Alfabeta - anno IV - n. 37 - giugno 1982

Burocraeti mattatori Shakespeare Otello regia di Alvaro Piccardi con Vittorio Gassman Pirandello Emiro IV regia di Antonio Calenda con Giorgio Albertazzi Corriere delb sera supplemento •Corriere degli spettacoli• del 27.3.82, con scritti di Roberto De Monticelli, Vittorio Gassman, Giorgio Strehler, Valeria Moriconi aaudio Meldolesi cL'epoca delle sovvenzioni e l'attore funzionale•, in Sttne e figure del teatro italiano Reggio Emilia, 1981 I tempi della storia del teatro sono ovviamente assai più lunghi di quelli delle mode. Quelli sono regolati dallo sviluppo dei modi produttivi, dei rapporti di forza interni al sistema produttivo teatrale, dal suo inserimento più o meno funzionale nel complesso sociale. Queste oscillano con le esigenze di rinnovamento (più o meno apparente) dell'offerta sul mercato, con l'evolversi della concorrenza dei produttori, con le coscillazioni del gusto• che spesso nascono fuori dal sistema teatrale, con aggiustamenti produttivi minori che nascono da situazioni congiunturali. Se si considerano le modalità produttive del sistema teatrale, queste non coincidono affatto con le categorie estetiche di volta in volta utilizzate per giustificare o analizzare il prodotto teatrale. Piuttosto per definirle sono utili le definizioni amministrative che regolano i finanziamenti pubblici all'attività teatrale. Il Ministero dello spettacolo, nelle sue circolari annuali che attribuiscono i contributi all'attività teatrale, distingue grosso modo fra teatro pubblico, cooperativo, privato, sperimentale. Per semplificare si può parlare di un settore a prevalente comando sociale, finanziato quasi integralmente in ragione della sua (più o meno ideologica) funzione cd'arte•; di un settore •normale•, che si regge anch'esso quasi sempre sui finanziamenti pubblici, ma è prevalentemente in mano a impresari o capocomici (oggi questo settore è formalmente - quasi solo formalmente - diviso fra cprivati• e cooperative); e di un terzo settore marginale che raccoglie formazioni ai bordi della professionalità, sperimentatori, gruppi permanenti più o meno di base - tutto un settore che ha col teatro un rapporto differente da quello del lavoro salariato e della pubblica valutazione cartistica•, e che si è molto espanso di recente con la disoccupazione giovanile e l'aumento degli investimenti culturali degli enti locali. Questo sistema a tre settori, o se vogliamo a due differenze (abbastanza fluide) fra teatro d'arte e teatro normale e fra teatro cemerso• e marginalità più o meno tollerata, è una caratteristica antica del nostro teatro, anche se si è espressa in molti modi diversi. Si può risalire all'epoca di formazione degli stabili, o nel periodo fasci- " sta, con Bragaglia, le cprimarie• e i -~ cCarri di Tespi•, e molto più in là, fino t>. a Gustavo Modena. Altri ancora sono i "' CO :,. caratteri originali costanti nel nostro teatro. La dimensione del_giroe la precarietà delle scritture, che per esempio contrastano molto col modello ctedesco• dei teatri stabili davvero fondati ~ul repertorio, o con quello francese dell'accentramento totale. Per buona parte una storia del teatro materiale, cioè del teatro come produzione di spettacoli (e non solo come scrittura di testi), dei suoi soggetti, dei condizionamenti che dalle condizioni di produzione venivano al prodotto è ancora in buona parte da scrivere. Gli studiosi che hanno incominciato di recente a lavorare davvero su questi temi sono ancora relativamente pochi ed isolati: Taviani, Cruciani, Ruffini, per fare qualche nome. Tutta Questa premessa, dunque, serve solo per esprimere una diffidenza rispetto all'idea (che congiunge le esigenze del giornalismo con quella della pubblicità) di frequenti e radicali crivoluzioni• della produzione teatrale, l'ultima delle quali si sarebbe celebrata quest'anno col critorno del grandattore•. Molte analisi critiche, molti articoli di giornali, molta strategia pubblicitaria è stata spesa quest'anno intorno a questo tema. Di concreto c'è certamente il ritorno al teatro di alcune personalità normalmente impegnate