.,., -~ O() "' '- ~ °' - -8 ~ .,:, .,:, ~ ~ ,:; .::! .. .,:, e: Linguaggisoc, ienza e letteratura Aldo Gargani Freud Wittgensteio Musil Milano, Shakespeare & Co., 1982 pp. 127, lire 8.000 (particolarmente: «L'impresa scientifica e l'operazione artistica». Conversazione di F. Brioschicon A.G.) Hilary Putnam Verità e etica Milano, li Saggiatore, 1982 pp. 165, lire 16.000 (particolarmente: «Letteratura, scienza e riflessione») e i sono cose nuove nel cielo teorico della letteratura, forse. Leggiamo anzitutto questo passo di Kuhn: «Se impareremo a sostituire l'evoluzione verso ciò che vogliamo conoscere con l'evoluzione a partire da ciò che conosciamo (... ) un gran numero di problemi inquietanti può dissolversi. ln mezzo a questi problemi può per esempio trovarsi quello dell'induzione» (La struttura delle rivoluzioni scientifiche, 1962 - trad. it. Torino, Einaudi, 1969 e 1978, p. 205). È un passo importante nella cultura filosofica e scientifica italiana di qualche anno fa, per una critica dell'idea di progresso, sia nella storia che nella storia della scienza; come si può leggere in S. Veca. A noi serve diversamente. 1. Riferimento iniziale a Kuhn È proprio qui, con la netta ricusa kuhniana nei riguardi di «qualche completa, oggettiva, vera spiegazione della natura» e nei riguardi del compito dato alla scienza, come ad essa peculiare, di raggiungere un tale scopo, che si può far cominciare una scelta via via più diffusa di trasporre la motivazione della impresa scientifica nei paraggi dove ha pur origine la letteratura. Certo, Kuhn critica la storia della scienza; anzi qui incide piuttosto sulla progettualità, che è connessa al rapporto della scienza con la collettività sociale; né sembra che voglia escludere una nozione di progresso, ma la sua linearità e il suo fine. Tuttavia lo scarto esplicito e secco verso l'induzione (e cioè la verifica di tipo sperimentale come prova di una teoria) rende conto che è già in pieno corso presso di lui alla lontana data del '62 il procedimento critico che ha condotto a una crisi di certezza del «fonda: mento» e a una invalidazione parziale dell'accertamento proprio della ricerca scientifica. Nella stessa pagina poco prima Kuhn ha detto: «il terrnine 'verità' è apparso in questo saggio soltanto in una citazione di Francesco Bacone». E ancora, con massima chiarezza per il nostro punto, Kuhn si chiede: «perché l'impresa scientifica dovrebbe muoversi costantemente avanti, diversamente da quanto fanno l'arte, la teoria politica, e la filosofia?» (p. 193). Qui voglio anzitutto esprimere diffidenza verso la facilitazione nell'uso di tutto ciò, pur interessandomi profondamente al nuovo problema, che permette di riaprirne altri che erano già aggiudicati. Una misura è però quella di Kuhn, t u I e~ss\•ft • e a bend per esempio. L'assunto polemico di Feyerabend (che scrivendo Contro il metodo ha per obiettivo Galilei) sta nel mostrare che certi enunciati scientifici, sintatticamente costruiti come descrizioni di risultati osservativi, se analizzati svelano un valore completamente diverso: quello di un gesto verbale (performativo), di un mezzo d'azione. Maa questo stesso percorso epistemologico con analisi linguistica, sulla scepsi della conoscenza scientifica, si sovrappone talora un'impronta di scetticismo brillante, con timbro illuministico ma con aforisma diventato facile. E torna giusto, subito, un rilievo di Aldo Gargani: risponde in una conversazione a un argomento cosi posto: «Feyerabend nega che si possa parlare di progresso nella scienza,' e inversamente, egli dichiara, se si dà progresso si dà semmai nell'arte»; Gargani dice misuratamente fra l'altro: «quanto all'affermazione del progresso nell'arte, può avere un significato polemico: in sé e per sé risulta mdlto difficile comprenderla» (e più oltre torniamo sull'interessante serie 'cliscritti di Gargani). Si può dunque osservare generalmente, ora, che nello sviluppo in corso di una certa assimilazione di scienza e letteratura, incontriamo la lingua; e, specificamente, per prima, l'ipotesi di Sapir e Whorf che evidenzia come il senso intuitivo della strutturalità, che è insito nella lingua, ci fa trattare come strutture i fenomeni che percepiamo. E ancora, precisamente, che possono esserci alcuni non «equivalenti in quanto osservatori» perché «sono indirizzati dalle loro grammatiche verso tipi di osservazione diversi e valutazioni diverse di atti di osservazione esternamente simili». Questa ipotesi proviene dall'antropologia americana, attraverso lo studio di popoli meno civilizzati (e, per Whorf, «con livello di razionalità più alto»). 2. Statuti di scienza e di letteratura Gli arrivi vari di una discussione epistemologica attuale, e propria de la munità scientifica», introFrancesco Leonetti dotta da Kuhn, e in qualche modo giustificativa della perdita nella scienza di un criterio di verità accertabile, e in qualche modo vertente insieme sulla letteratura, sono ben registrati per esempio da Gargani e da Putnam. Raccogliamoli ora. Il percorso di Gargani, da dirsi relativo «agli atteggiamenti mentali e alle opzioni epistemologiche profonde», parte affermando che l'esperienza è «per cosi dire, docile, e si presta ad avvalorare programmi scientifici differenti»; e ancora che «c'è una forte carica, una forte provvista grammaticale anche nelle modalità della nostra percezione». E si appunta cosl su «un'esperienza sulla quale possiaDonna con lira e pleuro mo proiettare