Germano Celant «Uno sguardo dal corpo», in Il patalogo due, voi. 2, I980 Marcia B. Siegel «New Dance in America», in Ballet lntemational n. I , I 982 Karole Armitage/Rhys Chatam Drastic Classicism Vienna, 1982 Dana Reitz Steps, Single score, Steps Il Vienna, 1982 Bill T. Jones and Arnie Zane Valley Cottage, Rotary Action Vienna, 1982 Eiko-Koma Fur seal Vienna, 1982 Charles Moulton Dance Company Vienna, 1982 Molissa Fenley and Dancers Vienna, 1982 F ino a pochi anni fa il termine «new dance» definiva esclusivamente quella danza americana universalmente riconosciuta d'avanguardia sviluppatasi in modo più o meno ortodosso soprattutto sulle basi teorico-pratiche dell'estetica (e poetica) di Merce Cunningham ma anche di Ann Halprin (1955) e Judit Dunn («danza è quando decidi di riconoscerlo, quando lo lasci succedere, quando lo vedi e lo dici, quando lo fai e non importa dove e quando»). Diventato progressivamente obsoleto e confuso, il termine «new dance» tende oggi a riferire semplicemente della contemporaneità. Ma all'imbarazzo della definizione che non discrimina più i suoi prodotti sul piano delle ascendenze tecniche e teoriche (cosa di per sè innovativa), corrisponde una scarsità di progetti con intenzione ed effettualità sperimentali così che, in linea generale, la definizione «new dance» appare quasi sempre azzardata, impropria, oltre che priva di referenze. Eppure il fascino di questa etichetta sopravvive alla sua impertinenza, specie in Italia dove qualsivoglia prodotto ripetitivo, geometrico, astratto proveniente dagli Stati Uniti si guadagna automaticamente lo status e l'altura di avanguardia. Il fatto che anche in America a questa vecchia new dance si rimproveri di essere sempre più somigliante ai sistemi cui si oppone e più conservatrice della danza moderna degli anni Trenta, non pregiudica nulla; men che meno il gradimento e la comprensione del pubblico e della critica, felici entrambi di poter finalmente applicare a tali prodotti le medesime categorie estetiche di giudizio valide alle performances della Grand Union (un gruppo spontaneo, formato tra gli altri dai performers Trisha Brown, Yvonne Reiner, Steve Paxton, David Gordon, Barbara Lloyd, Nancy Green, Douglas Dunn) e in parte ai lavori di Luchinda Childs per ritrovare le ultime tracce di una ricerca sistematizzata e collettiva con spessore di tendenza. Non un progetto oppositivo rispetto agli studi e alle analisi strutturali sul linguaggio danza effettuate dagli stessi performers della Grand Union negli anni Sessanta ma una serie di aperture narrative, anti-analitiche e spontanee di tipo squisitamente teatrale. I principi base degli anni Sessanta sintetizzati nella performance Terrain (1963) di Yvonne Reiner, una delle personalità più importanti del periodo della Judson Church (dal nome della chiesa dove questi performers si esibivano) e successivamente della Grand Union, erano i seguenti: no allo spettacolo - no al virtuosismo - no alle trasformazioni alla magia ai trucchi - no alla glamour e alla trascendenza dell'immagine della star - no all'eroismo - no all'anti-eroismo - no alla metafora letteraria - no al coinvolgi- "\ \ ' '1' ~\l&t ~ ,i\)>t -~... ~ ~-, .,._ mento del performer e dello spettatore - no allo stile - no alla seduzione dello spettatore - no all'eccentricità ... Per Reiner e gli altri la ricerca si era concentrata sul come muoversi nello spazio tra la ridondanza teatrale con il suo fardello di «significato» drammatico e psicologico e gli effetti d'immagine e di atmosfera del teatro non drammatico e non verbale (per esempio la danza e certi «happening) - e il teatro della partecipazione dello spettatore e/o dell'assalto. Questi performers vi si misurarono singolarmente per scoprire, come aveva già teorizzato Ann Halprin «cosa potevano fare con i loro corpi senza imparare lo stile o la tecnica di altri•. Rispetto a queste premesse la Grand Union è un passo successivo. da sempre per distinguere e vagliare Q ui viene messa in discussione, gli spettacoli di danza moderna e di per prima, la solitudine del percollaudato balletto: virtuosismo, spet- former che sostituisce all'utopia tacolarità, coerenza formale. sovversiva del suo corpo auto-parlante Ma se la crisi di nuova progettualità e chiuso alla ricerca di un sistema della danza americana poteva dirsi democraticamente oggettivo di moviavviata a partire dalla fine degli anni mento (all'interno del quale proporsi Settanta, essa viene ulteriormente in quanto persona e non in quanto mostrata dal disorientam~nto delle danzatore) la necessità di un corpo che ultime proposte presentate in Europa: dialoga sulla base dell'improvvisaziodal saggio punk-rock di Karole Armi- ne e si propone come scrive Steve Paxtage/Rhys Chatham, ai racconti im- ton (riferito da Germano