Alfabeta - anno V - n. 45 - febbraio 1983

Lapen@,,m,!IoJrte Italo Mereu La morte come pena Milano, Espresso Strumenti, 1982 pp. 182, lire 4.000 Romano Canosa «La pena di morte in Italia. Una rassegna storica» in Critica del diritto, 1982 n. 25-26, pp. 29-43 Amnesty International La pena di morte nel mondo Bologna, 28-30 ottobre 1982 Jack H. Abbott «The condemned» in The N.Y. Review of Books 1981, n. 3, March 5 Kurt Andersen «An Eye for an Eye» In Time, January 24, 1983 n. 4, pp. 14-23 L a pena di morte come oggetto di discorso è inafferrabile e sfuggente. In una certa misura è sempre stato cosl, ma ancora di più lo è oggi, come vedremo. I discorsi sull'argomento oscillano di solito tra due poli fondamentali centrati o sull'aspetto «pena», sulla sua giustizia e sulla sua utilità, o su quello «morte», sul diritto di uccidere un essere umano in generale e da parte della collettività/ Stato in particolare. E in effetti l'intrecciarsi di questi due ordini di idee permette una notevole quantità di combinazioni. con prevalenza dell'uno o dell'altro aspetto e con aumento dell'evanescenza dell'oggetto in discussione. Cosl accade che le posizioni abolizioniste si fondino per la maggior parte sull'argomento «utilitarista» secondo il quale non è assolutamente vero che la pena di morte costituisca un deterrente efficace («utile») nei confronti della criminalità. L'argomento in sé, bisogna dirlo, è abbastanza forte. Se ne può trovare una conferma nei dati statistici sulla criminalità in Italia dal 1881 al 1960, dati che mostrano l'assenza di nesso tra la vigenza della pena di morte e l'andamento della criminalità, che ap: pare piuttosto determinato dalle guerre o dal «ricorso alle armi nels la lotta politica» come nel decennio 1921-30 (R. Canosa, «La pena di 1norte in Italia», p. 39). Sono altrettanto significativi i dati sugli Stati uniti riportati nel servizio pubblicato da Time (gennaio 1983). Un confronto tra Stati limitrofi, con e senza pena di morte, mostra come la percentuale di omicidi varii in modo sostanzialmente uniforme se non «a favore» degli stati «senza» - come nel caso del North Dakota, che nel decennio 1939-49ebbe una diminuzione degli omicidi del 40 per cento, contro una diminuzione del solo 20 per cento nel South Dakota, che invece continuava ad applicare la pena capitale. La misurazione degli effetti della pena di morte sulla criminalità è in realtà possibile solo in modo approssimativo, stante la difficoltà di isolare la causa 'pena di morte' rirelazione di Ezzat A. Fattah al Convegno di Bologna). Ma ormai l'argomento della non deterrenza è fatto proprio anche da istituzioni sovranazionali come il Parlamento europeo (vedi il «Rapport sur l'abolition de la peine de mort dans la Communauté européenne» in Il Foro Italiano, 1981, parte V, pp. 114-20). Il problema è piuttosto che, messisi sul piano dell'utilità, si è sempre esposti alla obiezione che, per lo meno in determinate situazioni, la pena di morte possa avere un potere deterrente maggiore di altre pene. Senza contare che 1<1 non «utilità» sul piano della politica criminale non esclude una possibile valutazione di utilità politica come strumento di terrore «legale» nei confronti degli oppositori. al potere. Ed è infatti proprio a quest'ultimo profilo di utilità che tutti gli «utilitaristi» si sono mostrati sensibili, sostenendo la legittimità della pena di morte (o praticandola) nei confronti degli attentatori all'as- ·setto di potere esistente, e dimostrando cosl la superabilità di tutti i discorsi sull'umanità delle pene, ecc. di fronte alla ragion di Stato (cosl Beccaria, ma anche prima Tommaso Moro, ecc.). Chi invece, come Bobbio, cerca di dare una ragione più profonda alla «ripugnanza» per la pena di morte, deve arrivare al «comandamento di non uccidere». Con la conseguenza che da un principio cosl universale si può far scaturire di tutto: dall'opposizione all'aborto, come pure qualcuno ha fatto a Bologna, a tutti quei discorsi su violenza e politica che sembrano