Le gambtt,,i@nza testa U Balletto: repertorio del teatro di danza dal 1581 (a cura di Mario Pasi, con la collaborazione di Alfio Agostini) Milano, Mondadori, 1979 Balletto Rivista Bimestrale. (nn. I, 2, 3, 4, 5) Milano, Ed. «Balletto», 1981-1982 Maratona di danza Programma annuale curato da Vittoria Ottolenghi per la prima rete televisiva Filippo Tommaso Marinetti Manifesto della danza futurista 8 luglio 1917 Lo sguardo del cieco Teatro dell'IRAA, Roma 1980 Malabar Hotel Roma, La Gaia Scienza, 1978 Alert Cooperativa Teatrale Spaziozero, Roma 1981 Poesia Ballerina Azioni danzante di Valeria Magli, Milano 1981 I codici d'uso, per il ballettomane italiano, soffrono di una particolarità curiosa: un'accentuata carenza di consapevolezza critica nell'approccio all'evento scenico che li condiziona. Il . ballettomane appartiene a una categoria psicologica a parte: possiede un atteggiamfnto esasperatamente burocratico nella valutazione del tecnici- ~mo,_vantaun incrollabile attaccamento alle ·mitologie con,~acrate, tende a considerare lo spettacolo non tanto come un insieme di elemçnti non sco~ponibili l'uno dall'altro (poiché conglobati in una totalità ewressiva), quanto piuttosto come espressione di un unico particolare (la danza accademica intesa come sublimazione del virtuosismo acrobatico). Quanto accade per il balletto, non accade, ad esempio, per il teatro, o per la musica, o per il cinema, dove la recezione del prodotto ha sempre rivelato una panoramica piuttosto sfaccettata e pluridimensionale di impatti e di coinvolgimento. Prendiamo il teatro, punto di riferimento suscettibile di un ventaglio di letture da definirsi, in qualche modo, plurisensoriali: Si richiede ormai allo spettatore, per quanto riguarda il teatro odierno, uno sforzo di adesione che va sempre più al di là del puro messaggio visivo; quasi che si fosse sviluppata l'esigenza di quello che Franco Quadri definisce «l'occhio mentale»: una sorta di quarta dimensione nell'approccio all'evento, verificabile attraverso l'adattamento di chi assiste a concezioni nuove dal punto di vista spazio-temporale, e a rivelazioni concettuali più profonde e più indirette. Nel teatro italiano, quel cosiddetto «occhio mentale», in ipotetico possesso dei supposti fruitori, ha trovato, in maniera più o meno complessa e difficoltosa, un suo modo attuale di esistere e di emanciparsi. Nella generica crisi di cui tanto si parla e si discute (crisi di gusto, crisi di idee, il dilagare di impulsi restaurativi), resta tuttavia rintracciabile, a differenti stadi di approfondimento e livelli di percezione; culturale, una qualche lucidità di :ntenti critici e interpretativi rispetto ai più recenti linguaggi sviluppatisi in ambito teatrale. Da Carmelo Bene fino a Leo e Perla, da Memé Perlini fino al Carrozzone-Magazzini Criminali, dal teatro del r corpo fino al teatro del rock, dalle sperimentazioni limitate a se stesse fino a quelle che potrebbero dirsi atomizzabili all'infinito, la linea scomposta e pluralistica dell'evoluzione teatrale italiana procede secondo percorsi che, anche laddove non s'identificano con scelte estetiche compiute o determi- . nanti, segnano comunque risultati leggibili nel contesto di una prospettiva culturale articolata; nel senso che dimostrano, in modo più o meno rilevante, di avere preso atto dell'esigenza di sconfinamenti interdisciplinari, e della necessità di un parallelismo, o di una circolarità linguistica, tra i differenti campi d'azione. In sintonia con le provocazioni, le utopie e i fallimenti dell'universo teatrale italiano, si alternano, da parte degli «addetti ai lavori», letture più o meno arrischiate o superficiali, complesse o intellettualistiche: lo sforzo inter"pretativo costituisce, in ogni caso, un mondo stimolante di possibili risposte. Se si è accennato al teatro, è stato solo in funzione di una serie di confronti di massima con il campo della danza e del balletto. Il disordinato boom commerciale a cui si è assistito negli ultimi anni, ha dato un'evidente consistenza al fenomeno; eppure (ed è questo quanto ci