Celant): provvisati dentro rigide coordinate «una realizzazione individuale nel spaziali e temporali di Dana Reitz, dai gruppo e di volta in volta una temporatesti ilari e cont!lminati degli atleti Bill lità e una comunicazione verbale e fisiT. Jones & Arnie Zane ai disegni di ca che siano in rapporto con gli altri•. ingegneria ludica di Charles Moulton L'approdo è la drammatizzazione fino alle estenuanti prove di durata fi- improvvisata, una labile parvenza di sica di Molissa Fenley. coreografia disarticolata e non premeQualche passo indietro. Occorre ditata dal gruppo che nasce direttarisalire al periodo 1970-1975, ovvero mente sotto gli occhi del pubblico ri81 bI IOteca g In O b Ia n CQ Marinella Guauerini pristinando - suo malgrado - il peso e il fascino emotivo del soggetto teatrale e «professionale» che narra la sua storia «agendola» attraverso la danza pur essendo ancora «agito• da quest'ultima alla luce delle esperienze di decodificazione del testo danza riferibili al periodo della Judson Church. Nelle performances della Grand Union il gesto semplice, la camminata, la caduta, l'azione individuale stimolata nel e dal gruppo acquista uno statuto polisemico. L'azione si estroietta, si finalizza alla comunicazione, rivela una nuova realtà «spettacolare» molto lontana dalle monosemiche esplorazioni del movimento e del gesto del primo post-modem. È in questo delicato momento di sutura di oggettivo (il corpo «mosso») e soggettivo (il corpo «che si muove»), di analisi e di sintesi, di negazione (del corpo preparato alÌa danza, dell'enfasi, dell'interpretazione, del complesso, dell'effimero danzato con aura d'arte privilegiata e privilegiante) e di negazione della negazione che si situano, crediamo, i primi sintomi dell'impasse creativa e della cristallizzazione odierna. Infatti, con lo scioglimento della Grand Union la maggior parte dei suoi elementi non rinunciano né alla decodificazione analitica del movimento né alla «soggettività nuova» cui l'esperienza del ~ruppo aveva fornito in sede di evento spettacolare collettivamente improvvisato, la verifica e la garanzia di esistere in quanto «teatro». La fase successiva, inevitabile per molti (non per Yvonne Reiner che consapevolmente scelse il cinema per non limitarsi o per superare di continuo - come scrive Celant - i suoi limiti di danza e di vita) è la messa a punto di veri e propri vocabolari stilistici. Naturalmente non si tratta di stili in senso accademico. Questi modelli sono poliednci, diversificati, personalizzati a misura del performer; se confermano ancora uno dei principi-chiave del post-modem (eterogeneità delle procedure del corpo) si rivelano tuttavia anti-spontanei e anti-casuali specie se applicati ad altri, ad esempio i membri della compagnia che questi performers sono andati a creare. Di più, se non si conoscessero i loro presupposti liberatori - come riferisce Marcia B. Siegel - si potrebbero considerare come modelli costrittivi al pari di qualsiasi tecnica di danza. Nell'arco di un decennio, la new dance americana è passata dalla rottura a-tecnica e minimalista (oltre Cunningham), alla riscoperta della tecnica, dalla spontaneità al virtuosismo e al recupero della coreografia, dalla nondanza alla super-danza. In sintesi: dall'utilità del progetto prescelto secondo criteri di rottura rispetto ai valori ac- ·quisiti, alla modalità della sua esecuzione. Ma questo dibattito sul «come» verte ancora anacronisticamente sull'estetica della Judson Church spettacolarizzata all'infinito. Per questo il -performer virtuoso tende ad escludere le varianti (punta alla ripetizione continua), ad eliminare l'imprevisto, a fossilizzare i suoi rapporti interdisciplinari (musica, pittura, scena), alla maniacale perseveranza nella confezione di un gesto irripetibile, certo, ma sempre più perfetto e puro. Questo performer non è più creativo è più produttivo. Spesso accolto dal mercato, dai mass-media, dal pubblico e stanato dai lofts, ha raggiunto il trag_uardo dell'ufficialità nei grandi teatri. I n questo quadro piuttosto commemorativo, alcune ultimissime proposte americane sembrano quanto meno originali. Scelgono la contaminazione linguistica, l'ironia e l'auto ironia come cifra privilegiata, propendono per un'azione teatrale ristretta entro schemi più tradizionali (sviluppo e variazione del tema) in cui l'immaginario del gesto sfiora o intromette suggestioni e suggerimenti dei mass-media diffusi, dal cinema al fumetto fino al teatro di varietà e al concerto punkrock. Supportata da un virtuosismo sempre più accentuato, questa danza ricerca le sue ascendenze teoriche non .nella precedente generazione di tecnocrati del gesto ma ancora una volta nei postulati estetici di Merce Cunningham e persino nella «motion• postrelativista (contrapposta