Alfabeta - anno IV - n. 42 - novembre 1982

Ilnomttdtlpoeta S i scrivono poesie, si stampano, si leggono pubblicamente, con o senza happenings. Tutto sembra andare da sé, ma le operazioni non sono affatto omogenee: fra l'una e l'altra viene introdotto un grosso problema, solo in apparenza pacifico: il problema del nome. Mi è capitato, come a tanti, di leggere qualche mia poesia in pubblico, vincendo però resistenze interne fortissime. A che titolo le ho vinte? Per un'improvvisa - cioè sopravvenuta in loco - illusione di raggiungere un effetto profilattico. Mi pare che in queste pubbliche letture i versi vengano detti dal «gran veglio di Creta», che risuonino dentro la sua testa di oro fino e dentro il torace d'argento, con un timbro assolutamente estraneo, in una cavità che non ha più niente a che fare non solo con chi li pronuncia, ma con chi li ha scritti. Quell'avida appropriazione che vorrebbe fame la «bocca d'autore», serve invece a certificarne, in modo definitivo e un po· scandaloso, l'inappartenenza. Recitare versi propri sarebbe dunque un modo come un altro per mostrare che non si ha proprio niente a che farci. Pare che sia esattamente l'opposto di quanto avviene quando si pubblica a stampa una poesia, con il proprio nome in coda o sul frontespizio di un libro. Ho già detto che qui s'inciampa nella questione del nome, questa specie di esca, di specchietto, di trappola. Il rapporto fra il nome e colui che lo porta, e dunque fra il nome e colui che scrive, ha carattere complesso e non privo di sorprese. C'è un aneddoto riportato da Benjamin in Angelus novus, ad apertura dello studio su Kafka (tutti sanno l'importanza della nominazione in Kafka) che mi sembra funzioni in proposito. Potiomkin, il favorito di Caterina, soffriva di crisi depressive durante le quali si chiudeva in camera, abbandonando tutti i doveri politici. In occasione di una di queste crisi, un gruppetto di ministri imbarazzati sta davanti alla porta della stanza di Potiomkin con fasci di documenti da firmare. Sopraggiunge uno di quei funzionari o faccendieri di mezza tacca di cui abbondano le cronache reali e romanzesche della Vecchia Russia, Suvalkin; coglie al volo l'imbarazzo dei potenti; si fa consegnare le carte da firmare, entra senza esitazione da Potiomkin. Il quale è seduto sul letto in vestaglia, lo sguardo perso nel vuoto. Suvalkin senza complimenti gli mette davanti i documenti, gli infila fra le dita una penna, e Potiomkin comincia a firmare autl)maticamente. Di Il a poco Suvalkin esce trionfante, consegna i documenti dicendo: «Ecco fatto•. Gli altri gettano l'occhio sui fogli: ma al posto della firma di Potiomkin, vedono solo un nome ripetuto: Suvalkin, Suvalkin, Suvalkin... È un aneddoto affascinante perché passibile di più interpretazioni. Prendiamone intanto una che faccia al caso. Quel nome scritto in fondo ai documenti non è molto diverso dal nome scritto in fondo a una poesia: e allora bisogna pure ammettere che possa slittare, lasciarne comparire un altro sotto di sé, o più di uno o nessuno. Se si immagina per un momento che le parti siano quelle dell'autore e del lettore, a chi toccherà l'una, a chi l'altra? A Potiomkin? A Suvalkin? O non sarà invece più importante un altro fatto, il sostituirsi del nome come in un gioco di sparizione e riapparizione? Con il nome ogni essere umano riceve, anzi si vede imposto, un nodo di attributi; si trova iscritto nel discorso comune famigliale. , Eppure questa marca potente e irrimediabile di individuazione, di destino, può anche capovolgere il proprio valore. Se il nome di Suvalkincompare là dove tutti si attendevano di leggere Potiomkin, ciò significherà probabilmente che il nome si è staccato e non indica più nessuno, nessun soggetto necessario. Ed è proprio Annales Giuliano Gramigna Annales:8 L'azzurro e bianco soffiuo che tremola nella febbre dell'occhio bambino e rotola da un angolo ali'altro il lampadario come testa kanaka fra rosette e stucchi - calda come la mano streua sul genitale fra le cosce; c'è chi riconosce le strie fredde dei vascelli che trasmigrano