Edmond Jabès U libro delle interrogazioni «In forma di parole» Libro Sesto Reggio Emilia, Elitropia ed., 1982 pp. 193, lire 12.000 ~' In forma di parole» che, tra gli altri, si avvale del prezioso contributo di Gianni Scalia, ha già pubblicato libri di inconsueto interesse sia per la rarità e la finezza delle scelte sia per la cura esegetica dei testi. Il sesto volume è dedicato al poeta Edmond Jabès, ebreo egiziano naturalizzato francese, la cui opera, che si articola nei sette volumi de Le Livre des Questions e nei tre de Le Livre des Ressemblances, si .è imposta nell'ultimo decennio all'attenzione della critica internazionale. In Italia era uscita finora una scelta sull'Almanacco dello Specchio n. 10, qui viene presentato integralmente il primo volume de Le Livre des Questions, nella pregevole traduzione di Chiara Rebellato. L'opera di Jabès, tra gli altri suoi aspetti di rilievo, può offrire un contributo particolarmente importante all'approfondimento di quei rapporti fra la parola scritta e la parola parlata, tra ph011é e graphé, sui quali convergono, come su un tema essenziale, la ricerca poetica e il dibattito critico: ed è proprio su questi rapporti che vorrei qui soffermarmi. La relazione tra la parola e la scrittura è centrale in Jabès, così come è centrale nella tradizione ebraica in cui quest'opera affonda le sue radici, continuandola e negandola insieme, in una sintesi originale fra una concezione religiosa millenaria e il pensiero filosofico contemporaneo. Nella tradizione ebraica la parola è essenzialmente parola di Dio. Prima di tutto fiato, suono, essa simboleggia già di per sé una sintesi, un passaggio tra il mondo dell'invisibile e il mondo fisico: la parola di Dio si manifesta innanzi tutto come alito, la sua voce come voce di fuoco, voce di tuono. È attraverso la parola che Dio ha creato il mondo:la parola mette in rapporto lo spirito con la materia. Quella della Bibbia è dunque la parola vivente, la parola creatrice; è anche il mezzo di elezione che Dio sceglie per rivelarsi all'uomo e comunicare con lui. Come osserva Marce( Jousse ne La manducazione della parola, Dio è per definizione «il Parlante,.. La parola getta un ponte tra il trascendente e l'uomo. È quindi anche, cli conseguenza, ciò che accomuna l'uomo a Dio, la scintilla del divino nell'umano. La parola di Dio precede la li librodiJabès scrittura. La scrittura è essenzialmente trascrizione, fissazione della parola divina: solo nella parola di Dio la scrittura ha la sua garanzia. Il popolo ebraico è sì il popolo della Scrittura e - come ha amato definirsi - il popolo del Libro, ma in quanto Libro e Scrittura dettati da Dio. La scrittura è dunque funzione della parola, e tuttavia anch'essa partecipa della sua stessa essenza creativa e soprattutto della sua caratteristica essenziale: la fisicità, questo ponte che si viene a stabilire fra il corporeo e l'incorporeo attraverso l'oralità. Anche la scrittura, infatti, è ricondotta appena possibile all'oralità, al rapporto mangiare/parlare, cibo/parola di cui parla Jousse: Dio chiederà a Ezechiele di mangiare il rotolo su cui è scritta la parola divina. E eco quindi stabilirsi tra phoné e graphé una coincidenza, attraverso una serie di collegamenti: bocca/fiato; fiato/suono; suono/parola; parola/scrittura; scrittura/legge. Si compone cosl una catena ininterrotta, che porta dal materiale all'invisibile e viceversa, e nella quale nessuno dei passaggi viene mai saltato o soppresso ma, in una interscambiabilità simbolica, ciascuno dei termini alla fine può in certo modo rappresentare da solo tutti gli altri. Su questa coincidenza si basa la possibilità dell'uomo di cogliere il senso. Non esiste civiltà che viva l'esperienza della parola nella sua totalità come il pensiero ebraico. Anche l'opera di Jabès affronta nella sua totalità questo tema della parola. Ma per l'uomo d'oggi il collegamento si è rotto: parola senso e scrittura sono gli anelli di una catena spezzata; la parola non è più che una voce; fra la parola e il senso, ormai irraggiungibile, sta la scrittura senza più alcuna garanzia di verità. Se dunque Dio non fa più udire la sua voce, la phoné originaria, se quella parola di fuoco, vivente e creatrice, per mezzo della quale ançhe l'uomo poteva comunicare con Lui, è perduta, la phoné non può più essere che il grido, regredendo a uno solo dei Donatella Bisutti