alla «emotion•) del teatro-danza di Alwin Nikolais. Drastic C/assicism di Karole Armitage, ex-danzatrice nella compagnia di Merce Cunningham, è un progetto che si inserisce con sette anni di ritardo nel filone spettacolare della generazione punk-rock riproponendo la furia e la violenza distruttiva dei Sex Pistols. Riferita alla danza questa operazione mantiene tuttavia l'originalità e l'esemplarità del campione unico. L'idea è il recupero di un rigore classico nella dissoluzione e nella nausea enfatica e romantica del mondo punk; la pretesa è lo iato sublime degli opposti: caos e ordine, stasi e movimento, geometria intellettuale e spontaneità infantile, tradotti in una danza classica (prudentemente recuperata senza sporca ture e i movimenti sono i più elementari e riconoscibili della tecnica accademica), continuamente abbruttita e vilipesa. Questo violento pamphlet punkrock in cui la musica di Ryhs Chatam (è rock classico) segue le procedure della danza, esaspera al limite la spettacolarità del suo insieme tecnologicamente perfetto, coerentemente esaltato da una totale assenza di sfumature espressive. Documento dichiaratamente effimero (con il ritardo del caso), Drastic Classicism sembra scardinare l'integrità del continuum new dance, ovvero di quella sperimentazione bloccata che perdura nell'analisi dei suoi punti di forza. Con Bill T. Jones e Arnie Zane, l'apertura interlinguistica è determinante. I seducenti testi parlati e danzati (Valley Couage, Rotary Acrion) con recuperi da Broadway, dal cabaret, di una biomeccanica chiassosa e clownesca della coppia maschile, innescano un processo di complicità narrativa con il pubblico e la dinamica registica mette in luce le funzioni dei due attori/protagonisti, eroi e vittime. Qui, la contaminazione con il linguaggio del teatro verbale è evidente ma non si esclude neppure nelle raffinate partiture improvvisate di Dana Reizt, solita, la cui propensione per il gesto guidato e concatenato (ma rotto in un puntinismo di punteggiature infratestuali) procede verso una narrazione soprattutto emotiva. Le improvvisazioni su silenzio di Dana Reizt (Steps, Single Score, Steps Il) sono un caso particolare e fecondo di tecnologia del gesto applicata ad una sorta di flusso di coscienza introiettato che si limita dentro a steccati temporali e spaziali. I suoi racconti senza simboli procedono con la facilità e il disimpegno di conversazioni quotidiane intime e ironiche sul mondo come «macchina•, sul ritmo, sull'energia e sul trascorrere di perturbazioni energetiche sempre controllate. Parcellizzato (nella gesticolazione degli arti superiori, soprattutto) e particolarizzato, il Tai Chi cinese rivive qui con un segno mutato: tecnica di movimento che in superficie si racconta. Con Eiko & Koma, due giapponesi di New York (in Fu, Sea/) è il ritorno alla prima danza moderna giapponese (Kazuo Ohno) filtrata attraverso un espressionismo di marca tedesca (Mary Wigman): la matrice americana del progetto si perde entro una nominalistica e formale etichetta di provenienza, segnando un cambiamento di rotta. Infatti, se la presenza di esperienze e tecniche estranee alla cultura americana, in particolare la formulazione di progetti di gusto, stile, influenza orientale è rilevante nel panorama della new dance dagli anni Cinquanta in poi con propositi di reciproco scambio (filosofia Zen contro jazzdance, Tai Chi contro modem dance), la tendenza odierna sembra sbilanciarsi dalla parte delle minoranze etniche, verso un recupero linguistico più integro e depurato delle proprie tradizioni specifiche. Se si escludono le esibizioni di Charles Moulton e Molissa Fenley, rigorosamente disciplinate dall'economia di un gesto coreografato che applica al gioco le tensioni, lo sforzo fisico, l'energia propria dello sport e dell'atletismo puro (esempi assai logori e insignificanti), il tentativo in atto sembra rivolto ad un vorticoso abbattimento delle barriere tecniche e linguistiche (recupero della danza classica, del racconto realista, dell'attore/danzatore): una fase di passaggio, di ribellione nella continuità. Forse, come profetizza Marcia B. Siegel, una nuova sperimentazione americana con spessore di tendenza nascerà tra parecchi anni. Per ora, sembra verificabile che confrontate còn alcune proposte di teatro-danza o addirittura di teatro gestuale di matrice europea (non solo neo-espressionista), le ultime sperimentazioni della danza americana appaiono complessivamente in ritardo metodologico e concettuale. Scoprire Marce! Duchamp nel 1980, come Karole Armitage, pdò anche essere una colpa specie se si fa riferimento all'ottica e all'esempio interdisciplinare fortemente influenzato dagli artisti visivi di Merce Cunningham. •
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