nella produzione cinematografica, il successo personale di qualche attore di tradizionale prestigio. li tutto sullo sfondo di una doppia assenza: quella di una drammaturgia originale, e quella di una motivazione, di una vitalità, di una teoria della regia, che è in negativo la novità più rilevante del panorama teatrale degli ultimi anni. T utto ciò resta prevalentemente sul piano se non delle mode dei fenomeni di breve respiro, che possono colpire magari di più delle permanenze strutturali, ma ne sono determinati in qualche modo. L'assenza di una drammaturgia scritta, o se vogliamo la sua incapacità di trovare spazio sul mercato e credibilità critica è un carattere permanente del teatro da almeno vent'anni, con qualche rara ed effimera eccezione soprattutto in Inghilterra e Germania. Essa è stata sostituita in parte da una drammaturgia direttamente orientata alla costruzione dello spettacolo e non alla mediazione di un testo di letteratura drammatica da e mettere in scena• più o meno fedelmente: questa è stata la caratteristica dominante di tutto il fenomeno delle avanguardie teatrali degli anni 60- 70 e dei cosiddetti gruppi teatrali. D'altro canto nel teatro detto tradizionale il circuito autore-regista-attore-spettatore prendeva sempre più come fonte dei testi drammatici più o meno stereotipati (i cclassici•) per rendere dominante ancora una volta il momento spettacolare e cioè il lavoro del regista. Il teatro di questi decenni in tutti i suoi comparti ha molto più prodotto spettacoli che allestito testi; il che significa che il lavoro artistico essenziale è stato quello della progettazione di gesti, movimenti, luci, enunciazioni verbali, relazioni spaziali in relazione a un certo effetto (visivo, emotivo, intellettuale ecc. sul pubblico). La funzione dominante del regista è espressione di questo sviluppo della produzione teatrale, che si spiega a sua volta almeno in parte con l'estendersi di mezzi tecnici (dalle luci elettriche, introdotte nei teatri di tutto il mondo alla fine del secolo scorso, in significativa coincidenza con l'emergere della regia come funzione autonoma) al perfezionarsi delle loro possibilità di controllo e varietà, all'uso del registratore per gli effetti sonori, alle più raffinate tecnologie elettroniche, fino a una diversa acculturazione di massa de_gli attori. E di converso sigiustifica con la concorrenza di altri mezzi tecnici, dal cinema alla televisione, e con ilprevalere generale della civiltà delrimmagine. Tutti questi fenomeni hanno comportato rilevanti modifiche nei modi di produzione e nei rapporti di forza inUgo Volli terni alle compagnie, anche se hanno poco modificato le strutture del loro insediamento teatrale. Insomma, se l'antropologia dei teatri è rimasta abbastanza statica, si è molto modificata la loro economia. Il primattore capocomico è divenuto più raro, i tempi di prova si sono allungati fino agli attuali 35-40 giorni di una media compagnia professionistica, è stato praticamente abbandonato il repertorio, cioè il modello produttivo che contemplava la possibilità di recitare e provare in successione parecchi spettacoli da parte di una stessa compagnia, a seconda delle esigenze del pubblico. Parallelamente, con un processo in cui è difficile separare le cause dagli effetti, si sono arricchite le scenografie e si sono abbandonate le composizioni fisse delle compagnie, con i ruoli precostituiti. Insomma, passando dal dopoguerra a oggi, le compagnie teatrali si sono trasformate da imprese permanenti produttrici in serie di messinscena di testi, in cui era attrazione dominante la vicenda e l'attore che ne era al centro, in produttrici di prototipi in cui ogni spettacolo ha la sua compagnia e il suo allestimento rigido e il centro dell'attrazione è proprio la specificità dell'allestimento, il concerto teatrale. Di fronte a queste realtà strutturali, ha senso parlare di ccrisi della regia• e di «ritorno del grandattore»? Da un certo punto di vista sl: agli occhi del pubblico, come argomento di mercato, nelle ultime stagioni ha venduto meglio l'immagine dell'attore protagonista che quello