Alfabeta - anno V - n. 45 - febbraio 1983

LadissonanzadiGadda I n una recensione agli Idilli Moravi di Bonaventura Tecchi, pubblicata sul primo fascicolo del 1940 di Letteratura (e, se non erro, non più ristampata), Carlo Emilio Gadda parla di sé come di un «pasticcione che ama le misture impossibili, le torte farcite di capperi e di zibibbo». Il sé in questione è, ovviamente, la propria scrittura, scrittura di chi è vissuto tra un popolo, il «lombardo, che non arriva ancora a poter scandire senza trauma il liqueante dattilo del topograficamente suo Virgilio», e, per di più, personalmente, quanto meno sul piano della mitologia individuale, è segnato dall'esser nato - secondo un'espressione di Tito Livio che riprenderà nello scritto del '59 «Il latino nel sangue» - da una «permixta gentium conluvies», «entro le cui vene il sangue di 48 stirpi diverse, dall'araba all'ungherese, precipita verso atroci dissonanze». «Misture», «permixta», «conluvies», «dissonanze»; e ancora «pasticcione» (da «pasticcio», con evidente allusione gastronomica, come ci avverte !'immediatamente successivo «torta»); quel «pasticcione» che ingenererà il «pasticciaccio brutto de via Merulana», ove il termine si sovradetermina dei significati del francese «pastiche» (di «pastiche» parla Contini in riferimento a Gadda), e il «pasticciaccio brutto», senza eccessiva forzatura, può includersi nell'autoironia verso la propria «mistura» linguistica - se paragonata, come nella recensione di cui si dice, alla «dignità stilistica», «la dolce, la lineare purità» dell' «umbro od osco o sabellico, o tutt'e tre insieme» Bonaventura Tecchi. Naturalmente - a parte l'umana simpatia che egli ebbe per Tecchi, compagno di prigionia nel lager di Celle, - a Gadda non bisogna poi credere troppo. Della «dignità stilistica» della «dolce, lineare purità», egli non sa proprio che farsene. Tra i due modi di aggredire «quel colendissimo pappone esterno, il linguaggio, somministratole dalla comunità spedaliera: cioè dalla civiltà storica: [esterna]» (seguo sempre la citata recensione), «l'anima» di Gadda, cioè la sua scrittura, ha scelto da tempo. Non a forza di levare, ma di aggiungere, non attraverso la purificazione e scarnificazione del suddetto «colendissimo pappone», ma gonfiandolo, e facendolo scoppiare a furia di «ridondanze espressive» (per usare la terminologia di Ivan Fònagy), egli combatte la propria pugna, le cui motivazioni sono sempre - lo osserva Cesare Segre, nel suo saggio su «La tradizione macaronica», - «artistiche, non linguistiche». E poiché si è ricordato Segre e il macaronico, utilizziamo ancora il nostro testo di partenza per un singolare riscontro. Sottolinea ancora Segre, nel distinguere i testi miscidiati da quelli macaronici, che in questi ultimi «il contrasto tra un fondo lessicale dialettale e moduli e forme dell'esametro virgiliano mirava a produrre nei lettori un effetto straniante e un risultato coi:: mico». Non è davvero un «singola- ~ re riscontro» che Gadda, nelle ri- ~ Ei}1ericordate, faccia proprio rife8, 01 f! O fr!til~ 1«t1n<Ylmlfi a mente» lombardo, ma estraneo, anzi «dissonante» rispetto alla parlata padana? D issonanza, si sa, è termine tratto dalla musica, e sta a indicare un «rapporto di suoni che appartengono ad elementi tonali, e cioè ad accordi, differenti» (Zingarelli). Contentiamoci, per il nostro uso, di questa definizione; ma aggiungiamovi subito quello che scrive Webern: «La dissonanza non è altro che un gradino della scala». Sempre lo Zingarelli ci dà, tra i sinonimi, «disarmonia». E siamo così al titolo del più intelligente tra i libri scritti su Gadda, La disarmonia prestabilita di Gian Carlo Roscioni, tutto centrato sulla ricerca delle cagioni e dei significati di «una scrittura così dissonante». E di nuovo, nel saggio dedicato a «Lingua e metalinguaggio in Gadda», in Letteratura come sistema e come funzione, Guido Guglielmi scrive: «La referenza interna tendenzialmente elide la referenza esterna istituendo una condizione di dissonanza ... » Guglielmi, come Contini, come Roscioni, fa il nome di Joyce: ben al di là del giudizio di Renato, Barilli che rimproverava, ancora nel 1964, a Gadda di non aver ancora superato la «barriera del naturalismo» (peccato del resto veniale, se si tien conto che di «naturalismo» Virginia Woolf aveva accusato l'Ulisse). Un equivoco, questo di Barilli, cui del resto lo stesso Gadda, almeno in una certa misura, aveva dato esca, malgrado le molte sue dichiarazioni in contrasto e la testimonianza dei suoi testi, con i suoi interventi critici sul dialetto e sulla sua superiorità espressiva; scambiando cioè, per parafrasare Segre, valori artistici con valori linguistici (nella fattispecie Belli con Carducci) e sembrando attribuire alla «naturalità» del dialetto quanto, semmai, non era che l'effetto del trattamento del milanese, o del romanesco, a opera di due grandi poeti, quali Belli, appunto, e Porta. Dico «sembrando» perché altrove, fuor di polemica, Gadda felicemente si contraddice: là dove, ad ~ o·o. nel sa1rn.io su Belli. Mario Spinella «Canto, cantica, girone» (ora ristampato a cura di Dante Isella nel volume adelphiano Il tempo e le opere), coglie nella «dissonanza» «tra la carcerata voce dell'io e il dorato coagulo del supersistema» il «tono», il «modo» (e tornano termini musicali!) della poesia di Belli. Del resto, una