e gli equinozi scolastici e con gaie voci i virili addii sollo il bersò del Yucatan, smerleuati di gelo i giacinti polari. Né donna né madre in qULSticonversari favolosi su cui dondolano le lampade sorelle. Le mele dipinte /'uve dilavate e distinte stavano dove lui leguardava in un angolo circumcinte dal nembo del Nume Fulgurativo. «Se brilla il wau nello spazio io... io sarò... »: che futuro contiene ciò che supera la tronca? Altri plafonds più belli s'immaginano agli zampilli snelli alle vetrate nel sole del Réservoir. Annales:11 l'oro caldo in riposo sopra le scatole di Clare's sventolavano i nastri sulla riviera dell'Avon mera indolenza nera metéora e luminosità! quanti numeri ha contato l'osservatore della pioggia somme di nanosecondi infinitive. Dalla loggia invetrata sul corso dentro il corso dei tempi- finché la sera di febbraio in cortocircuito scatena l'elettrico brucia di blu lo scheletro del già stato ... (fulgurante di giubilo per un istante lafiamma del fornello Meta) in presenza di un foglio di carta scritta che si produce questo evento di portata e senso incalcolabili. Così, da un aneddoto di storia - da un aneddoto sulla nevrosi, se si vuole - si scivola quasi senza arbìtri e forzature alla questione del testo (poetico), del suo rapporto con il nome, e in definitiva del suo modo di farsi. S crivere (nel caso: scrivere poesie) significa immettersi una seconda volta nella catena parentale: fatto insieme indispensabile emicidiale. Ma in realtà il rapporto si capovolge rispetto all'interpretazione coB1blloecag,noo,anco mune: l'autore non è colui che genera il testo ma colui che ne è generato. È il testo che tende a condizionare lo scrittore, a tagliargli tutti gli svincoli, a chiuderlo nel nome, segno che non si riferisce ad altro che a se stesso e dunque è inconvertibile in altri segni. Si odora la dialettica Servo-Padrone, ma resta abbastanza ambigua la distribuzione delle parti. È l'impasse della castrazione. La caAnnales:13 Umido e triste urgeva il luogo quadrato luogo della svista - Piace des Vosges piena ipotetico poeta, Juan Mairena, la responsabilità di tirare in ballo la «macchina per fare versi». Mairena, a sua volta, dà il merito della scoperta a Jorge Meneses. Non sfuggirà a nessuno la finezza che, in questo problema che riguarda la poesia, si trovino coinvolti due poeti totalmente immaginari. La pseudonimia di secondo e di terzo grado prende il posto dell'anonimia, ma l'effetto del trucco non di voglie e spicchi di pioggia (forse spacchi spegli?). Appare come che sia il suo viso di là dal Flegetonte. «Cammina cammina, la Butte è un errore topografico; sfori in piena campagna su una gobba verde pensile su Parigi... » La festa lafaceva con l'occhio instancabile stralunato gioioso. Annales: IS Questo che è quanto di più duro si può immaginare andare avanti a colpi di testo come il baco sulla foglia fra un attacco e una cancellatura biascicando placente finché qualcosa - e che dentro vi germogli il piccolo uomo o una stanza vuota piena di sole a tarda mattina o un charabia o il gimnoto che si tuffa nel/' acqua immobile e vi scarica il magnete e tutto si scrolla in spasmo metrico in gaudio epilettico il mondo! macché mondo, il nervo dietro lafronte scorticata senza risultato. « Ti porto il figlio di una notte idumea»: piuttosto sepolto nel sonno dell'irr-azione. Ora: ascolta la lunga lezione della stupidità. In fretta in fretta prima che coli fuor dalle orecchie il cervello. Ho ... hoo .. stringiti in alto-mutismo O/de Holderlin! altriflagelli altri uccelli roventi di pazzia prosodie estatiche scritte sul bordo ... Se anche il farnetico ora tace il suo silenzio il suo nume Amenzia era diverso. straziane è la risposta a un enigma, si sa; qui, mettiamo, all'enigma: Che cosa è una poesia? Per anticipare la minaccia, ci si precipita nella fobia: la fobia del nome. Prima che il testo ci castri, lo castreremo sottraendogli il nostro nome. Questo taglio non significa certo che la poesia, allora, cominci a essere «fatta da tutti», come recita un'affermazione famosa. Semplicemente, che