Alfabeta - anno V - n. 45 - febbraio 1983

B Rorty, I' esl@!Jaspeculare Richard Rorty Philosophy and the Mirror of Nature Princeton Un. Press, 1979, 1980' Hilary Putnam «What is 'Realism'?» e «Reference and Understanding» in Meaning and the Mora! Sciences London, Routledge - Kegan Paul, 1978 trad. it. Verità e etica Milano, Il Saggiatore, 1982 pp. 165, lire 18.000 Donald Davidson On the Very Idea of a Conceptual Scheme Proceedings of the American Philosophical Ass. n. 17, 1973-74, 11 I.( Sono le immagini piuttosto ~ che le proposizioni, le metafore più che le asserzioni, che determinano la maggior parte delle nostre convinzioni filosofiche. Nell'immagine di cui la filosofiatradizionale è prigioniera la mente è (vista come) un grande specchio, che riflette diverse rappresentazioni - alcune adeguate, altre no - e che può venir studiata per mezzodi metodi puri, non empirici» (p. 13). In Philosophy and the Mirror of Nature, da cui è tratta questa citazione, Richard Rorty descrive la nascita della metafora della mente come specchio della natura e ne individua la presenza nelle più recenti correnti filosofiche. Per Rorty la nozione di mente come «essenza speculare» (Glassy Essence) ha condotto i filosofi a vedere nelco e mentale, vuol dire da una parte adottare la nozione aristotelica di sostanza, dall'altra presupporre un accesso privilegiato alla coscienza. La nozione di mente come essenza speculare è, quindi, tutt'altro che un'intuizione non problematica, ma deriva, secondo Rorty, dal fatto che facilmente cadiamo in una trappola tesa da un certo gioco linguistico, dall'abitudine a usare un dato vocabolario filosofico- vocabolario in cui le tre nozioni storicamente distinte di comprensione degli universali, sostanza, e accessoprivilegiato alla coscienza, si sono sovrapposte fino a creare quest'immagine della mente. Lf invenzione cartesiana della mente aveva fornito alla filosofia un nuovo campo d'indagine in cui era possibile stabilire certezze garantite dall'accesso privilegiato al mentale. Locke, nella sua analisi del funzionamento dell'intelletto, dilata l'esigenza critica di Descartes ed esamina le capacità e gli oggetti possibili della conoscenza umana. La possibilità di intendere la filosofia come teoria della conoscenza si fa strada, ma Locke non può svilupparla pienamente perché avrebbe bisogno di un fondamento non empirico che il suo sensismo non è in grado di offrirgli. Questo progetto giunge a maturazione solo nell'opera di Kant: le leggi indubitabili dello spazio esterno sono ricondotte alla coscienza, allo spazio interno dove si esplica l'attività costituente dell'Io trascenla conoscenza un insieme di rap- dentale. La teoria della conoscenza presentazioni adeguate - idea che si fonda sulla conoscenza apodittica ha reso possibili le strategie filoso- dell'attività dell'Io, e la filosofia si fiche di Descartes e Kant, senza le identifica totalmente con l'epistequali non avrebbero potuto svilup- mologia come disciplina. parsi le moderne concezioni della Rorty nota che questo processo filosofia come analisi concettuale, ha condotto a pensare la conosceno come fenomenologia, o come in- za come rappresentazione adeguata dagine sulla logica del linguaggio. del mondo; a suo parere, l'errore di Nella prima parte del libro, Locke e di Kant, come dell'episteRorty analizza l'invenzione carte- mologia contemporanea, sta nell'asiana della mente che, nella sua in- ver fondato la teoria della conoterpretazione, è diretta responsa- scenza sulla confusione tra giustifibile della nozione di essenza spe- cazione delle asserzioni e spiegazioculare. Secondo questa nozione ne causale delle credenze, tra pratil'uomo conosce grazie a una spe- che sociali e processi psicologici. ciale essenza in cui la natura si ri- Secondo Rorty, da Kant in poi la flette. Essa è un elemento metafi- filosofia si è assunta il compito di sicamente distintivo della natura elaborare una teoria della conoumana, e l'individuarla porta a di- scenza dal cui punto di vista poter videre la realtà in due regni onto- giudicare le pretese di conoscenza logici: il mentale e il fisico. Con la di altre aree culturali. La filosofia scoperta del cogito Descartes rico- diviene il fondamento delle altre dinosce al pensiero una situazione scipline perché a lei appartengono i assolutamente privilegiata: il pen- fondamenti del conoscere, che ha siero è una «sostanza» che sfugge scoperto studiando l'attività rapprea qualsiasi dubbio. Ciò lo porta a sentativa che rende possibile la coriferire alla coscienza quel caratte- noscenza stessa. re di indubitabilità attribuito dagli Le distinzioni kantiane tra conantichi ai principi primi: l'uomo è celti e intuizioni, tra contingente e certo di essere, anzitutto, soggetto necessario, tra ciò che è dato e ciò conoscente; la sua ragione e la sua che è aggiunto dalla mente, devocoscienza sono indissolubilmente no essere mantenute dall'epistelegate; la sua personalità è un