interessa), non si riescono a rintracciare ancora i sintomi di un parallelo sviluppo sul piano culturale. Analizzando la situazione odierna, ci si renderà conto che, per quanto riguarda gli spettacoli d'importazione, tuzionali. Ed esiste un terreno di confronto reale con gli intellettuali, anche quando solo una minima parte di essi si può considerare svincolata da preconcetti culturali o libera da condizionamenti personalistici. Esiste, insomma, un . intento «a monte» in grado di influire, talvota anche in modo determinante, sulle svolte, le negazioni e le problematiche affrontate nella prassi teatrale. E ' proprio quanto non è mai accaduto per la danza, che nonostante l'interesse di massa che ha fatto seguito, come effetto scontato, al recente successo del settore, permane nella sua palude di eql!ivoci e di incomprensioni. Un'editoria prntica-- mente inesistente (se si escludono alcune insignificanti operazioni editoriali costruite ad uso del più puerile gusto balletto filo) non può fungere da stimolo a un'auspicabile c'ult~ralizz(lzione del fenomeno. Nell'inspiegabile assenza di una bibliografia italiana nel campo della danza, chi volesse andare in cerca di una documentazione approfondita sul tema, dovrebbe necessariamente rivolgersi a testi scritti in inglese, in francese o in tedesco. Ed anche sul piano prettamente informativo, fatta eccezione per alcuni interventi d'indubbio valore didattico (come il reperimento dei numerosi filmati presentati a più riprese dalla televisione di Stato per la serie delle «Maratone di danza» curate da Vittoria Ottolenghi; o come la pubblicazione de Il Balletto, una vasta enciclopedia del repertorio ballenistico internazionale compilata da Mario Pasi e Alfio Agostini), mancano iniziative promozionali di una certa portata. Cosi come sull'argomento non esistono neppure riviste (altro fatto inspiegabile, data la potenzialità del pubblico di possibili lellori), falla eccezione per Bai/erro, un periodico edito a Milano con ammirevoli sforzi produttivi, ma purtroppo, a giudicare dalle scelte critiche dominanti e dal linguaggio in uso sulle pagine, fastidiosamente improntato (e spiace dirlo) ad uno snobismo di evidente marca scaligera che ne limita la portata culturale. Altri fatti specifici, per esempio l'assenza totale di un approccio allo studio teorico-storico della danza a livello universitario (il Dams di Bologna, che dovrebbe rappresentare la struttura più idonea ad ospitare un corso d'insegn~mento del genere, dispone di una caÌtèÌlra-fàntasma • di «Storia della danza•, che non è mai stata affidatà ad alcuno), sono sintomatici della gravità della situazione culturale in cui versa il settore, rispetto al quale risulta irrintracciabile, tuttora, una parvenza cli movimento teorico in grado di operare confronti e di fornire indicazioni. la selezione risulta prevalentemente ,_ _ _......,,-.,...~---~.,,,.~--::-::~7 casuale e improbabile. lnvano,in fatto di danza, si può tentare di rintracciare un taglio, un'impostazione culturale anche generica, che possa attribuire un senso compiuto (informativo di quanto accade all'estero, se non altro), ai vari festival e rassegne di cui l'Italia ha preso ad essere desseminata in questi ultimi anni. Non si può prescindere, nel definire le motivazioni dell'attuale stato di cose, da una breve valutazione dei nostri precedenti storici. Per una tradizione ballettistica come quella italiana, che vanta fasti secolari indiscussi (basti pensare a Gasparo Angiolini, Salvatore Viganò, Carlo Blasis ed Enrico Cecchetti, veri e propri .capisaldi nella storia della danza teatrale) non poteva essere facile, nel corso di questo nostro secolo, rimuovere le costanti di un frainteso tradizionalismo accademico per crearsi nuove dimensioni stilistiche. Le tournées delle compagnie straniere vengono imposte, in prevalenza, da leggi dichiaratamente mercantili. Fatto che di certo, almeno in parte, accade pure in ambito teatrale. Ma con una differenza da non sottovalutare: esiste, per quanto riguarda il teatro, un movimento critico-teorico che mette in discussione le scelte mercantili e istiBloccata tra l'altro da alcuni decenni di crisi didattica (all'inizio del 900, tutti i migliori maestri italiani emigrarono all'estero, in particolare in Russia, considerata a giusto titolo la nuova patria del balleno classico), e infestata, nel gusto coreografico, dalla tendenza al mastodontico kitsch nazionalista inaugurata verso la fine dell'800 I.