;i 1s «Ci hanno messi sottoterra prima del tempo». Agnese F., stanza n. 4 e ari compagni di Rebibbia, scrivo una lettera «unica», anziché a ciascuno, come sarebbe giusto, per la particolarità dei rapporti antichi, recenti, ricostruiti, non per pigrizia, né perché mi manchi qui il tempo. In sostanza perché non dispongo di molte forze, soprattutto psichiche, trovandomi impegnato in un lungo e defatigante dialogo con me stesso, per riuscire ad affrontare in modo non passivo questa nuova dimensione della mia vita, che si potrebbe definire «in salute provvisoria», come la libertà. Innanzi tutto: come mi accorgo di non aver più paura del carcere (mentre, fuori, mi rendo conto che la paura è stata grande per la gente, soprattutto in questi tre anni), cosi ora non ho più paura del canoro, avendo cominciato a viverlo dall'interno della comunità dei «cancerati ... Molte sono le analogie, non solo simboliche, fra le due comunità: l'incertezza quotidiana del destino di ciascuno, la forma delle «celle», la vita di «reparto ... Curiosa forma di continuità la mia, quella di riuscire a tornare in cella di isolamento; una singolare risoluzione del1'«effetto calamita,. di cui discorre sovente Francone. La cella in cui sono rinchiuso in un sotterraneo dell'Istituto Tumori (ma questa città proprio non mi vuole, se non nelle sue cantine!) è a tre letti, divisi fra loro da armadi a mezza altezza e da schermi mobili su ruote, per evitare di irradiarsi a vicenda. La dimensione è all'incirca quella delle celle a 4 di Rebibbia (forse un po' più ampie). Un finestrino (piccolo) è chiuso e dà su un cavedio (siamo sottoterra), da cui - anche sporgendo il collo - non si vede la fine del muro né il cielo. Però, dall'alto, delle curiose piante rampicanti scendono fino a noi, a portarci un po' di natura, in fondo al pozzo. Auriga romano in corsa nel circo Laletteradiceva La finestra è chiusa (per l'aria condizionata) e poiché non dà luce, si vive tutto il giorno con l'illuminazione artificiale (sensazioni simili a quelle provate negli uffici tre piani sottoterra che popolano il centro direzionale di Milano - tipo Compograf - dove si aggirano strane adolescenti pallidissime dalle guance di cera, e dove si perde la nozione delle stagioni, del tempo, dell'alternarsi del giorno e della notte). La porta, scorrevole, è appesantita perché piombata (tutto qui è piombato) e si apre solo quando entrano infermieri per pulire, portare pappette frullate da deglutire, vestiti con scafandri piombati. Una lettera di Alberto Magnaghi brata un'ottica giusta quella di aver percorso l'analisi della mutazione dei sensi non a partire dagli effetti della struttura repressiva, ma dalla tendenziale caduta a zero dell'informazione ambientale e dalla dimensione di «galleggiamento» in uno spazio-tempo «vuoto». Qui non ci sono guardie, tutti sono gentili, amorevoli, premuroPer il resto: silenzio, blocco di , ogni comunicazione; anche perché tra noi, avendo la bocca in fiamme per gli aghi radioattivi che abbiamo conficcati dentro, comunichiamo a gesti e a monosillabi con estrema fatica. Il mio compagno di stanza è poi particolarmente afflitto: respira a fatica, rantola giorno e notte; ieri sera, con un ennesimo spasimo ha espulso gli aghi rompendo i punti che li fissano. Perdere gli aghi di sabato sera significa aspettare fino a lunedl, per poi subire una nuova. complicata operazione con anestesia per rimetterli. Naturalmente, da quando sono in isolamento con gli aghi in bocca, niente «aria». La televisione ha una sola novità, rispetto al carcere: la pulsantiera sul letto e la cuffia. Per il resto, modello di televisore simil-Rebibbia; anche qui programmi scelti dall'«amministrazione», chiusura improvvisa circa a mezzanotte. I «colloqui» avvengono tramite televisore, con videotelefono (la telecamera è in mezzo alla stanza): una scena penosa, se non si affollassero ogni sera al video molte facce da rassicurare e da tirar su di morale. Da questa cella di isolamento ho avuto alcune conferme del metodo di autoanalisi adottato nel diario di galera. In particolare, mi è semAra si: ma il senso di svuotamento/annientamento, che pervade - inesorabile - dopo un po' di giorni che la porta si è chiusa, è analogo a quello