suoi significati, il più elementare e immediato, quello di suono. Questo grido, come un sussulto di angoscia, attraversa tutta l'opera di Jabès. Della phoné originaria esso conserva la fisicità: anch'esso è punto di intersezione fra il corpo e lo spirito, tuttavia - nel momento stesso in cui nasce - non può essere che il segno dello spezzarsi di questa unità. È il grido che spezza l'armonia dell'uomo con l'universo, con la legge, il grido che accompagna l'infrangersi delle Tavole: il grido che fa dell'uomo Lyra un separato. Questo grido è la lacerazione stessa. A questo grido Dio non risponde con parole, ma a sua volta con un altro grido: alla disperazione dell'uomo risponde la disperazione di Dio. L'uomo che prima riconosceva nella sua parola la parola di Dio, ora può solo riconoscere il suo grido nel grido di Dio. La phoné esprime ma non comunica. La phoné del grido si oppone alla phoné originaria proprio per questa mancanza di senso, là dove la prima è per definizione il senso. La graphé, la scrittura, si situa in mezzo alle due, come sospesa sul vuoto di un abisso: da una parte impotente a tradurre in parole il grido, perché esso è per definizione inarticolato, e la scrittura non può coincidere con l'esistenza ma solo rifletterla e, nel momento in cui la riflette, già se ne allontana; dall'altra incapace di raggiungere quella phoné, quella parola originaria che l'uomo ha perduto, e che le permetterebbe di prendere coscienza dell'essere, del significato, ricomponendo così nell'unico modo possibile la lacerazione del grido, facendosi ponte per ricongiungere le due phoné separate e superare l'abisso inintellegibile che si è aperto per l'uomo fra l'essere e l'esistere. li ruolo éhe la graphé, la scrittura, assume nell'opera di Jabès è quindi esistenziale e drammatico. Drammatico anche nel significato originario di azione: anche in questo caso Jabès vorrebbe rivendicare alla parola una delle sue caratteristiche originarie, la capacità di agire sulla realtà, ma anche in questo caso tale capacità risulta negata. Il grandioso, sterminato poema di Jabès è il dramma della parola che vuole, e al tempo stesso non può, agire. La scrittura insegue la parola originaria in un inseguimento continuamente destinato al fallimento e tuttavia continuamente ripetuto. La ricerca del senso attraverso la scrittura diventa infatti uno spostare inutilmente gli avamposti verso l'infinito, poiché l'essere, che è totalità, sfugge alla comprensione puramente intellettuale. La scrittura dunque come luogo della contraddizione, così come l'uomo è creatura della contraddizione. La scrittura come luogo del tentativo e del fallimento, come l'uomo, creatura del tentativo infinitamente ripetuto. Scrittura che rimane come traccia di questa ripetizione infinite volte fallita: traccia del tentativo, scrittura come storia. 11 grido nasce dal silenzio e lo spezza. La scrittura avanza nel silenzio verso i confini, per definizione irraggiungibili, di quel silenzio. Perché la parola originaria ormai deve essere identificata con il silenzio. Phoné, graphé, silenziosono ormai i tre vertici di un triangolo inteso secondo la geometria post-euclidea, in cui i primi due stanno alla base e il terzo è collocato all'infinito. Tuttavia, in questo poema che ha apparentemente per centro la scrittura e dove tutto pare ruotare intorno a essa, Jabès recupera invece, muovendo dalla lacerazione, dal grido, la dimensione della phoné come dimensione di tutta l'opera. Proprio questo, a mio parere, definisce l'originalità dell'area in cui si muove la sua ricerca. Nella sua opera infatti la scrittura non nasce dal bianco vuoto della pagina, ma direttamente dal grido, come tentativo di ritrovare un'unità in cui quel grido di sofferenza possa venire riassorbito dal silenzio che è il fondo stesso dell'essere e del divino. Se su un versante questa scrittura si nullifica nella ricerca del senso, sull'altro versante essa mette le sue radici in questo grido come una pianta le mette nella terra. E se anche non può coincidere con l'esistente, che è puro atto e attimo, ne sgorga, ne deriva, cioè ne assume la coscienza. La coincidenza biblica tra phoné e graphé e anche la loro fisicità vengono quindi recuperate, sia pure con questi limiti e con un segno negativo. Proporre oggi la phoné come phoné del grido significa dire che l'unica «voce» autentica, l'unica voce che