inevitabilmente_destinati ad avere più di una venatura di ipocrisia. E l'effetto, anche in questo caso, è la perdita dell'oggetto del discorso, la pena cli morte. L'inafferrabilità diventa maggiore ove si consideri che gli argomenti sono sostanzialmente uguali e che, dopo la stagione di lotta abolizionista della fine del secolo scorso, non si è dettò nulla di nuovo (come rileva Canosa, art. cit., p. 39). spetto a tutti gli altri fattori geneti- La morte come pena ci della criminalità. Vi è comun- Più proficuo appare allora un dique un buon numero di studi em- scorso centrato sulla legittimaziopirici a livello internazionale che ne giuridica della pena di morte, e arrivano a escludere con notevole quindi sulla morte come pena. È fondatezza l'efficacia della pena di possibile così «scoprire come non morte (vedi la bibliografia della .sempre la morte è stata usata coBibI10tecga InO b18 nCQ me pena, anche presso gli stessi popoli che in seguito l'hanno adottata; ed individuare come, quando, e perché, un mezzo di una brutalità tanto rozza e indecente è stato utilizzato dal legislatore, esaltato dagli intellettuali, applaudito dalla folla e, in poche parole, sanzionato, presentato e sentito come uno strumento idoneo - consono alla civiltà e alla religiosità di un popolo - che si può impiegare senza macchiarsi d'assassinio. Visto così, iLproblema non è più quello di prendere atto della belluinità umana, ma di cercare di capire perché l'istinto omicida è stato sublimato a istituto giuridico» (I. Mereu, La morte come pena, pp. 7-8). Un'impostazione di questo genere permette di mettere in luce, per esempio, come la «civiltà della morte come pena» ha inizio solo nel basso Medioevo, nell'epoca di Federico II e di Dante - e non, come di solito viene afferinato, nel Medioevo «germanico» o «barbarico», il buio alto Medioevo. Infatti, solo in quell'epoca il diritto penale si trasforma in tecnica della coazione «con la pena di morte in primo luogo, seguita da tutte le alo tre pene mutilanti e deturpanti». Prima erano invece praticate in tutta Europa delle forme di «composizione» (guidrigildo) che consiGuerriero vi11orioso sceso dal carro stevano in una sorta di monetizzazione del crimine, dalle cui conseguenze l'autore poteva essere liberato pagando una·somma di danaro. È evidente che in questo modo «li ricchi e potenti» potevano «permettersi» di commettere crimini, ma non si può non essere d'accordo con Mereu quando sottolinea il carattere non vendicativo di questo tipo di sanzione, e non è poco. La diversa periodizzazione adottata da questo autore fa risaltare anche l'importanza del ruolo giocato dalla Chiesa nella legittimazione della morte come pena. Infatti la Chiesa, fino al XII secolo, aveva avuto al suo interno una pluralità di orientamenti in proposito, tanto che non aveva mai espresso posizioni ufficiali e, anche quando aveva condannato a morte gli eretici, li aveva scacciati dal foro ecclesiastico delegando il «rito» dell'uccisione alla «corte secolare». Le cose cambiarnno radicalmente quando la Chiesa decise «di fare una propria politica penale contro gli eretici, servendosi di proprie leggi, e di una polizia 'speciale' (l'Inquisizione) istituita allo scopo, cioè con Alessandro III (t 1181), con Lucio III (t 1185), con Innocenzo III (t 1216) e con tutti gli altri pontefici del periodo classico del diritto medioevale» (Mereu, op. cit., p. 22). • Ed è proprio in questo periodo che avviene quella profonda rivoluzione giuridica nel campo del diritto penale e processuale che «con la legittimazione del sospetto, con la creazione del sistema inquisitorio e con tutti i correttivi apportati dalle leggi giustinianee - prima fra tutte la pen!I di morte - cambierà aspetto a tutta la legislazione pe- • nale e processuale dell'Europa, con effetti che durano ancora» (ibidem). Si arriva cosl a un'altra idea di fondo che attraversa tutto il libro di Mereu. Il diritto penale contemporaneo è fondato su strutture: concettuali (dolo, colpa, colpevolezza, preterintenzione, reato, ecc.) di