collettività (e, quindi, compatibile o meno con l'allarme sociale che su quel reato è stato convogliato); 3) di scegliere se un comportamento abbia o meno leso l'ordine democratico (?!). Si tratta di una scelta di politica criminale volta non ad offrire al giudice un piano di valutazione attinente alla gravità dei delitti e, perciò, alla tipicità, ma a sganciare il suo giudizio dal fatto nei suoi contorni soggettivi ed oggettivi, agganciandolo agli apparati ideologici dominanti. Tra gli effetti di questo predominio dell'allarme sociale e dell'esemplarità pura come criteri ispiratori della politica dell'ordine pubblico vi è la straripante presenza di detenuti in carcerazione preventiva (nello scorso novembre, 20.400 pari al 60 per cento delle 34.000 presenze nelle nostre carceri). A chi poi voglia vedere un rapporto di causalità tra l'indubbio aggravarsi del fenomeno del terrorismo e queste innovazioni istituzionali proponiamo di riflettere su questi dati storici: 1) nel 1974 i termini di carcerazione preventiva furono aumentati sotto la spinta delle polemiche determinate dalla scarcerazione per decorrenza dei termini dei due responsabili di gravissimi atti di criminalità comune (v. Atti parlamentari del Senato, sedute del 21 e 22 maggio 1974); 2) in Francia sono state introdotte norme fortemente peggiorative, in diritto penale e procedurale, in una situazione di terrorismo assolutamente non drammatica; 3) il fenomeno mafioso in Campania, Calabria, e Sicilia produce distruzione di vite umane in misura certamente non inferiore rispetto al terrorismo, eppure non è stato mai invocato a giustificazione dell'introduzione di norme antidemocratiche. Chi ha sparato in nome del comunismo, in questi ultimi anni, ha gravi responsabilità sul piano politico - specialmente nei confronti della già debole opposizione di sinistra -; non ci sembra però che sia dimostrabile che tra queste responsabilità vi sia anche quella relativa all'introduzione di queste «riforme». 11 modello di intervento statale nei settori del diritto della economia e del diritto del lavoro vero e proprio per tutta la prima metà degli anni 70 si è presentato come segue: da un lato una ampia serie di interventi in fa.vore del capitale (crediti agevolati, crediti a fondo perduto, Cassa integrazione ecc.), dall'altro interventi garantistici a favore dei lavoratori, diretti ad impedire licenziamenti ingiustificati, ad assicurare alcuni diritti della persona anche all'interno delle aziende, ecc. L'ultima manifestazione di questa linea è data dall'accordo tra Cgil, Cisl e Uil da un lato, Confindustria dall'altro, sulla garanzia del salario e sulla indennità di contingenza, nel 1975. A partire dal 1976 il modello di intervento legislativo e collettivo è stato di fatto assoggettato ad una inversione radicale: mentre gli interventi statali in favore del capitale, tradizionali in questi .anni, continuano (legge 12 agosto 1977 n. 675, che contiene provvedimenti per il coordinamento della politica industriale, le ristrutturazioni ecc.; legge 27 febbraio 1978 n. 44 contenente norme in favore di imprese in difficoltà ecc.), quelli in favore dei lavoratori cessano e sono sostituiti da interventi anch'essi a favore del capitale, con un totale rovesciamento del sistema binario seguito in precedenza. Alla fine del 1976, prima con un decreto-legge e poi con la relativa legAndrea Del Sarto 8-2. A questa normativa tendente alla cristallizzazione formale della subalternità della magistratura alla polizia in indagini particolarmente rilevanti, si contrappone una linea di tendenza emergente in alcuni processi politici. In essi si assiste all'impulso e alla conduzione diretta dal giudice, che non attende l'imbeccata degli organi dell'esecutivo, ma li anticipa e li scavalca, attraverso una personale ed autonoma ricostruzione storico-ideologica di fatti, di periodi storici. Una novità istituzionale, quindi: il processo penale come laboratorio, in cui fatti, uomini, periodi storici vengono analizzati e filtrati attraverso categorie penali. In questa tendenza si è inserito un meccanismo repressione-consenso gestito dalle forze politiche dominanti: i partiti e i loro organi di stampa hanno saldamente occupato i canali di comunicazione con questi magistrati, assicurando loro una compatta protezione di consenso, anche negli aspetti più