Alfabeta - anno V - n. 44 - gennaio 1983

A mio avviso, dunque, tutto il confronto sulla «tecnica» è riduttivo. Ciò che importa è piuttosto: a) la consapevolezza del linguaggio come non strumentale, b) l'immissione dei fattori costruttivi· della narrazione in una ragione culturale complessiva del periodo. E eco, a effettuare un brevissimo ritorno d'attenzione al testo di Robbe-Grillet, si osservi come la sua .singolare operazione, esemplare, con elementi costanti ed elementi in evoluzione, risponde proprio ai due punti: esclude ogni strumentalità del linguaggio senza costituirlo come essenz11(inevitabilmente estetistica); si rende operatore avanzato nell'àmbito della ragione culturale che si sta rivoluzionando nel suo periodo. Certo, questi sono rilievi che hanno una loro ovvietà; ma determinano un altro punto di vista. Possiamo semplicemente dire, a rigore, che Robbe-Grillet è scrittore con uno stile pieno di abrasioni, sbavature, stesure a più strati, come un pittore fra rastrattismo e l'informale. Si può vedere in questo senso Dijn11, con lo splendido inizio e col cieco condotto da un ragazzo, simbolo della vita ... Ma, per dire qualche cosa sul secondo punto, a distanza riscontriamo che è della data del '62 il libro di Kuhn sulle rivoluzioni scientifiche dove è posta la strana nuova domanda che la scienza, come l'arte, non abbia un progresso in avanti ... Di qui si apre una questione su cui ancora insiste Putnam, che ha perso ogni fiducia nella scienza ... Si sa bene che si tratta della perdita di certezza nell'esperimento come verifica, ancora al di là della critica di Popper. Ecco, in questa sfera nuova di un confronto possibile della scienza e della letteratura si trova a mio avviso la più precisa ragione attuale di riferimento critico-teorico a Robbe-Grillet. E ad altri testi - con una possibilità critica nuova. Se l'episteme, e cioè il sostrato o nucleo di certezza della conoscenza, viene sofisticata, derivando da ciò una tendenziale equivalenza di statuto della scienza e della letteratura, che si muoverebbero entrambe secondo la congettura, ci possiamo certo distanziare dall'intenso e semplificato dibattito del '60, ·ma possiamo formulare in rapporto anche con esso umr questione nuova. Questa, appunto, del valore cognitivo della letteratura, della conoscenza in letteratura, come qualche cosa che non è «contenutistica» e tocca radicalmente l'etica, la percezione, l'atteggiamento mentale. Moravia5,.~~ara, 1934 Alberto Moravia Lettere dal Sahara Milano, Bompiani, 1982 pp. 204-,lire 12.000 1934 Milano, Bompiani, 1982 pp. 272, lire 12.000 N elle Lettere dal Sahara (p. 105) il protagonista (in questo caso l'autore stesso, che parla in prima persona) si trova ingiro per Roma, frastornato dall'orgia del consumismo. Lì per lì decide di partire per Nairobi, lontano dalla ressa· dei «saldi» europei. «Detto e fatto - si legge. - Telefono a Nairobi ad un mio amico (... ) e lo prego di trovarsi all'aeroporto». Poche pagine dopo (p. 112) il protagonista, che è già in Africa, vede dalla finestra di un motel sopraggiungere «tre grandi autobus zebrati di una agenzia turistica». Subito si riscuote, corre dall'amico: «'Stanno per arrivare i turisti. Scappiamo a visitare il parco prima del loro arrivo'. Detto e fatto, dieci minuti dopo siamo già sulla pista, lontano dal motel». Ancora una fuga dal consumismo e ancora una formula: «detto e fatto». Pochissime pagine dopo (p. 116), il protagonista si oppone ad andare a vedere i leoni perché li trova troppo «turistici» e, per dir così, consumistici; ma l'amico lo convince del contrario, spiegandogli che invece sono animali tipicamente africani. «Detto e fatto, prendiamo a girare per il parco, alla ricerca di rocce (... ) in cui si mimetizzi il re della foresta». La formula «detto e fatto» ricorre tre volte nello spazio di poco più di dieci pagine a indicare una traslazione di piani: dal piano della società consumistica a quello dell'Africa, dal noto all'ignoto, dal mondo conosciuto e regolato dell'Europa al mondo sconosciuto e mostruoso dell'Africa. Si'suol dire che fra dire e fare c'è di mezzo il mare: questa, formula supera d'un balzo questo "!ar~.-C'è uno scatto - che è anche quello che passa fra il desiderio e la sua realizzazione, esattamente come nelle fiabe. Non manca, tuttavia, neppure l'esempio opposto. Poche pagine dopo quelle citate (esattamente al- • le pp. 140-41), viene descritta l'uccisione di un coccodrillo, il cui cadavere viene poi gettato sul tetto della Land Rover. La zampa del coccodrillo resta sospesa davanti al finestrino e pare che batta contro il vetro per richiamare l'attenzione del protagonista. È un appello vagamente minaccioso: quasi l'appello della morte. Ed ecco la conclusione: «Perché bussa al vetro questa manina catafratta? Forse per raccomandarmi che debbo ricordarla se. racconterò la morte del coccodrillo. Ecco fatto». Qui l'«ecco fatto» ha una funzione analoga al «detto e fatto», e insieme opposta. Dalla minaccia