Alfabeta - anno III - n. 26/27 - lug.ago. 1981

di una legge per sanare retroaitivamente le illegalità compiute e bloccare così le cause avviate dagli ex dipendenti davanti ai tribunali del lavoro), l'accordo si muoveva ancora con qualche riferimento alla linea tradizionale della difesa del posto di lavoro e si «preoccupava» del destino degli espulsi dal processo produttivo, facendo in qualche modo obbligo ad altre aziende (quelle lri) di «dare una mano». L'operazione era destinata-come si è visto - a non avere molto successo; pure testimoniava una volontà sindacale di tutela globale dei lavoratori non del tutto passiva. Il secondo accordo aziendale sul quale ci si soffermerà è quello, notissimo, stipulato alla Fiat nell'ottobre 1980. Partito da posizioni assai decise, il sindacato alla fine siglava un protocollo nel quale tutte le posizioni dure sostenute all'inizio erano abbandonate e tutte le pretese aziendali accolte. Circa 23.000 lavoratori venivano messi a Cassa Integrazione straordinaria; per ridurre il personale eccedente erano previste nell'accordo dimissioni incentivate, prepensionamenti volontari da regolare in via legislativa, mobilità interna al gruppo Fiat. Si stabiliva altresì che, entro la data del 30 giugno 1981, avrebbe dovuto essere attuata dalle parti stipulanti (azienda e sindacati) una verifica della situazione produttiva e commerciale al fine di accertare la eventuale quantità di manodopera eccedente, da mettere questa volta non in mobilità «interna» (da azienda Fiat ad altra azienda Fiat), bensì in mobilità «esterna» (dalla Fiat ad altre aziende non del gruppo), anche se si aggiungeva che questa mobilità non avrebbe dovuto essere dalla Fiat alla disoccupazione, ma «da posto di lavoro a posto di lavoro». Infine si conveniva che la Fiat, «subordinatamente all'attuazione degli impegni assunti ai punti 3 e 7, nel presupposto del corretto funzionamento di tutti i punti convenuti» (si tratta delle clausole sopra riportate) Pontormo avrebbe provveduto a «richiamare» dalla Cassa Integrazione «per il loro reinserimento nell'attività produttiva», tutti quei lavoratori che al 30 giugno 1983 si trovassero ancora in Cassa integrazione. Si tratta - è inevitabile sottolinearlo - di promesse che difficilmente verranno mantenute, posto che nulla potrà impedire alla Fiat alla scadenza del giugno 1983 di invocare un nuovo stato di crisi ecc. Di fatto l'unico risultato che il sindacato è riuscito ad ottenere è stato il ricorso alla Cassa Integrazione in luogo dei licenziamenti. In cambio di questo la Fiat ha ottenuto l'espulsione immediata dalla produzione di una consistente fetta di dipendenti e la possibilità di includere nella lista degli espulsi tutti coloro che in qualche modo non rispondevano alle sue esigenze (i delegati più combattivi, gli invalidi, gli anziani, le donne), con conseguenze facilmente comprensibili per ciò che attiene alla disciplina in fabbrica ed alla produttività delle linee. Baccio Bandinel/i Ciononostante, anche in questo caso si nota, ultimo residuo di una politica sindacale ormai obsoleta, una certa preoccupazione formale per il destino di coloro che sono stati messi a Cassa Integrazione e la manifestazione, sia pure del tutto velleitaria, di una volontà di formalizzare in qualche modo un obbligo dell'azienda di farli rientrare in fabbrica, una volta esaurita la Cassa. Il terzo accordo qui considerato è quello Montedison del febbraio 1981, il peggiore di tutti. Preoccupato che non si crei un nuovo caso Fiat, il sindacato chiude al ribasso in pochi giorni la vertenza, «ottenendo» soltanto il ricorso alla Cassa integrazione per gli operai ritenuti dall'azienda eccedenti. Per il resto nell'accordo non v'è nessun accenno, neppure solo formale, al destino degli espulsi, una volta terminato l'intervento della Cassa. Non solo: mentre si indicano pro forma i criteri con i quali la Montedison avrebbe dovuto scegliere i dipendenti da mettere a Cassa integrazione (i meno anziani, quelli con minore carico di famiFrancesco Galli da Bibiena glia ecc.), di fatto si lascia alla impresa la mano totalmente libera nella scelta delle persone da allontanare dalle fabbriche, anche qui con conseguen:ze facilmente comprensibili (espulsione «per sempre> dei delegati più combattivi, degli anziani, degli invalidi, delle donne ecc.). I delegati che erano stati il fulcro della gande stagione sindacale dei primi anni settanta evidentemente non interessano più o interessano assai poco al sindacato degli anni ottanta. Ma un sindacato senza delegati, vale a dire senza strutture «dure» nei luoghi di lavoro è un sindacato ormai assai lontano dal «movimento> ed assai vicino alla «istituzione»: un grande corpo del tutto o quasi burocratizzato che mira soltanto a garantire la sua conservazione e la sua immagine tra i grandi corpi della società e dello stato. Si dirà (ed i sindacati in effetti lo dicono) che, nonostante tutto, anche questi accordi così deprecati, sono riusciti ad evitare i licenziamenti. In realtà questi licenziamenti soltanto formalmente sono stati rinviati; la espuJsione dalla fabbrica o dall'ufficio ha già avuto luogo ed il ricorso alla Cassa è nella sostanza nient'altro che una sorta di assicurazione anomala contro la disoccupazione. Francamente troppo poco per un sindacato che si era proposto, neppure tanto tempo fa, di modificare il sistema di relazioni industriali (id est di rapporti di classe) esistenti nel paese. Ma torniamo al diritto del lavoro. Espressione giuridica più vicina ed immediata di un sistema economico la cui stabilizzazione se è avvenuta, è avvenuta in modo sostanzialmente antigiuridico (tutta la economia sommersa rappresenta un grande campo di sfida alla legge e su quella sfida si regge), questo diritto risente di tutte le ambiguità dei sottostanti sistemi economico e politico. Sul piano legislativo e della «grande» contrattazione collettiva nazionale, esso mostra una innegabile disponibilità verso politiche del lavoro assai più «produttivistiche» ed anche più «musclées> del passato (si pensi alle precettazioni, alle proposte di leggi antisciopero ecc.), anche se in questo campo, che si colloca al centro dell'attenzione di tutto il paese e sorto gli occhi di tutti i lavoratori, la prudenza è d'obbligo, pena la perdita definitiva di ogni credibilità tra iscritti e militanti. Sul piano invece della gestione di settori parziali di classe operaia (anche se relativi a grandi complessi industriali), questo diritto appare ormai del tutto subalterno alle esigen:ze delle imprese ogni qualvolta queste invocano disciplina ed efficienza. È molto probabile che quanto è accaduto nel secondo dei piani considerati rappresenti la anticipazione di una svolta anche nel primo, svolta dominata pressocché esclusivamente da preoccupazioni produttivistiche, verso la quale spingono strutture legislative, modelli sempre più diffusi di negoziazione collettiva e teoria giuslavoristica di sinistra. (Relazione al convegno-seminario «Tenden71! fondamentali deU'ordinamento ea:.», cit.)

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