metodi di connessione diversa» (p. 110); e postula taluni «ingredienti», l'espressione di emozioni, la logica raziocinante, l'immaginazione da lui connessa alla religiosità, i quali «intervengono in combinazioni differenti, per motivazioni e scopi diversi, assolvendo funzioni che non possono essere direttamente assimilate» _(p.115). E arriva a indicare nell'arte uno scatto costruttivistico, oltre che trasgressivo. Si aggiunga che in ciò esprime qualche riserva sull'«approccio regolistico» (con modo di dire nuovo che è riferito alla semiologia, mi sembra). Colgo qualche scivolamento, se non sbaglio, in un altro scritto storico-critico su Musi! e su Wittgenstein, dove egli pone «il linguaggio stesso come scopo» nella letteratura (certo il linguaggio è l'elemento più proprio della letteratura, ma non lo scopo, a me pare, e tornerò su questo punto). Gargani stesso nota: «direte che esagero». E qui mischia, non bene a mio avviso, l'esempio di Pinter con quello magistrale di Beckett. Possiamo leggere in Gargani una resistenza valutativa, una specie di spartiacque difensivo estremo, assai utile e interessante, sullo statuto della scienza. Certo gli preme la «invenzione» nella scienza, il concorso di «materiali extralogici, il che non significa di natura extrarazionale», e cita Einstein coi suoi principi formativi (e, en arrière, Mach, già riferimento polemico della grande querelle materialistica sovrastrutturale di Lenin di Materialismo e empiriocriticismo). L'empiriocriticismo, con la sua misura idealistica coerente, e oggi la relatività senza scadere nel relativismo scettico, sono suoi punti di forza argomentativa. Ma c'è pure un suo passaggio avvenuto in questi anni, sul problema. Scriveva infatti negli Stili di analisi fra '78 e '80 che «la scienza è una thick description, una descrizione densa, che si avvale di una grande varietà di fattori culturali, e non solo di nuclei logico-matematici e di esperienze»; e, per altro verso, con insistenza precisa antikuhniana (leggendo forse Kuhn non sul versante del rapporto critico scienza-società e storia della scienza, ma su quello dell'uso scettico successivo), sosteneva che «l'impiego definito e controllato di strumenti linguistici (logico-matematici) e di esperienze sensibili è appunto ciò che definisce una teoria scientifica» e che «quest'ultima si distingue dalle altre pratiche culturali (arte, religione, letteratura, politica, ecc.) in quanto stabilisce schemi di coordinazione tra esperienze e concetti attraverso la formazione di leggi» (Stili di analisi, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 48 e 49). È appunto questa la posizione di rigore che marca la diversità fra i due campi; espressa qui con misura nuova. Oggi però il passaggio diffuso, che si manifesta filtrato nello stesso Gargani, è verso un coefficiente maggiore di assimilabilità, tramite la diversa combinazione di ingredienti o per altri criteri. Sul punto di fondo Gargani mantiene le sue domande statutarie pulite, senza perdita di rigore specifico della scienza nel mare della cultura, governando ogni oscillazione fra coerenze a ciò indispensabili e invenzione innovativa. Infatti, mentre ora ritiene la posizione di Kuhn «eccessivamente sociologistica» e propone «istanze più fondamentali» che i criteri di accettazione del comitato degli scienziati, costituisce l'esigenza di «sistemi di credenze e di significato». È insomma logico e intuizionista insieme, come questi viennesi del suo libro, col loro grande ricupero di senso contro la serialità e la meccanizzazione, da artigiani e uomini interi (a loro volta diversi, come è noto, dai neo-empiristi, Schlick e Reichenbach e altri del Circolo, in Italia sempre senza boom, che sono razionalisti con fiducia nella «esperienza» controllata da verifica linguistica intersoggettiva). La questione di Putnam (al margine utile della sua maggiore prestazione che è nel ripensare in termini sofisticati la nozione di realismo) è piuttosto etico-critica sulla conoscenza propria della letteratura, cioè sulla sua formazione di senso, sul suo valore cognitivo. Sia detto subito che proprio ora, dalla linea della «letterarietà» negli anni venti, si è pur giunti negli studi di semiologia letteraria (jakobson iana) a una visione di allargamento culturale: dove entrano sia la tipologia della cultura secondo Lotman, che il filone diversificato dei bachtiniani, che anche l'estrema maturità dei grandi «formalisti». Già da noi questo allargamento è speculato in proprio da M. Corti e da C. Segre. Ciò comporta pure una nuova dimensione problematica da parte della semiologia (ancora però non se ne discute). Ordunque Putnam, che porge pure l'orecchio a Rawls, ragiona nel '76 nella influentissima scuola di Oxford così: «siamo portati a noQfarci illusioni»~ulla scienza ed «è comprensibile il nostro atteggiamento disincantato» (p.104). Sulla conoscenza in letteratura, preferendo riferirsi a Dostoevskij e anche a Céline, afferma che essa «è un tipo di conoscenza. È la conoscenza di una possibilità»; «è una scoperta concettuale, non una scoperta empirica» (pp.106-7). E ancora: «la letteratura _hain qualche modo a che fare con un tipo di conoscenza che è vicino al nucleo dell'interesse morale e che non è 'conoscenza scientifica' in nessun senso r~gionevolmente standard». Detto questo, Putnam si critica subito di semplificazione. Sembra che giri e rigiri, ma procede per
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