fat- mologia affinché questa possa conto di conoscenza. figurarsi come disciplina specificaRorty vuol dimostrare che que- mente filosofica, distinta ad esemsta concezione del mentale non si pio dalla psicologia. Questa strutfonda su intuizioni preanalitiche, tura kantiana è stata mantenuta ma presuppone l'adesione a tesi fi- anche dalla filosofia analitica e, losofiche sostanziali. In particola- proprio all'interno di questa corre: pensare che la conoscenza rente, criticata da Quine e Sellars, umana sia possibile grazie a qual- che hanno messo sotto accusa, riche elemento speciale significa re- spettivamente, la nozione di «necuperare le nozioni platoniche e cessità» e il concetto di «dato». aristoteliche sulla comprensione Rorty presenta le tesi di Sellars degli universali; sostenere la divi- e di Quine come due forme di olisione della realtà in due sfere fisi- smo: i due filosofi si fondano su un 1ar presupposto comune, secondo il quale comprendiamo che cosa significa «conoscere» quando siamo in grado di ricostruire la giustificazione sociale della credenza. Rorty afferma che, se questa premessa fosse vera, la conoscenza avrebbe a che fare con procedure sociali e non con un insieme di rappresentazioni. Se le cose stessero così sarebbe possibile abbandonare l'intera concezione della mente come specchio e della conoscenza come insieme di rappresentazioni adeguate. Tuttavia né Sellars né Quine hanno portato alle estreme conseguenze queste loro tesi, anzi hanno continuato il loro lavoro ciascuno presupponendo la distinzione abbandonata dall'altro, quasi che la filosofia analitica non si possa esercitare senza mantenere almeno una delle distinzioni kantiane. E Rorty è proprio di questo parere: se non c'è la possibilità di distinguere schema e contenuto, se non è possibile ordinare i concetti entro uno schema, inteso come insieme di categorie che danno forma ai dati della sensazione, riesce difficile immaginare che cosa potrebbe voler dire fare un'analisi. La filosofia del linguaggio, per Rorty, ripropone la tradizione cartesiana, sia pure in una veste completamente nuova e che sembra offrire alcuni vantaggi. Il tentativo di scoprire la relazione tra linguaggio e mondo è in fondo il tentativo di risolvere in termini linguistici il problema cartesiano della relazione tra mondo e pensiero. li vantaggio è che il linguaggio è uno specchio pubblico in cui si riflette la realtà, mentre il pensiero - la mente - è uno specchio privato. Ma questo tentativo è destinato all'insuccesso, perché si muove sempre nell'àmbito di una concezione kantiana del filosofare - concezione resa problematica dopo le critiche di Quine e Sellars. A ll'interno della filosofia del linguaggio, in seguito alle critiche di Quine e Sellar's,si sono venute formando due tendenze che Rorty esemplifica analizzando le posizioni di Davidson e Putnam. Davidson concepisce la filosofia del linguaggio in un modo che Rorty definisce «puro», cioè non epistemologicamente compromesso. In On the Very Idea of a Conceptua/ Scheme, Davidson sostiene che la filosofia del linguaggio dovrebbe abbandonare il «terzo dogma dell'empirismo» - vale a dire il dualismo di schema e contenuto, l'idea di uno schema concettuale che organizza i dati che gli vengono forniti dall'esperienza. Fare uso della nozione di schema concettuale implica la separazione del concetto di verità da quello di significato. La teoria del significato, invece, dovrebbe fornire gli strumenti che consentono di comprendere le relazioni inferenziali tra gli enunciati: in questo modo si possono stabilire le condizioni di verità degli enunciati d'un linguaggio dato. I problemi del significato non devono necessariamente essere collocati in un àmbito cognitivistico, perché questioni di conoscenza e di significato non hanno una speciale connessione. Le teorie del significato non hanno una speciale connessione. Le teorie del significato devono diventare teorie empiriche, che non pretendono di risolvere in termini linguistici i problemi filosofici. La posizione di Davidson ricopre un ruolo centrale nell'argomentazione di Rorty contro la filosofia analitica. Il compito principale del pensiero analitico è fornire un «framework permanente e astorico, nella forma di una teoria della conoscenza, per l'indagine• (p. 257); la filosofia è ridotta totalmente ad analisi del linguaggio, in modo tale da poter disporre di un campo naturale d'indagine - il linguaggio - all'interno del quale si individuano verità a priori. Poiché si possono ottenere conoscenze a priori solo se si è in grado di stabilire il contributo che le nostre facoltà forniscono per la costituzione dell'oggetto della conoscenza, i filosofi analitici hanno sostenuto la tesi secondo cui ogni enunciato vero consta del nostro contributo (la conoscenza del significato dei termini che lo compongono) e del contributo del mondo (i dati di percezione sensibile). Rorty riconosce anche in questa tesi un'impalcatura