del regista. ella rigorosa semiologia grafica del teatro, che arriva spesso a prescrivere sui contratti la dimensione relativa dei nomi sui cartelloni e ha elaborato in merito una specifica terminologia, tutto ciò è facilmente dimostrabile (e lo è pure, ovviamente, sul piano dei compensi che costituiscono pure una misura di valore). È chiaro anche che risulta abbastanza evidente una generale perdita di vitalità culturale del lavoro registico, una perdita di spessore linguistico, un'incapacità di elaborare poetiche nuove o di credere davvero in quelle collaudate. Ed è vero che ad ogni anno che passa l'età media dei quadri registici in attività cresce quasi di altrettanto - cioè che i ricambi generazionali sono da tempo bloccati. Ma non è che la situazione nel campo degli attori sia molto diversa. Il massiccio ritorno di attori normalmente impegnati nel cinema al teatro (Gassmann, Volontè, Gravina, Massari, Albertazzi, per fare alcuni nomi) può essere spacciata per vocazione artistica solo per chi ignori le condizioni di crisi della cinematro_grafia italiana e il difficile accesso al mercato internazionale. L'invecchiamento, la perdita di senso e di linguaggio, lo svuotamento professionale investono il mondo degli attori da più tempo e con più gravità della funzione registica, come ha acutamente analizzato Claudio Meldolesi in alcuni suoi saggi. Ma soprattutto questo «ritorno del grandattore» non mostra una capacità di modificare il modello produttivo e la definizione stessa dell'oggetto spettacolo. Anche se alcune esigenze economiche potrebbero giustificarlo, non c'è traccia della costruzione di un teatro produttivamente impostato sul repertorio, o che sminuisca l'importanza che negli ultimi anni ha avuto l'impianto scenico e il concerto delle funzioni e delle tecniche. Anzi, alcuni degli spettacoli «d'attore• di maggior rilevanza della stagione si sono appoggiati a registi spesso giovani ma già affermati: Albertazzi a Calenda, Mauri a Marcucci, Santuccio a Pagliaro. Come si esprime dunque l'egemonia ritrovata dell'attore? Sul piano del prestigio, tanto del pubblico che della critica, al livello dello sguardo. Un documento essenziale di questo fenomeno si può dunque ritrovare nelle analisi dei progetti e delle dichiarazioni, piuttosto che nei prodotti spettacolari stessi, che non si discostano sensibilmente da molti altri degli ultimi anni. e i sono due interpretazioni almeno parzialmente divergenti che emergono anche sulla pagina che il Corriere della sera ha dedicato all'argomento. Da un lato Roberto De Monticelli afferma che «dalla parte della platea viene e si fa sempre più palese la richiesta di una professionalità istrionica che sia anche suggestione personale, emanazione magnetica, di cui magari non si possono spiegare le ragioni ma che si avverta», di un e personaggio su cui convergono stavamo per dire le speranze, meglio sarà definirle simpatie, immedesimazioni, proiezioni di personalità». Ma proprio perché si tratta «di qualcosa di incomprensibile, che confina un po' con la magia• il pubblico vi cercherebbe «una sicurezza, una garanzia» cioè inevitabilmente «il noto, il collaudato e sperimentato• in modo da provare «la comunione, i momenti dell'armonia e della sintesi piuttosto che quelli del disaccordo e della dialettica». Per Valeria Moriconi, invece «è riaffiorato l'attore, quell'essere strano e abnorme che (...) sapeva (per carità molto modestamente) interpretare un verso, prendere il fiato giusto, conoscere la costruzione di una frase sintatticamente parlando (...) capace di far sentire fino all'ultima fila di poltrone le finali delle parole e con intelligenza e lavorio quotidiano affinava i suoi mezzi, trasmettendo agli altri, dall'altra parte, le idee filtrate dalla propria 'preparazione'( ...) Il ritorno all'attore è soprattutto ritorno alla parola che esprime concetti, al senso». Sono due ideologie differenti, quella della magia dell'attore e quella dell'onesta professionalità tradizionale. La prima è espressa con qualche riserva sui pericoli che ne possono conseguire, e come testimonianza sul reale. La seconda