sia testimonianza totale dell'esistenza umana, l'unico momento in cui l'uomo possa esprimersi come unità di corpo e di spirito e ritrovare in se stesso una scintilla divina, non può essere ormai che quello della sofferenza. E Jabès ribadisce che anche la scrittura può nascere solo da questa sofferenza. Grido e scrittura nascono entrambi da una frattura: il grido dalla frattura dell'esistenza, la scrittura dalla frattura provocata da quel grido. Tale fisicità dà all'opera di Jabès la dimensione appassionata, disperata, tumultuosa della parola dolorante. Dio non può esistere per l'uomo: perché, se anche esiste, Egli non può essere che il Nulla, cioè l'incomprensibile, la negazione dell'uomo in quanto essere che desidera e soffre. Perciò Jabès si dice ateo. E tuttavia egli è, insieme, mistico: perché invita l'uomo ad affrontare il nulla e la mancanza di significato senza l'aiuto di un Dio antropomorfo, ma al tempo stesso gli dice che la ricerca dell'assoluto, destinata al fallimento, è anche l'unica che egli deve tentare di perseguire ugualmente, l'unica che gli dà la possibilità, in certo modo, di divenire egli stesso Dio, o almeno una pallida immagine del divino ai suoi stessi occhi. Unaprima versione di questo scritto è stata letta nell'ottobre scors9 a Firenze nell'ambito della manifestazione Fonè, la voce e la traccia (16 ottobre 1982-23febbraio 1983). Le vocidellascrittura Anna P~icali Maurice Blanchot La follia del giorno «In forma di parole» Libro Quinto Reggio Emilia, Elitropia ed., 1982 pp. 123, lire 8.000 Edmond Jabès U libro delle interrogazioni «In forma di parole» Libro Sesto Reggio Emilia, Elitropia ed., 1982 pp. 193, lire 12.000 N ella Follia del giorno parla l'assenza d'intimità: il linguaggio dell'altro - identificato per antonomasia con la legge - è riconosciuto immediatamente dal soggetto come estraneo e altro da sé. Ma al di là della solitudine soffocante, questo breve testo del '48 esprime l'impossibilità di guardare in se stessi se ci si sente scrutati; di raccontare dietro ordine la propria esistenza, raccogliendola in favola. L'autore, Maurice Blanchot, pur dicendo «io», non riesce a coFoné, la voce e la traccia stituirsi come narratore, e la sua t: conferenze, letture, spettacoli, storia è tutta nel tentativo e nel- ~ concerti l'impotenza del racconto. Viene ~ Assessorato alla cultura di Firenze comunicato al lettore un evento B~ rbre~e~tf°rf6b1antcuertico («Corsi il rischio di perdere la vista, poiché qualcuno mi aveva schiacciato del vetro sugli occhi»), ma non segue nessuna narrazione al riguardo: il fatto si arresta alla sua enunciazione. Inoltrare querela? «Tu puoi parlare, nulla ti impegna ... », insinua la legge (qui un oculista e uno psichiatra che controllano lo sguardo e il pensiero del loro paziente). Per sporgere denuncia, tuttavia, si richiede lo sforzo di ricordare: scegliere i fatti valutando la loro importanza, confezionarne il racconto, riferirlo. Un'operazione semplice, di pura tessitura. Raccontare è tessere la trama dei ricordi: conferire loro un senso, serrarli in discorso, presentarlo seguendo passaggi non soltanto cronologici. Purtroppo, però, i ricordi cercano un filo che li leghi e non c'è verso di annodarli: la narrazione si blocca, la luce della memoria si oscura, la ragione perde il suo consueto buon senso. Il racconto non ha luogo: all'autore e all'autorità che lo esige, non resta in mano altro che qualche ritaglio di pensiero, qualche scampolo d'immagine, qualche visione allucinata in stato d'animo («Questa breve scena mi sollevò fino al delirio. Non potevo senza dubbio spiegarmela completamente e, tuttavia, ne ero sicuro, avevo colto l'istante a partire dal quale il giorno, essendosi imbattuto in un avvenimento vero, si affrettava verso la sua fine» p. 21). Raccontare di sé a un altro, a un estraneo, è rispondere a un interrogatorio, non a un'interrogazione; è imporre la parola alle immagini, non lasciarle affiorare dal fondo della memoria: «Mi avevano domandato: Raccontateci come le cose si sono svolte 'esattamente'. - Un racconto? Cominciai: Non sono né sapiente né ignorante. Ho conosciuto gioie. È troppo poco dire (... ). - Dopo questo inizio, dicevano, verrete ai fatti. - Come ! Il racconto era terminato» (p. 41). Se raccontare è sinonimo di render conto a qualcuno della propria
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==