dell'ignoto ci riconduce al noto, al mondo razionale (per Moravia) della scrittura e della letteratura. L'anormale viene ridotto al normale attraverso l'atto scrittorio . Abbiamo qui, in nuce, il processo stesso con cui il libro è stato costruito. Da un lato l'Africa (ad esempio lo Zaire, pp. 170-71) è un «mostro incredibile e affascinante», un «altro mondo» da cui è esclusa l'umanità (vedi pp. B1b1101ecag1nooianco 203-4); dall'altro, questo «altro mondo» è letto, interpretato e conosciuto attraverso gli strumenti della letteratura (significativo il continuo riferimento al Conrad di Cuore di tenebra, durante il viaggio sul fiume Zaire) e comunque della ragione europea, la quale giudica ciò che le è semplicemente estraneo come mostruoso. Da un lato dunque il «diverso» attrae, dall'altro spaventa e viene esorcizzato attraverso la sua emarginazione a «mostro» e la sua riduzione a og~etto letterario. E un processo che collega Moravia al reportage della prosa d'arte degli ex rondisti: non per scelte di linguaggio e di stile, beninteso, ma per un rapporto col «diverso» che è in parte simile a quegli esempi. Nel capostipite di questo genere, infatti, il Cecchi di Pesci rossi, descrittore di pesci dall'aspetto mostruoso se visti di fronte, ma eleganti e delicati se colti di profilo, o degli animali dello zoo in Bestie sacre, il disordine, l'ignoto, l'abnorme, filtrato attraverso gli schemi dell'umanesimo fiorentino, viene trasferito nell'ordine, nel noto, nella norma. Va da sé che il riferimento vale solo fino a un certo punto. Giova,, infatti, ritornare alle considerazioni fatte a proposito della formula «detto e fatto». È una formula fiabesca. E non solo perché della favola ha la virtù semplificante, l'annullamento delle mediazioni, ma anche perché ne pone in rilievo un procedimento: attraverso la favola l'ignoto trova il suo lasciapassare - benché limitato dalla coscienza che appunto di favola si tratta. Così succede, a volte, che Moravia (di cui, d'altronde, è noto l'interesse per il racconto fiabesco) spiega una scena «diversa», strana, proprio riducendola a una favola conosciuta. Quando descrive i pigmei, dapprima ricorda Biancaneve e i sette nani, poi osserva: «I pigmei intonano una loro canzone che risuona curiosamente canzonatoria e maliziosa nel silenzio della foresta. E allora, ad un tratto, il già visto, il già immaginato si rivela. Sto vivendo la favola tedesca degli gnomi che fanno il girotondo intorno alla loro minuscola casetta sepolta nel cuore della foresta» (p. 199). Appunto: il mai visto viene ricondotto - e ridotto - al déjà vu attraverso la favola, la diversità africana agli schemi della cultura favolistica mitteleuropea. Di nuovo, insomma, è al mondo della scrittura e della letteratura che viene deputato tutto il potere della mediazione - e della neutralizzazione. Esattamente come nell'esempio della zampa del coccodrillo. Ma il ricorso alla favola, se semplifica l'approccio all'ignoto nel momento stesso in cui gli lascia un varco ove può legittimamente manifestarsi, è pur sempre indizio di un'ansia non risolta, di una minaccia esorcizzata eppure incombente. Il mistero del «diverso», per quanto tenuto sotto controllo, sembra in parte sfuggire alle maglie interpretative della letteratura. A volte il confronto-filtro col mondo occidentale e con la sua cultura non basta, o non regge. Si veda la conclusione di «Tamburi nella notte», ove il ricorso a immagini e situazioni del mondo infantile europeo (la «bambola leggera») non serve, e alla fine gli europei si ritrovano «quasi increduli, nel silenzio e nell'oscurità della boscaglia» (p. 41). Questo «quasi increduli» è una spia significativa. Sta qui la chiave del libro: nella presenza di un irriducibile doppio-fondo. Moravia tende sempre a ridurre la vita alla sua superficie spiegabile: insegue sempre un meccanismo semplice di causalità, che lo induce a razionalizzare, a semplificare, a schematizzare. La sua scrittura è una macchina stritolasassi che tutto macina e riduce a proporzioni mi-· nime e note. Eppure qualcosa resiste, s'oppone, fa gorgo. E proprio in questo incepparsi del meccanismo c'è il Moravia più inquietante e moderno. Vale la pena d'aggiungere che a tale incepparsi corrisponde anche un allentamento - o una temporanea messa in cri.si - della funzione mediatoria e neutralizzante della letteratura. A nche in 1934 il mistero della duplicità della civiltà occidentale - esemplata sul suo cardine, la coltura tedesca - viene .,,,_ ridotto a un gioco di maschere, allo scambio-identità di Beate e Trude, scambio reso addirittura più verosimile e razionalmente accettabile dal fatto che Trude è un'at- .$! trice di professione. Ne deriva il l§ solito meccanismo a incastro, ba- ~ sato sull'implacabilità dell'intrec- "<> . ~ ao, sulla scorrevolezza caus.µe de- ~ gli avvenimenti e sulla spiegazione minuziosa e razionale di ogni episodio. Moravia probabilmente non si è

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