'interrogazione - senza approdo a nessuna certezza - solleva controversie che non possono aver fine, perché in ogni «vocabolo» si accende e si rianima un nuovo dubbio, da cui germoglierà una nuova domanda. Da questa sorta di polifonia si alza un canto d'amore: il romanzo di Sarah e Yukel - un tragico idillio che inizialmente pare volersi situare a margine del libro e poi via via diviene il luogo in cui prende corpo e s'intreccia il coro di voci, fino a culminare nell'assolo di Sarah adolescente («A quattordici anni (... ) riuniva intorno a sé dei fanciulli ai quali insegnava ad usare le parole - a lasciarsi prendere dalle parole -; e narrava loro storie di luce e di ombra. L'ascoltavano, come si ascoltano monologare fino a sera i colori dell'universo»); nello splendido ritratto di Salomon Schwall che, «al termine della vita, rassegnato alla propria condizione di straniero», scoprì il cielo e morì «con gli occhi rivolti alla luce» (p. 175); in quell'altalena di toni così intensi e surreali che caratterizzano la follia («La casa della folle sonnecchia nella culla che mani di nutrice fanno dondolare. La casa della folle dondola tra gli alberi che le foglie nascondono»); e infine nell'incontro dei due amanti che, senza essersi né conosciuti né cercati, si ritrovano nella parola, nella scrittura, nel Libro: «Non ti ho cercato, Sarah. Ti cercavo ... E io leggevo in te, attraverso il tuo vestito e la tua pelle, attraverso la tua carne e il tuo sangue, leggevo, Sarah, che tu eri mia per tutte le parole della nostra lingua» (p. 191). Incontro che fa venire alla mente - quasi a volerci dire che il nascere della parola è come il risvegliarsi dell'amore - quel passo del libro di Geremia in cui la voce del Dio della Bibbia chiama a parlare e a scrivere: «La parola di Jahveh mi fu rivolta in questi termini: - Prima ch'io ti avessi formato nel seno di tua madre, io ti conoscevo» (I, 4). Il libro delle interrogazioni è «la presa di coscienza di un grido,.. Anch'essa, come La follia del giorno, è una storia senza svolgimento; anch'essa non si può raccontare. Chi narra è portato, infatti, a imporre la parola, a sostituirsi a essa, mentre scrivere è, per Jabès, lasciare che le parole prendano posto nel libro, interrogare i segni che sono «l'universo dei propri antenati», ascoltare le tracce del passato ancora incise nell'anima, che «si può paragonare ad una montagna di silenzio che la parola solleva» (p. 97). La scrittura è come se ridesse vita alla ferita: a una ferita senza età che attende di essere nominata. Prende avvio da essa, risale alla sua fonte e la riporta alla luce, rispettando la «sequenza affettiva» di quanto si agita dentro e vuole essere pronunciato: «Per uno scrittore, la scoperta dell'opera che scriverà ha insieme del miracolo e della ferita, il miracolo della ferita» (p. 30). Il suo risveglio miracoloso è la risposta a un'urgenza che Toro addobbato per il sacrificio cancella tutte le menzogne della lingua: «Le mie parole, un giorno, mi sono divenute estranee e ho taciuto». Se la parola non è soltanto un segno che rinvia alla cosa, ma la nascita e la morte di chi scrive, di essa non ci si può liberare come «d'un oggetto, d'un volto, di un·ossessione», perché c'è una necessità della scrittura, cui il soggetto non si può sottrarre. Egli dà un nome al grido, attribuisce una figura alla ferita, raccoglie «in una stessa spiga» (Yukel) uno strazio collettivo e lo restituisce «al mondo delle leggende e della storia» - di quella storia che simbolicamente dice il destino comune allo scrittore e all'ebreo, alla scrittura e a una «razza uscita dal libro». «... dove il Sabbat si festeggia nei cuori» Edmond Jabès, che ha vissuto e sofferto l'esilio da quando, nel '57, è stato costretto a lasciare l'Egitto, ha eletto a suo vero luogo di nascita il Libro e ha rivissuto nella lontananza fisica (nell'asfalto della città) e in quella simbolica (nella scrittura) il deserto del paese in cui era nato. Rifiutando Israele, lo spazio creato per raccogliere gli esiliati, ha potuto continuare a sognare uno spazio senza contorni, «il luogo unico in cui tutti i cammini si incrociano e si sollecitano,.: il Libro, appunto. La distanza ha trasformato il suo sentire d'allora, il suo essere dentro le cose, in un presentimento cui dare parola; l'ha costretto a interrogare i propri sentimenti, affinché assumessero una forma o un aspetto al di fuori di sé. L'io, infatti, si trasferisce in una terza persona («egli»), chiamata assieme agli altri a intervenire; in un «testimone» che si confonde con chi scrive, con chi «ha usurpato il suo nome» ed è legato al medesimo destino in un nesso così inestricabile che le parti si possono scambiare e lo scrittore trasfomiarsi in colui che segue la sua figura e l'accompagna: «Camminiamo, a piedi nudi, Yukel, lungo le pagine del tuo libro, su scogliere a picco sul mare» (p. 169). È stato il tormento dell'erranza a fondare l'intimità della dimora nella scrittura; è stato lo sradicamento a nutrire il desiderio e l'ossessione del Libro come luogo e legame; a dare alla libertà l'immagine di un fiore radicato alla terra («Tu credi che l'uccello sia libero. Ti inganni, è il fiore,.). Perché la libertà consiste nel ritornare all'origine del segno, «alla scrittura informe»; nel risalire, avrebbe detto Pasolini, «lungo i gradi dell'essere»; nel saper leggere il mondo in trasparenza «sul quadro di vetro della memoria». Scrivere è, per Jabès, ripercorrere - col corpo e con l'anima - un cammino già fatto che tornerà a sorprenderci, interrogarlo e ripeterlo a distanza, ripensarlo e ritrascriverlo sulla pagina: «Egli scrive... Ripercorre il cammino dei suoi occhi. Interroga. Non ha il tempo di rispondere. Tante domande gli si distaccano dalla lingua, cercano, lungo il braccio, di raggiungere il palmo. Tanti desideri premono la penna, danno alle sue dita la forza di stringere la penna» (p. 57). L'errante, che ha riedificato «con detriti di parole» una città distrutta, ha fatto della scrittura il simbolo della dimora, ma anche della separazione; del raccoglimento, ma anche dell'assenza del soggetto. La sua voce, infatti, nel Libro manca (lo scrittore è assente, «è nessuno»), soltanto «il racconto è reale». Ed è un racconto che non si può raccontare: «La vita di una o due generazioni di uomini può stare in una frase o in due pagine ( ... ): 'È nato a... È morto a .. .'» (p. 183). C101'\Jiil1!11'0:,,,W:c;;aa-~mez.n ~Odi"-.-.-~ FREUDIA SCIENZA PSICANALISI CLINICA TEORIA E TECNICA Perrella, Binasco, Francesconi, Novello CLINICA Mazzotti, Focchi, Turolla, Viganò LA PSICANALISI E LA SCIENZA Maiocchi FORMAZIONE DELLO PSICANALISTA Davanzo, Bonecchi, Ballabio ETICA Zaretti, Morerio LUOGHI COMUNI La Via CORRISPONDENZE Perrella, Fornaro, Fachinelli, Rovatti LETTURE Gaita, Zandomeneghi, Ferigolli, Guidi VOLUME SECONDO CO "' -~ e,,_ ~ ~ -~ ~ -<> -<> .::; ~ ::: ~ -<> ~ ._ ____________ __, <:
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==