kantiana e sottolinea che, se quest'ultima viene a mancare, se - come suggerisce Davidson - si abbandona la distinzione tra schema e contenuto, cade anche la possibilità d'individuare a priori l'elemento schematico della conoscenza: la filosofia del linguaggio non è più in grado di fornire un framework permanente per l'indagine filosofica. L'argomentazione di Davidson condurrebbe, quindi, a una riduzione della filosofia analitica entro limiti che, tradizionalmente, hanno circoscritto l'àmbito dell'analisi grammaticale: l'unico suo compito sarebbe la spiegazione delle relazioni che sussistono tra le parti di una determinata pratica sociale (l'uso di certi enunciati). U na filosofia del linguaggio intesa in questo modo ha un interesse «negativo», perché conferma che l'analisi del linguaggio non è d'aiuto per la soluzione di problemi filosofici. Rorty ritiene che la posizione di Putnam sia il risultato di una mescolanza tra teoria «pura» del significato e considerazioni epistemologiche «impure». La sua critica è centrata sulla difesa del realismo elaborata da Putnam in numerosi saggi. La posizione di Putnam si riduce a tre tesi fondamentali (o meglio, si riduceva a tre tesi fondamentali quando Rorty pubblicò il suo libro; la riflessione putnamiana sul realismo si è andata sempre più approfondendo, giungendo a un più raffinato «realismo interno•). La prima tesi sostiene che nessuna riduzione del concetto di verità in termini di «asseribilità garantita» - o di «verità all'interno di una teoria» - ha le stesse strutture sintattiche del termine «vero». Rorty obietta che il fatto che noi possediamo la nozione di verità non dimostra né che sia necessario costruire una teoria per esplicarla, né che il realismo riesca a dame un'esplicazione soddisfacente. In realtà, la tesi di Putnam è più articolata di quanto pensi Rorty: egli sostiene che la nozione di «asseribilità garantita» è un'intuizione idealista che i realisti dovrebbero far propria, ma senza dimenticare che il concetto di verità ha caratteristiche che non possono venir risolte in alcuna nozione che faccia appello alla relazione di giustificazione. La seconda tesi afferma che solo su basi realistiche si può spiegare la convergenza delle teorie scientifiche. Nella terza tesi Putnam sostiene che solo il realista può garantire il riferimento dei termini scientifici. Questa tesi è l'unica che viene discussa seriamente da Rorty. Infatti, egli ritiene che soltanto questa posizione possa trovare nel panorama filosofico un oppositore in carne e ossa, mentre le prime due gli sembrano rivolte verso un interlocutore immaginario. Egli osserva che un'indagine linguistica, anche se condotta su fondamenti realistici, non è in grado di dare garanzie sul riferimento dei termini, perché si può scoprire come funziona il linguaggio solo all'interno «dell'attuale teoria sul resto del mondo», e le teorie linguistiche non possono esser usate per sottoscrivere una parte di questa «teoria globale». Possiamo comprendere meglio l'obiezione di Rorty tenendo conto del fatto che ogni sua critica a Putnam e alla filosofia del linguaggio «impura» è dettata da un approccio «pragmatista» al linguaggio - approccio che egli riscontra in Sellars, in Wittgenstein e in Davidson. Nel capitolo dedicato al.lafilosofia del linguaggio, Rorty attacca anche la «nuova teoria del riferimento», la cui formulazione da parte di Kripke e Putnam gli sembra determinata dalla confusione di due esigenze diverse: da una parte, la richiesta di una teoria semantica generale; dall'altra, la ricerca epistemologica di un punto di vista trascendentale, al di fuori del nostro insieme di rappresentazioni, da cui poter indagare le relazioni tra quelle rappresentazioni e i loro oggetti. È chiaro che Rorty non può sottoscrivere quest'ultima pretesa: la filosofia del linguaggio non dovrebbe tentare di porsi al di fuori della cultura per giudicare il successo delle altre aree culturali. La critica di Rorty alle teorie del riferimento non tende a presentare una nuova teoria che le sostituisca, ma a dimostrare che l'esigenza che conduce alla loro formulazione è fuorviante, perché è un aspetto della nozione di fondazione che continua a dominare l'esercizio della filosofia. Il suo libro è «terapeutico» piuttosto che «costruttivo»: vuole dimostrare che la filosofia dovrebbe liberarsi dell'esigenza epistemologica, fondativa, che l'ha tenuta prigioniera fino a oggi. Se la filosofia seguisse l'insegnamento di Heidegger, del secondo '<> Wittgenstein, di Dewey, se si -. orientasse verso una pratica «edifi- ~ cante» piuttosto che verso la co- -~ struzione di sistemi, diventerebbe "'- «una voce nella conversazione del- ~ ~ l'umanità», una voce che ha il solo .!,! compito di aiutare la società a li- E berarsi dal vecchio vocabolario, :ls «piuttosto che fornire una fonda- ~ zione alle intuizioni e agli usi del ~ presente» (p. 12).

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