Alfabeta - anno IV - n. 34 - marzo 1982

piano «paradigmatico» in senso lato, come relazionabilità diffusa e fittissima nei testi, quale appare in tutta la sua splendida resa dall'analisi datane da Agosti il quale la ripartisce in tre modalità di rapporti o «parallelismi»: parallelismi di identità, parallelismi di opposizione e parallelismi di sostituzione (o di equivalenza). Ora, il fatto di leggere il testo flaubertiano secondo questa trama di interazioni «paradigmatiche», implica ovviamente qualcosa di ben più radicale di un semplice rilievo stilistico. Riconoscendo nella configurazione complessiva del testo, nelle minime strutture come nelle grandi articolazioni, la proiezione•di una scritwi-a tutta tesa a problematizzare l'univocità del senso veicolato dall'asse sintagmatico, il lavoro di Agosti apre ad una rinnovata lettura di Flaubert. Infatti, ciò che il procedimento della relazionabilità mette in questione, è proprio il fatto della stabilità degli universi rappresentati, e in ultima analisi, la loro -capacità a lasciarsi identificare, soprattutto per quegli elementi «statici» del testo (gli esseri, le cose) che, come si diceva all'inizio, dovrebbero farsi portatori dell'attitudine a significare non ambiguamente. E gli «effetti di reale» nell'accezione agostiana - quel Reale lacanianamente inteso come eccedenza rispetto alle restrizioni operate dalla rappresentazione, che sacrifica sempre al dominio del Significato -:..Sarebberocosl da leggere come conseguenza di quella s_ovradeterminazione del senso che proietta l'opera, dalla sua dimensione «compressa» di Racconto, alla polivalenza del Testo. · È forse andando a osservare « Flaubert à l'oeuvre» che si possono comprendere questi mutamenti. Come illustrato da Capatti per Madame Bovary, il fatto che Flaubert proceda alla stesura dei suoi romanzi a partire da nuclei fissi di vario genere, favorisce in prima istanza questa manipolazione dei materiali in senso paradigmatico: si tratta infatti di una combinatoria che Flaubert porta avanti insieme al lavoro di amplificazione e di giustapposizione dei vari blocchi. In definitiva, se l'ordine sintagmatico provoca delle «contraintes» di verosomiglianza del tipo: se Rodolphe è un signore di campagna, allora Rodolphe· è un cacciatore e allora sarà-. vestito di velluto (p. 68), i vari pezzi mobili del testo, che costituiscono il lavoro preparatorio, favoriscono invece tutte quelle relazioni libere nelle quali si produce una sovradeterminaCultura come spettacolo (2) zione di senso e che sono di tipo paradigmatico. Si potrebbe dire insomma che tutte queste relazioni libere fra elementi distanti del testo sono la contropartita dell'allentamento delle relazioni necessitanti: quelle che dovrebbero prodursi sull'asse sintagmatico, e che Flaubert sembra accanirsi a rendere problematiche. Dell'allentamento dei nessi di causa-effetto all'interno del narrato, ivi comprese tutte le escrescenze esplicative di balzachiana memoria, rendono conto particolarmente il saggio di P.M. De Biasi (L'élaboration du problématique daf!S la Légende contenuto io F/aubert'à l'oeuvre) e il saggio di P. Thomp~n relativo a Hérodias nella silloge delle «Journées Flaubert». Cosl per una sorta di rovesciamento complelJlentare, le relazioni sembrano venire allora amplificate al livello paradigmatico: ed è proprio la descrizione che se ne caricherebbe io modo particolare, sino a perdere quel valore di fondamento stabile e univoco di senso di cui si diceva. La descrizione flaubertiana sarà perciò sì ancora il luogo dove il