deboli e discutibili (storicamente, giuridicamente e culturalmente) dei vari «teoremi» man mano creati e adattati dagli inquirenti. Si impone così una Marianna Waldstein teoria consensuale delle «verità giudiziarie», dove il consenso della maggioranza dei consociati - rappresentata più o meno fedelmente dai partiti e dai loro organi di informazione-assurge a criterio ontologico di questa verità. Le accuse, le condanne anticipate attraverso la carcerazione preventiva, la •scelta degli organi inquirenti assumono cadenze prevalentemente politiche, in gran parte svincolate dai principi di legalità formali. La discussione pubblica di questi prodotti giurisprudenziali è gestita quasi completamente dal sistema dei partiti, che tende, attraverso questi nuovi sentieri processuali tracciati dalla magistratura, ad ottenere la conferma istituzionale, la cogenza del giudicato per proprie opinabili tesi politiche (es. rapporto di propedeuticità tra lotte extra-istituzionali e lotta armata; identità culturale e politica tra illegalità diffusa e terrorismo). Un obiettivo lungamente auspicato nell'ambito del dibattito sulla democratizzazione della funzione giudiziaria è stato realizzato in maniera distorta: il tema della partecipazione popolare all'amministrazione della giustizia Jan Frans Van Douven si è inserito nel tema dell'invadenza dei partiti, che indirizzano l'allarme sociale e presidiano i più rilevanti processi politici non tanto per fini di tutela della collettività ma per celare la loro profonda crisi di credibilità e di legittimazione. Il problema della partecipazione dei cittadini a quell'opera di intregrazione e trasformazione del reddito costituita dalla sua applicazione si è ridotto a quello dell'egemonia culturale ed ideologica dei partiti nella conduzione delle più delicate indagini giudiziarie. Nella storia del nostro costume si incontrano molti casi in cui la stampa e la pubblica opinione hanno fatto sentire il proprio peso sulla conduzione e sull'esito di importanti - o anche solo clamorose - inchieste giudiziarie. Si è trattato comunque di spontanei fenomeni sociali e non - come avviene oggi - di un'azione politica, coordinata dai partiti, in vista di una loro efficace presenza in alcuni processi. Si pone oggi, quindi, il problema, in parte nuovo, costituito dall'allargamento del soggetto interpretante in questi processi, controllato dai partiti e dall'occupazione, da parte di questi ultimi, del dibattito Leleggi.~~Ilavoro ge di conversione (1Odicembre 1976 n. 797), veniva bloccato il pagamento della indennità di contingenza per le retribuzioni superiori ad un certo livello ed in suo luogo veniva imposta l'accettazione di buoni del tesoro non negoziabili. Con la legislazione statale concorrevano nello stesso senso anche gli accordi collettivi. Era del 26 gennaio 1977 un accordo tra la Confindustria e le tre confederazioni sindacali sul costo del lavoro che di fatto apportava un colpo mortale alla indennità di anzianità, accordo subito seguito da un decreto legge e da una successiva legge di conversione (31 marzo 1977 n. 91). Il decreto e la legge confermavano la esclusione dal calcolo della indennità di anzianità degli aumenti di contingenza scattati posteriormente al 31 gennaio 1977. L'accordo Confindu- • stria-sindacati stabiliva anche una riduzione delle festività ed anche in questo caso puntualmente una legge ne faceva propri i principi (legge 5 marzo 1977 n. 54). Era della fine del 1977 un decreto legge che dilatava la possibilità del ricorso al contratto a termine (la successiva legge di conversione era del 3 febbraio 1978 e recava il n. 18). Sul piano della dottrina, gli stessi anni hanno visto il diffondersi, tra i giuristi della sinistra riformista, di modelli partecipativi ispirati ali~ esperienza tedesca, alla V direttiva della Cee, al rapporto Bullock inglese ecc. e che trovano qualche riferimento concreto nei diritti alla informazione contenuti nei contratti collettivi dei settori industriali stipulati in quegli anni. Sul piano giurisprudenziale infine si è assistito ad un «taglio delle punte>, cioè ad un ridimensionamento della giurisprudenza più avanzata ed aperta dei primi anni successivi allo statuto Vigee l.ehrun dei lavoratori, senza tuttavia arrivare ad una vera e propria restaurazione (per una analisi più ampia ved~ sul n. 14 di