---~~-~-----------...,.- da Luigi Manzoni (l'autore di «Excelsior»,. «Amor», «Sport•) e dai suoi Angelo Cipolli, chitarra, VU Meters epigoni, la danza italiana, nei primi anni del secolo, assiste, impotente ed 1 ibl1otecag1nob1anco immune, agli straordinari fermenti che le esplodono attorno: in Europa, nel mondo. Siamo negli anni di lsadora, di Diaghilev, di Nijinsky, di Fokine. E mentre la riforma estetica diaghileviana affronta dimensioni inesplorate nell'approccio della danza alla musica o alla pittura, mentre la grande scuola del «modem• comincia a piantare radici sempre più salde in America, mentre la Germania espressionista inizia a comporre le sue sconvolgenti rivelazioni sulle potenzialità rappresentative dell'espressione specificamente corporea, il balletto italiano, da parte sua, insiste nel sonnecchiare nei suoi propositi di malinteso conservatorismo. Aristocraticamente estranea e indifferente nell'evoluzione dei modi figurativi ai paralleli sviluppi dinamici e provocatori delle avanguardie artistiche italiane, la danza, come campo d'azione, viene presa in considerazione soltanto dai futuristi. Nel 1917, sul «Manifesto della danza futurista•, Marinetti, in aperta polemica con l'estetismo ballettistico dilagante, propone danze «disarmoniche, sgarbate, antigraziose, sintetiche, dinamiche, parolibere•. Viene inoltre proclamato l'invito a «imitare i gesti delle macchine• per giungere al «metallismo della danza futurista», superando le possibilità muscolari e tendendo a «quell'ideale corpo moltiplicato dal motore• sognato dai futuristi. Due anni prima Enrico Prampolini, nel suo «Manifesto della Scenografia e Coreografia,Futurista•. aveva proposto innovazioni radicali nello stesso campo, dimostrando un interesse ben definito nei confronti di sperimentazioni «elettrodinamiche• sul genere di quelle condotte a Parigi dalla danzatrice Loie Fuller, la prima artista che seppe utilizzare in palcoscenico, con inventiva sorprendente, gli effetti della luce colorata in contemporanea alle evoluzioni del movimento corporeo. Ma i progetli dei futuristi erano troppo smaccatamente provocatori e azzardati per essere accolti, o fungere in qualche modo da stimolo, rispetto all'ambito specifico della danza nazionale. Nell'assenza di interpreti adeguati, dopo alcuni sfortunati tentativi di concretizzazione scenica, il movimento della danza futurista promosso da Marinetli si esaurì negli anni 20, senza aver minimamente inciso sul corso del balletto italiano. L'avvento del coreografo ungherese Aurelio Milloss, attivissimo in tutti i maggiori teatri italiani dal '37 fino a pochi anni fa, rappresenta l'unico dato rilevante nello scarno panorama della coreografia nazionale di questo secolo. Fatto, comunque, di cui bisogna tenere conto solo in parte, visto che l'estetica millossiana, d'impianto troppo nettamente mitteleuropeo per essere assimilata in profondità, non si dimostrerà mai in grado di segnare una linea di seguaci, né di porre le basi per una sorta di scuola coreografica italiana, definendosi più che altro, pur nel suo indubbio rigore stilistico, come un lungo episodio in sé conchiuso di personale approfondimento compositivo. E per giungere allo stato attuale, la _tristesituazione della didattica, gestita più che altro da strutture private moltiplicatesi in questi ultimi anni con un pullulare incontrollato di scuole, unita all'indifferenza dimostrata dagli enti pubblici nei confronti di un'espressione che da sempre (perfino in ambito legislativo) viene considerata come un'appendice del melodramma, o anche una sottospecie della concertistica, hanno finito per impoverire la
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