che si vive nella cella di isolamento, se non peggiore. Nel senso che là, la presenza di una struttura repressiva, qualche litigio per sopravvivere, un po' di incazzatura rivolta al di là del muro, rendono l'annientamento meno globale, occultandone parzialmente la natura profonda. Dunque, è la modificazione della condizione ambientale di per sé a provocare la metamorfosi percettiva, e non la particolare forma di coazione/repressione. A vevo intenzione di. utilizzare questo tempo per ristendere il diario di galera (mi pareva, teoricamente, una situazione adatta!); ma, in realtà, dolori più acuti e continuati di quelli promessimi e un ambiente che impone di recita~ re fino in fondo il proprio ruolo di «paziente» (curioso sostantivo, che assomma al concetto di «patire» la sofferenza il concetto del «sopportarla»), hanno fatto sì che riesca a mala pena a leggiucchiare qualche cosa. Ma prima dell'isolamento (che, devo dire, è condizione eccezionale in un ospedale), la vita nel reparto era diversa. Sono stato sei giorni nella comunità di reparto con le porte aperte (fase preliminare degli esami e delle visite mediche): la cosiddetta «degenza» pre e post-operatoria. In quei giorni ho intuito la solita banalità che ormai mi perseguita come una monomania: la separazione fra tempo di vita e tempo di lavoro, fra funzioni e comunità - separazione che si ripete identica, in ogni struttura monofunzionale .. Eppure., saTebbe possibile rompere queste separatezze. In pochi giorni mi sono balenate molte suggestioni, osservando il funzionamento della macchina, dei corpi e dei desideri; suggestioni di cui ho chiacchierato con la compagna di Giorgio, che lavora nel reparto a fianco (radiologia) e che ogni giorno mi faceva visita. Tutti si annoiano ormai delle funzioni e del tempo della funzione: malati, infermieri, tecnici, medici. Augusto direbbe che è la stessa forma tecnico-culturale di questa medicina (il corpo come oggetto di cura, il malato come macchina/funzione biologica) a imporre ritmi ed «economie» funzionali della giornata quotidiana, imponendole un andamento «fabbrichista», ripetitivo, senza avventure. Eppure sono convinto che, anche qui, molte cose potrebbero cambiare. Già per esempio a Genova, quando Giorgetti mi portò in giro per gli ospedali circa un mese e mezzo fa, a fare il prelievo per la biopsia, vedendo la rapidità (circa 2 ore) con cui ho fatto tutto, senza scartoffie, timbri, certificati (solo perché accompagnato per mano da Giorgetti), mi è venuta improvvisamente una domanda/illuminazione: perché esiste la mutua? Giorgetti, pur rimuginando a lungo, sobrio data l'ora mattutina, non ha saputo rispondere. Mi ha solo detto che il personale addetto all'assistenza è circa un terzo rispetto a quello addetto alle attività amministrative mutualistiche. Che è come dire che, rovesciando su un reparto, diciamo, di 100 addetti, 200 persone, non si ha più limite alle fantasie di quante attività ludiche, culturali, associative, di autoanalisi, di conoscenza scientifica, di innovazione, queste 200 per'- sone (altrimenti disoccupate) potrebbero organizzare, divertendosi, insieme ai malati. Allora ho rivolto la domanda a ' molte altre persone, medici, tecnici, ammalati, «sani», sul (krché dell'esistenza della mutua, partendo ovviamente dall'assunto che l'assistenza sia un diritto di tutti e non di particolari categorie di lavoratori, ma le risposte sono state tutte di imbarazzo e di smarrimento. (Ma molte altre domande di questo tipo mi sono posto ritornando in metropoli). In sostanza, mi sembra sempre più incredibile che milioni di persone continuino a lavorare otto ore, soprattutto nei servizi, dove è possibile trasformare le finalità del proprio lavoro, accettando la separazione fra tempo di vita è tempo di lavoro. Forse qui nel terziario, il «rifiuto del lavoro», malinteso in senso economicista e non creativo/trasformativo (cioè come abolizione del «lavoro» versus sviluppo di attività creative, umanamente «ricche», dense di avventura) ha prodotto qualche guasto culturale, insieme a un sindacalismo operaista trasferito a piè giunti dalla catena di montaggio al terziario avanzato della metropoli ,.,
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