Critica del diritto, il mio articolo «Il diritto del lavoro, oggi>). Unico momento di legislazione migliorativa è stata in quegli anni la legge sulla parità uomo-donna sul lavoro, la quale, tuttavia, è rimasta, per insipienza (o peggio) delle organizzazioni sindacali, quasi dovunque inattuata. Gli anni successivi al 1979 sono caratterizzati, sotto l'aspetto che qui interessa, da una «sterilizzazione» della situazione, la quale non presenta so- ,tanziali deviazioni rispetto a quanto notato per la fase descritta in precedenza. Sul piano legislativo non si riscontrano norme di rilievo ed altrettanto accade sul piano collettivo, anche se ,pesso si parla, anche a sinistra, di farnrire una certa «liberalizzazione dei c:ontratti a termine» ed in genere delle forme di lavoro precarie, nei confronti delle quali non si formula più una reci- ,a condanna, ma delle quali si auspica in qualche modo una regolamentazione. Appare nel contempo anche quald1c inizio di autocritica sui «misfatti» rnmpiuti negli anni della «grande maggioranza». Così L. Ventura, direttore della Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, dichiara ad esempio di non dimenticare «il senso su atti giudiziari che investono temi culturali e politici che sono di tutti i cittadini. Si tratta, cioè, del problema di costruire e inventare canali di comunicazione, occasioni di espressione per chi non si riconosca in questo sistema e voglia esprimere il proprio ragionato e calibrato dissenso su questi processi, come su tutti gli argomenti di rilievo politico.· Conclusioni: il carattere dialettico del processo si manifesta nella distinzione del giudice dai contendenti, tanto che, in una versione arcaica, l'immagine del primo si confondeva con quella dello spettatore intento a controllare che le regole dell'azione fossero rispettate. Le vicende di questi ultimi anni hanno profondamente alterato questo carattere dialettico, nel senso che il giudice - nella fase inquirente - ha perso la sua funzione di controllo e di garanzia nei confronti di uno dei contendenti (gli organi dell'esecutivo) e diventa esso stesso contendente nei confronti di alcuni imputati, perché: 1) subisce i condizionamenti culturali ed ideologici che provengono dalle forze politiche dominanti; 2) si fa esso stesso propulsore di analisi politiche - corazzate da processo penale - che lo portano naturalmente a divenire alleato di quelle forze che tali analisi condividono e avversario di chi queste analisi deve subirle come imputato (un dibattito politico che ha come posta in gioco la carcerazione di una sola delle parti). Si tratta, comunque, di un rivolgimento istituzionale dai caratteri e dalle conseguenze in costante evoluzione e quindi meritevoli di analisi continuamente aggiornate. (Relazione al convegno-seminario «Tendenze fondamentali dell'ordinamento giuridico italiano negli ultimi dieci anni>, Modena, Facoltà di economia e commercio, 16 maggio 1981). di sgomento che ha colto la dottrina giuslavoristica e soprattutto una parte di essa allorquando sono state emanate norme come quelle contenute nel decreto legge n. 12 del 1977 e nella legge di conversione n. 91 del 1977. Dopo più di trentanni nei quali, dalla fine della guerra in poi, non vi è stata legge sul lavoro che non abbia ampliato i diritti, anche patrimonial~ interveniva per la prima volta una legge, concordata con le grandi organizzazioni sindacali, che invertiva la ·tendenza. Era quindi naturale che essa facesse sorgere interrogativi che tuttora permangono e che non hanno ancora dato luogo ad approfondimenti ed a chiarimenti definitivi», anche se restano ancora le incertezze e le ambiguità di qualche anno fa («Dicendo tutto questo - continua Ventura - senza mezzi termini, io non intendo affatto affermare che l'obiettivo di salvaguardare i profitti abbia costituito il fine dell'accordo interconfederale del 26 gennaio I 977 e delle norme legislative che vi hanno fatto seguito. Al contrario è evidente che quell'accordo ha teso soltanto a ridurre gli effetti moltiplicatori della applicazione degli accordi sulla scala mobile dei salari (cioè di accordi che sono stati difesi in modo intransigente) in modo da impedire conseguenze negative sugli investimenti e sull'occupazione. È però a questo punto che appare in tutta la sua
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