senso si fonda, ma anche il luogo dove questo comincia a perdersi nel vortice della sua relazionabilità. Per concludere, se si deve a Flaubert la più rigida applicazione del canone della verosimiglianza - almeno nell'ambito della letteratura francese-è a lui che deve essere ricondotto anche il principio della sua dissoluzione: quella --msarticolazione reciproca che subiscono narrazione e descrizione sono Il ad indicare la strada alle più audaci e radicali innovazioni novecentesche. Nessunoricordcaonrabbia? «troppo futuro - chiudi gli occhi riaprili adesso - il futuro è passato» (da «from the youth of my Coboldness» di Gianni Toti) e redevamo che le «porcherie degli anni '30» (N. Aspesi) fossero già liquidate da un pezzo;. che «la criminalità sentimentale dei cari estinti» (R. Di Giammarco) fosse stata sufficientemente dileggiata dall'ultimo inef /abile dandy dei palcoscenici europei, Paolo Poli. Credevamo che gli abbrividenti souvernirs del Regime e le cu/- turerre azzurro De Pinedo Balbo resistessero solo presso i superstiti fascisti della prima ora eche /'i11co11sciloittorio fosse pascolo di Almirante e di certa Dc. /11vece no: topica grossolana! La rassegna «Annitrenra», organizzata dalla Ripartizione Cultura e Spettacolo del Comune di Milano e firmata dalla Commissione operante per conto di tale Comune - Bari/li, Caro/i, Fagone, Morello - (non si capisce perché venga sempre tirata in ballo Mercedes Garberi, direttrice dei Civici Musei, che si è sempre autoesonerata da qualunque forma di collaborazionismo) intende porsi - e lo dichiarano i responsabili -come massimo risultato dell'incarico pubblico conferito a raie squadra, nonché come lucido e anticonformista spaccato dell'arte e della cultura italiana degli anni '30. Non si tratta di una mostra di destra vista da destra (difatti la destra istituzionale allontana da sé il suo passato, non ha nessun interesse a riconoscersi in questa mostra; la deplora, beffandola). Non è l'inconscio littorio quello che viene fuori dal calderone milanese, ma quello del Psi. Ha ragione quel mio amico (ex-gardenia bianca all'occhiello del/'«Arcana Editrice») a sottolinearmi che tutta la messa in scena tra Arengario, Palazzo Reale, Sagrato e Galleria costituisce il rimosso del Socialismo contemporaneo. Difatti, come usciredi senno, senza rendersi conto del tritolo che maneggiavano, anime psine e pcine hanno messo su con un'arroganza e una superficialità incomprensibili, in un primo momento, la più errata rivisitazione del decennio che doveva portare alle tragedie del '43/45. Cerro, si dirà, in tm' Italia che festeggia i cento anni di Prezzo/in i, sensibilissima agli effimeri e ai Carnevali, che programma la rivalutazione della pittura ottocentesca napoletana (perla di Maurizio Va/enzi), in un Paesesedotto da Verdiglione, dai filosofi e dai pittori nuovi-nuov~ che tra Evo/a e Nietzsche non fa più differenza, e che chiama rutto questo il nuovo Sturm und Drang o, nei casi più scaltriti, «pluralità di stili, ambiguità, diritto al desiderio», perché stupirsi di tanta tolleranza verso tutta la chincaglieria riemersa dalla polvere delle cantine e dei solai e contrabbandati come testimonianze storicamente obiettive? E vediamo, per cominciare, /'idea della manifestazione e i criteri selettivi. Bari/li Renato, che di raieoperazione si è caricato, a suo dire, «un particolare onere sul piano organizzativo», ha rilasciato dichiarazioni del tipo «... una caratteristicadei nostri tempi è che non si riesce a giurare su una carta sola... rutto passa, ma tutto ritorna... la