sia fatta da se stessa. Del resto, si può credere dawero che il nome venga cancellato? Dietro il nome, s'iscrivesempre l'ombra del Nome-delNome, sorta di super-io feroce. Antonio Machado attribuisce a un cambia. Esso agisce pressapoco come il pianino versificatore dello pseudo Meneses: il quale non tanto serve a far subentrare al poeta titolare una specie di Volksgeist, come vorrebbe il suo inventore, ma a sottolineare la distanza incolmabile che l'apparizione di un verso o di una sequenza pone rispetto a qualsiasi soggetto. Perché questa distanza? Una delle superstizioni più care, è che la marca distintiva della poesia sia la necessità: insomma che in una poesia ormai coagulata storicamente nel suo stadio cosiddetto definitivo, niente sia più spostabile, neppure uno iota possa venire cambiato; che qualcuno vi abbia parlato «per sempre». Tutto ciò che c'è non poteva non esserci, e viceversa. Eccola «candita ... in un'eternità d'istante», per usare (sia pure fuori posto) un'immagine montaliana. Valéry - l'ora un po' troppo snobbato Valéry - aveva già notificato che non esiste una fase definitiva della poesia, solo una sezione possibile... Proviamo dunque a credere che la natura della poesia sia stocastica, vale a dire squisitamente congetiurale: che essa risieda in un incontro, in una tuche, eutuchìa o dystuchìa non si sa bene, in un quadrillage probabilistico - catastrofe che si produce istante per istante secondo certe linee di separazione che potrebbero essere altre (forse lo sono già). La sola necessità congetturale della poesia è: non cessa mai di scriversi, secondo la formula lacaniana. Tutto quanto costituisce un verso, una sequenza poetica, è dunque il prodotto di una affascinante innecessità - ciò che non gli impedisce di essere «più duraturo del bronzo»·. Questo caso che ci troviamo davanti agli occhi, che ci affascina e ci trasmette il segno stesso della poesia, è, si capisce, un caso di natura tutta particolare, che diventa addirittura una legge: la legge, per dire, delle attrazioni mobili delle particelle, anche minimali- semantiche, foniche, ritmiche, pulsionali - dal cui incontro si costituisce la frase poetica. All'interno di tale legge non-necessaria si trova il posto dello scrittore di poesie; vi si determina e organizza il suo rapporto con il testo, ciò che è detto correntemente «il sùo testo». Avevo accennato prima a una «distanza». C'entra pure il nome, il nome proprio che designa l'autore. L'atto poetico consiste anche nel separare il testo dal nome, staccare questo nome in quanto tale, affidandolo alla fortuna (fors) di rincontrarsi come parola con la parola della poesia. Tale separazione, magari solo di un attimo, significa questo: che si rifiuta almeno una necessità, quella che vuole costituire un cordone di subordinazione generativa fra il testo e lo scrittore. S embra forse che io stia parlando un po' di lana caprina, del narcisismo e contronarcisismo dell'àutore, di ciò che riguarda piuttosto le piccole vicende o idiosincrasie del soggetto. Ma configurarsi il Testo della tuche vuol dire intendere anche un certo modo del fare poetico. Secondo il movimento che vi si opera, il testo coagulato si detestualizza e si ritestualizza in una pluralità di eventi, che non sono rappresentati soltanto dalla infinita trasmissione ai lettori ma dal puro comparire del testo stesso nel campo del reale. Un testo che compare è già un testo che sta spostandosi verso altro. Ecco, è la presa di coscienza e di attenzione della funzione del Caso, nel suo rapporto con le grandi pulsioni, che potrebbe costituire un punto molto importante nella lettura della poesia e nella costruzione di ipotesi su ciò che essa sia. Ci sono arrivato per una strada abbastanza storta, partendo dalle buone o cattive ragioni di leggere versi, dall'anonimato, dalla decapitazione volontaria o involontaria dell'autore. Sklovskij osserva che per diventare ittiologo non occorre essere un pesce. Avere una certa idea della poesia non significa che si riesca ad attuarla. L.-

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