controprova tanto diretta quanto immediata del ruolo specifico che Gadda attribuiMatronagreca sce ai dialetti la si trae dal fatto che in puro dialetto egli non ha mai scritto - a differenza, poniamo, del Pasolini friulano; ma dei dialetti si è variamente servito - quando se ne è servito - entro un contesto linguistico ove la norma emergente è, semmai, il plurilinguismo. Già Piero Pucci («Lingua e dialetto in Pasolini e Gadda», in Società n. 2, 1958) sottolineava a proposito del Pasticciaccio: «almeno quattro sono i dialetti impiegati nel testo, e infinite sono le sfumature e i gradi di contaminazione fra questi e l'italiano e l'italiano e questi»; e recava ad esempio il capitolo dell'interrogatorio di Ines, ove «quattro diversi linguaggi s'intrecciano: il napoletano del doti. Fumi, il molisano di lngravallo, il dialetto periferico dei Castelli di Ines e il romanesco dello Sgranfia. Si aggiunga l'italiano del commento dell'Autore». Ma il ricorso ai dialetti è solo un aspetto di questo plurilinguismo: la comoresenza dei tre re!!istri dello stile (alto, medio, basso), tutt'altro che infrequenti ricorsi al sublime e al lirico, così come la inclusione di termini tecnici dei mestieri, della cultura, di latinismi, francesismi, spagnolismi, o addirittura di audaci derivati di invenzione gaddiana («dekirkegaarizzava» ricorda, per esempio, Pucci), sono altri modi tipici del formare di questo scrittore: tutti volti a. mantenere costante, attraverso questa strumentazione linguistica, una tensione che Contini per primo ebbe a definire «espressionista». A ll'origine di questa tensione non è difficileindividuare, specie dopo la pubblicazione della Meditazione milanese, e sulla scorta delle analisi di Roscioni, una vera e propria passione gnoseologica, la volontà di cogliere la sempre sfuggente cosa in sé; e di coglierla nella consapevolezza critica che lo stesso soggetto dell'indagine - della «cognizione» - è di per sé sfuggevole e vario, diveniente e non mai riducibile all'unità: quell'unità fittizia della quale il «monolinguismo» verrebbe a essere la paranoica proiezione sul piano del testo. Dialetti e dialettismi, spagnolismi, francesismi, e tutto quanto sopra si diceva non hanno perciò alcuna intenzionalità «mimetica»; sono, al contrario, piani ottici differenziali, o, se si preferisce il lin- !!ua!!!!iodella chimica. acidi molteplici volti ad «attaccare» l'irraggiungibile «reale» (irraggiungibile come per Freud - e qui si potrebbe accennare a un discorso su Gadda e la psicoanalisi, che non fu per lo scrittore un amore occasionale, ma una vasta coincidenza di «metodo»). È ancora Roscioni a citare, dai quaderni di studio di Gadda, una nota autobiografica riguardante le proprie «maniere»: «Le maniere che mi sono più famigliari sono la (a) logico-razionalistica, paretiana, seria, cerebrale. E la (b) umoristico-ironica, apparentemente seria, dickens-panzini. Abbastanza bene la (c) umoristico-seria, manzoniana; cioè lasciando il gioco umoristico ai soli fatti, non al modo d'esprimerli: l'espressione è seria, umana: (vedi miei diarii, autobiografie). Posseggo anche una quarta maniera (d) enfatica, tragica, 'meravigliosa 600', simbolistica, che forse è meno fine e di minor valore, ma più adatta a un'impressione diretta e utile a 'épater le bourgeois'. Questa maniera d si avvicina alla poesia, è interessante, ma contrasta grandemente con le altre e credo che sarebbe difficile legarla e fonderla. Finalmente posso elencare una quinta maniera (e), che chiamerò la maniera cretina, che è fresca, puerile, mitica, omerica, con tracce di simbolismo, con stupefazione-innocenza-ingenuità. È lo stile di un bambino che vede il mondo (e che sapesse già scrivere)». Questa analisi a parte subjecti della propria pluralità di maniere, o di approcci alla forma-scrittura, comprova a usura le notazioni precedenti; semmai vi aggiunge, a ulteriore conferma del discorso che qui si tenta, la sottolineatura della «dissonanza» («questa maniera ... contrasta grandemente con le altre»). E, a proposito della dissonanza, torniamo alla definizione di Webern. Se la dissonanza non è altro che aggiungere un altro gradino alla scala, cioè innalzarla, e innalzarsi, per vedere (comprendere) nuove possibilità di accordi - e cioè estendere il paesaggio musicale che una forma storica aveva racchiuso entro limiti «prestabiliti» - la tensione testuale di Gadda si inserisce a pieno titolo nella rottura che, nelle varie arti, il nostro secolo ha realizzato: con Cézanne, o Schéinberg, Webern, il razionalismo architettonico, ecc. Ma va anche oltre. Riprendendo a suo modo alcune intuizioni dei foturisti, Gadda avanzò, sia pure parzialmepte, quell'operazione che in musica vide (e vede) l'inclusione del rumore nel suono. Così - e ancora una volta non certo «naturalisticamente» - vanno viste le numerose onomatopee da lui adoperate o inventate; così l'impiego grafico, nelle varianti lombarde, della gutturale occlusiva k; così, infine, il ritornare nella sua opera del «non-finito»: a significare la teoretica consapevolezza che ogni «narrazione», al pari di ogni composizione musicale, che si voglia conclusa non fa che nascondere il suo essere, in realtà, soltanto un frammento, un ritaglio, nel pullulare dei suoni - o delle parole, delle sensazioni - o delle «cose».

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