nostra età post-moderna memorizza tutto l'accaduto e quindi (il corsivo è mio) lo annulla ... il Razionalismo reprimeva l'Eros, il super-ego, le componenti erotico-libidiche, abolendo la decorazione... niente esce di scena e tutto ritorna, non voglio dire che chi loda il passato ha sempre ragione: dico che oggi abbiamo scoperto che esiste un'ortica di rivisitazione del passato che bisogna saper usare... non credo sia tempo di scelte univoche ... la mostra chiarisce che il Regime fu una grande cappa protettiva, sotto la quale ogni artista era libero di seguire la propria vocazione ... non c'è stata un'arte di Regime, anzi oso dire che sotto un governo parlamentare le cose andrebbero allo stesso modo ...». Questa, dunque, la Weltanschauung della rassegna, sparpagliata in circa venti settori. Ma che gli fa Bari/li ai socialisti, uno si chiede? Sorvoliamo sulle risposte goliardiche che circolano da quasi un lustro e cerchiamo di capire se i Craxi, i Martelli, i Tamburano, han proprio bisogno di un ideologo cosi eclettico per occupare le pagine de L'Avanti, li Giorno, L'Espresso, le Biennali, le cattedre delle università e dei Dams, le Gallerie Civiche d'Arte Moderna, le case editrici. La strategia portante dunque è chiarita. Vediamo le modalità di ricerca. Era difficile arrangiare, appiattire e pastorizzare il materiale a disposizione con tanto pressapochismo e leggerezza, per dirla eufemisticamente; eppure ci sono riusciti. Si è osato -per osare, cosa non si è osato! - chiamare équipe interdisciplinare la caterva di famigli che han tirato la carrello - studiato quasi mai! - per farcire questo pane/Ione d'immondizia (altro che il Fernet Branca per digerirlo!): una quarantina (tanti, ma si sa, l'entusiasmo è l'entusiasmo!) di trovarobe abbigliati da critici, storici, esperti. Cosi si sono verificati episodi di sciatteria e cialtroneria, rari a rintracciarsi nelle mostre degli ultimi venti anni. Esempi: la moda. L'esposizione di insignificanti campionature proprio a Milano, dove Musei, grandi modisterie, case di confezioni, e gallerie d'arte, negli ultimi cinque anni, hanno esposto capi squisitamente selezionati nell'ambito del gusto di un'epoca. Gli oggetti. Non ci siamo mai negati al gusto degli oggelli anni' 30, c.hesono di moda fin dal '66, nell'arredamento, nell'abbigliamento, nel maquillage. Sul proto-design, sulle affiches, sulle paste B bl1otecagnob1anco Lea Vergine di vetro, sulle alzate da frulla, su tullii ninnoli e i bibelots Lenci, sulle ceramiche, sugli argenti, sulle gelatiti e bacheliti, sui tavolini da boudoir, e quindi sui Boccasile, sui Venini, sui Bugaui, sui Vacche/li, su Elena Koeing Scavini (zia di tanto Giovanni!); e ancora sui costumi da tennis o da sera di crépe georgette e di chiffon, sulle parures di strass, tullo, ma proprio tullo, era stato ampiamente visto in particolar modo a Milano prima ancora che la follia per il decò arrivasse nei supermercati rionali, da quella esperta - quella sì - antesignana di queste scoperte, che è srara Carla Pellegrini Rocca. Basti ricordare le mostre della galleria Milano, ancora in via Spiga, nel '65 e nel '68; e poi in via Manin, nel '74, '78, '79. (A proposito, in omaggio al tutto ritorna, notate la somiglianza tra mobili, mobile/te e stoffe di quegli anni con i prodorri'd'avanguardia del gruppo «Alchimia»?). E poi sono anni che le infuocare aste della Finartepumano sugli anni '30 italiani. I responsabili della Casa assicurano che «non c'è oggeuo dell'epoca fascista, anche il più retro, che non valga ormai milioni». Sarà