impronta ancora «tolemaica». Il diritto processuale penale, per parte sua, funziona ancora oggi sul modello medioevale inquisitorio, cioè «come allora tutto è basato sull'arbitrio del giudice», con l'imputato che deve provare la sua innocenza. La pena di morte, pienamente coerente come è con tale ordine di idee, è sempre pronta a entrare in funzione. Queste enunciazioni possono senz'altro irritare il giurista contemporaneo, tutto impegnato a dare al diritto la dignità di scienza, ma dovrebbero essere fonte di ripensamento per tutti quelli che, per compenetrazione con la ragion di Stato o per formalismo giuridico o per entrambi, praticano l'apologia del diritto penale. Poco o nulla di queste impostazioni critiche dellà legittimazione giuridica della pena di morte (e quindi anche dell'ergastolo) si è potuto vedere nel convegno di Bologna. Il discorso prevalente è stato quello dell'abolizione della pena di morte come conquista di civiltà. II che è indubbiamente vero, ma rischia di far perdere di vista che normalmente vengono considerati di pari dignità civile e di pari «modernità» gli strumenti di legittimazione della pena di morte, e cioè il diritto, ecc. Ma, a proposito del convegno, va fatta qualche considerazione ulteriore. L'incontro è stato preceduto dalla presentazione dei risultati di un sondaggio di opinione commissionato alla Doxa dall'Istituto Cattaneo, dal quale è eme~ che il 58,2 per cento degli italiani è favorevole alla pena di morte per i delitti più gravi. II dato, presentato alla stampa che lo ba recepito dandogli notevole spazio, è diventato di fatto il biglietto di presentazione e di richiamo del convegno, provocando un certo allarme nell'opinione pubblica non .cforcaiola». Ed è qui che sorge il problema. II dato in sé è allarmante ma lo è molto meno se si considera che si tratta di una percentuale inferiore a quella emersa in analoghi sondaggi di qualche anno fa (e se si considera che negli Stati uniti, per esempio, la percentuale «pro,. pena capitale è - secondo un sondaggio Gallup - del 72 per cento con trend per giunta al rialzo). Insomma, la tendenza in Italia è positiva. E appare perciò singolare, e forse non riducibile alle sole esigenze scandalistiche dei «media», che tra un dato positivo di tendenza e uno negativo, ma statico, si sia valorizzato il secondo. Il convegno, poi, è stato più centrato sull'aspetto 'morte' che su quello 'pena', fra le altre. Tanto che un giurista come Alessandro Baratta ha svolto una relazione sugli «Aspetti extragiudiziali della pena di morte,., dedicata per la maggior parte al fenomeno dei «desaparecidos» argentini. La gravità di questa forma di terrore politico è fuori discussione, ma si tratta per l'appunto di un problema politico più che giuridico, come conferma il fatto che la pena di morte legale, introdotta in Argentina con legge del marzo 1976, non è stata fino ad ora mai applicata. La pena del carcere Insomma, un certo modo di P!lrlare della pena di morte sembra rimuovere (e può servire a non parlare di) un altro problema che è strettamente connesso alla morte in quanto pena, e cioè il carcere. A Bologna non se ne è parlato, non si sono anali=ti gli effetti reciproci tra la pena della morte e quella della privazione della libertà, magari a vita. Pure il problema • c'è, e andrebbe affrontato, quanto meno per evitare quell'effetto di legittimazione del carcere (male minore) che la critica della sola pena di morte produce. L'unico che ha posto in luce ~ questa sorta di oggetto nascosto ~ del convegno è stato un non-giuri- -~ sta, Franco Fornari, con una rela- "'- :;;:i zione sul significato della pena di °' morte da un punto di vista psicoa- ....., .!;: nalitico. Fomari ba parlato della i: pena di morte come forma di eia- ~ borazione paranoica del lutto simi- ~ le a quella che dà origine alla guer- ~ ra, cioè con estromissione all'esterno della comunità della causa 2 .. -O del lutto. s Il carcere - che invece tiene in è

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