mostra umiltà e appare disposta a non scontrarsi con altri momenti teatrali, ma si pone piuttosto come l'ideologia della fine di un'ingiustizia. Nè l'una nè l'altra però sono analisi che mostrino il luogo di un cambiamento, al di là del puro fenomeno delrattenzione _generale: in fondo anche nell'ultimo decennio si sono continuate a «far sentire le finali delle parole» o a provare «soprassalti dell'attenzione, brividi e mormorii• per i grandi attori. Il problema è che entrambe queste sono ideolo_giein realtà esplicitamente polemiche verso un «passato• teatrale in cui si dava teatro scandaloso, provocatorio «capace di dividere, spaccare in due, lacerare• il pubblico, di infrangere i suoi codici, di «fare dei buchi nei muri del teatro•, per usare un'espressione di Grotowski. Insomma, se la si guarda da vicino, l'operazione mattatore nel nostro teatro non comporta affatto un mutamento stilistico, produttivo, di personale. I prodotti sono più o meno gli stessi, il modo di farli non è cambiato granché, anzi certi elementi linguistici «neoclassici• nel linguaggio degli stabili sembrano essersi definitivamente mummificati e aver contagiato anche il teatro di consumo e quello privato. Il ritorno del grandattore appare piuttosto come un'operazione ideologica di normalizzazione (linguistica ma con premesse anche organizzative e quindi politiche) di tutto quanto di irregolare, di deviante avesse trovato modo importante di espressione nel teatro italiano: come dice ancora Valeria Moriconi «loro, i creatori del nuovo teatro, dediti a stupire a qualunque costo con vocalizzi, con qualche urlo obercio, con piroette, con tette al vento e sederi nudi, faccie biaccose e occhi stralunati, gesti da epilettici e bava alla bocca, tutta roba d'accatto, indizio che la lezione venuta da lontano era stata male interpretata e digerita». Inutile discutere della storia del teatro degli ultimi anni; si tratta di una posizione di reazione, che come riconosce anche De Monticelli «tende a eliminare le differenze, le separazioni, a privare il teatro di quell'elemento di disturbo, di allarme, di divisione che fa anche parte della sua specificità>. E non bisogna che le posizioni che ho citato siano esclusivamente personali o isolate al contrario si tratta della registrazione certamente consapevole e critica di un'impostazione che ha visto per esempio compatti i critici teatrali nell'appoggiare entusiasticamente spettacoli anche fragili e squilibrati, oltreché banali linguisticamente come l'Otello di Gassmann (o di Piccardi?). La controprova sta nell'unico spettacolo di «grandattore» compattamente stroncato dalla stessa critica, quel Girotondo che Gianmaria Volonté ha tratto da Schnitzerl in maniera certo non filologicamente accettabile e alquanto ton fusa, ma non molto diversa da quel modo di costruire gli spettacoli che anni fa era stato accettato in Perlini, Vasilicò, nel Patagruppo e in moltri altri «esperimenti» teatrali. E su questa linea sono indubbiamente schierati quasi tutti i teatranti professionisti, e una buona parte del pubblico. Per tutti costoro il ritorno del grandattore vuol dire in realtà restaurazione del teatro/teatro, esclusione di ogni difficoltà o ambiguità, accostamento magari a uno stile televisivo, impianti malaccurati; ma «garanzia» come giustamente dice De Monticelli. Garanzia e sicurezza che il teatro è qualcosa di tranquillizzante, di lontano, nella cui definizione entra ancora il fattore della noia come componente essenziale e marchio culturale. Insomma il teatro che ridiventa museo, come la lirica; senza escludere magari i debiti omaggi alla «produzione contemporanea», purché costruita secondo i moduli del senso comune. Ed è su questo, non sul grande attore (razza in via d'estinzione, purtroppo) che non si deve essere d'accordo. P.S. C'è una prima vittima di quest'atmosfera, e di confuse contingenze editoriali., È S~ena, che negli ultimi anni è stata, con qualche incertezza e contraddizione, la ;ivista del nuovo teatro in Italia. Dal numero di marzo di quest'anno, ha smesso di uscire.

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