pur vero se i plateaux dei gioiellieri e degli antiquari pullulano di meraviglie decò, le modisterie di aigrettes e le librerie alternative (e snob) di intere vetrine con vagoni di pubblicazioni made in ltaly, di riepiloghi e cataloghi ragionati sulla moda, l'arredo, la grafica, la cartellonistica. Tra Laterza, Einaudi, Bolaffi, Mondadori, Ricci e Felrrinelline avranno venduti talmente tanti da rimpinguare le sempre esauste casse della nostra editoria. Pittura e scultura (poi lasceremo ad altri il discorso sul/' architellura e urbanistica o sulla lelleratura). Che senso può avere enfatizzare la «Crocifissione» di Gurrusodel '41 o il Cagli del '36 (va bene, non lo vedevamo da vicino da venti o trenta anni, ma potevamo vivere lo stesso senza ammirarlo da sorrainsù per altri trenta anni. È sempre meglio andarsi a riguardare la battaglia di Paolo Uccello, di cui è un «d'apreS>>...)? Finezza estrema. Non avevamo capi- • ro, in sulle prime. Serve a distinguere il Fascismo illuminato di Bottai da quello becero di Farinacci. E, per il resto, non bastano certo i Mafai, gli Scipione, i Biro/li, i Levi, gli astrattisti lombardi o i Sei di Torino a bilanciare la marea di Sironi e Carrà (fascisrissimi!) i Funi, Andreotti, Carpanetti, Dazzi, Borra, Tozzi, Pucci, Lodi, Bazzoni, Donghi, Bucci, Broggini, Cadorin, Mariani, Vagnerti, Speranza, Carena, Sciltian, Paresce, Barbieri, Messina, Fagioli, MeMndri, Baroni, Enrini, Bresciani da Gaza/do, Colombo, Bonfantini; vale a dire tu/lo il Novecento più codino e stucchevole. Ma evidentemente, marché oblige, oltretutto. In qualche sala ci sono due tele di Paolo Ricci e Mario Lepore (con tutti i distinguo che due pittori implicherebbero per i ruoli avuti); e gli scultori Gemito, Tizzano, Gallo, Pepe Diaz? E pittori come Crisconio, Mario Vittorio, De Rosa, Edoardo Giordano? E il gruppo dei «Circumvisionisti», Cocchia, Deambrosio, Peirce col loro manifesto? E Carlo Bernard, Ricci e Peirice col manifesto UDA (unione distrurrivisri auivisti) dove sono? È tulio uno scarica barile, un lavarsene le mani. Non bisogna mai lavarsi male: non c'è nulla di più puzzolente dello sporco «mal cotto», dicevano le balie d'una volta. Ma il critico non è renuto'asapere? E siccome non è pietoso deprecare solo il gaffeur ufficiale dell'Emilia Romagna accenniamo anche a Caroti e Fagone, che hanno sostenuro il povero Bari/li a marciare in questa impresa ardita. Di Caro/i Flavio bastino alcune righe del caralogo: « ... siamo indotti a compiacerci, con una punta di sensualità perfino torbida, di un passato e di piaceri talora frustrati, ma proprio per questo solleticanti ... la magia degli anni '80 è dionisiaca ... gli anni '30 sono un capitolo risolutivo della fiducia ideologica nel moderno, e ne assumono in toto le mitologie ouimistiche ...». In quanto a Fagone Vittorio, deve esser tutto amputabile - intendo la camaleontica trasformazione - a/l'ingresso, ne/la sua esistenza, delle «Spirali» e della conseguentissima ascesa a pubblici incarichi. Per quel che concerne quello di cui parliamo, le ceneri di Edoardo Persico non troveranno pace, sommosse così a sproposito. E anche qui che il /errore vada a documentarsi su tanto catalogo d_iGabriele Mazzoua, vertiginoso per pondo e per contenuti (le schede biobibliografiche raffazzonate o copiate qua e là senza citare le fonti). li Pcinon sa proprio scegliere meglio le sue «bande bassotti» o è questa la «terza via»? Ma lo sa Aldo Tortorella che ci fa rimpiangere quei galantuomini geniali di De Miche/i, Morosini, Micacchi e, finanche, Venturo/i? Per la politica abbiamo invece uno storico in boccio, addirittura probabilmente postmodernissimo anche lui, che esibisce fez, gagliardetti, maschere antigas per signora, lo scarponcino di Benito e altri reperti-reliquie, obliando la vera iconografia del decennio, quella della guerra civile spagnola, della campagna d'Etiopia, del colpo di stato in Albania, della difesa della razza di lnrerlenghi, la pagina del Popolo d'Italia con le leggi contro gli ebrei o quella della scuola milanese di mistica fascista. Cosucce da niente. E, tanto per elencare rapidamente un po' di cosucce da niente che hanno fatto da contorno alla mefitica operazione, corre l'obbligo di ricordare il cinema (e che ce le risparmiavano le Zarah Leander di casa nostra, o gli « Uomini, che mascalzoni»?), un'intera settimana di non-stop televisivo della Terza Rere sempre ali' insegna di come si stava meglio quando si stava peggio, per «mettere a fuoco un periodo che ha lasciato il segno nel processo di modernizzazione della cultura italiana». È duro arginare l'anarchia filofascisra, si sa. Sempre patrocinata dal Comune di Mi/ano (dove eravate Tognoli, Aghina, Saccabusi?), al Centro Domus di via Manzoni, nell'interregno tra vernissage e inaugurazione, promossa dalla industria po/troniera Zanotta, un divertissement dove Marisse, Disney, Moretti, Severini, Branzi e Mussolini venivano agitati e miscelati in uno stre-. piro luuuoso, partendo da una rilettura, che si riprometteva, forse, di esseresolo sdrammatizzante e finiva con l'essere criprica sulla sala da bagno del Duce. Adesso Milano è soddisfaua: ha rutti i Totem e Tabù che merita. Ma se questi neo-camerati, solidali ne/l'organizzare un teppismo casual sulla pelle di una tragedia ancora recente, avessero invece lavorato ad una verifica critica, come avevano detto di voler fare, altro sarebbe stato lo spessore della manifestazione. Forse le distanze prese avrebbero permesso veramenu di valutare la cultura del decennio fatidico nel pro fondo: almeno di vedere la vera faccia degli anni '30, quella che è stata abbondantemellle censurata quando non snaturata. Come spiegarsi questo revanchismo? Ahimé, in una sola maniera. Che la «nostalgia», concimala da tutto quel clima che oggi si chiama postmoderno, è un'atteggiamento (sentimento?) ancora gagliardo e diffuso. Nessuno ricorda con rabbia. La critica da sinistra ha minimizzato o finto di guardare alla faccenda come ad un guazzabuglio di coboldi sbarazzini. Perché tanta paura? Nessuno vuol fare il caralogo degli errori; è ancora considerato pericoloso compilarlo? O lo è oggi come allora? Vuoi vedere che quando Bager Bozzo afferma (per gli Editori Riuniti) che «Il futuro viene dal futuro», hanno ragione quelli che dicono che grandi sono e intime le liaisons tra anni '30 e anni '80? Non era Mussolini a urlare: «Ho nosralgia del futuro?» Mi viene in mente il socialista (vecchio questo non nuovo-nuovo) Nenni che, in Sei anni di guerra civile scriveva: «Avventure come quella del fascismo riescono difficilmente, ma quando si sono assicurare le necessarie complicirà, possono durare per molti anni». Intanto sono in corso tavole rotonde riparatorie con personaggi specchiali e insospettabili affinché bilancino la situazione: dappertullo, alla Rai, in Tv, nella sressa Milano. Un'ultimaparolina sul consenso sperticalo di alcuni critici e storici: non ci pensano mai a quello che veniva fatto loro sotto quel regime? Annitrenta Arte e cultura in Italia (Mostra) Milano, primavera '82

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