Alfabeta - anno III - n. 26/27 - lug.ago. 1981

Ilcinemapiù~rittodelmondo 11cinema italiano oggi è il più brutto del mondo e non è mai stato in basso come nell'80 e nell'81. I classici, i maùres à penser del cinema italiano sono, tra tutti i grandi vecchi, quelli che sono invecchiati peggio; il giovane cinema italiano (quello dei Moretti - ichetti - Giordana ecc.) era già vecchio prima di essere nato; la generazione di mezzo non c'è più (ci sono i Corbucci, i Castellano e Pipolo, i Laurenti, i Lupo, i Martino, ma non quelli che una volta si consideravano autori). C'è una dialettica della banalità che domina incontrastata nel cinema italiano. Da un lato vecchi che rifanno instancabilmente se stessi sempre peggio, con una cronica incapacità a inventare percorsi nuovi. Dall'altro la generazione di giovani con la minore capacità di riflessione sull'esistente che si ricordi: una generazione di veri e finti ex 68 che ha patito un radicale impoverimento dell'immaginario e sembra diventata incapace di inventare qualcosa. Lavorare in qualche modo sulla complessità dello spettacolo, porre in atto procedimenti di superamento o al!Deno di lacerazione dell'ordine della rappresentazione? eanche per idea. Mentre il cinema americano rifonda la narratività filmica con la complessità del linguaggio pluralizzato e molteplice della rete degli intermedia innestando la spettacolarità sull'immagine: computerizzata, rinnovando generi e: tematiche, scritture ed iconologie, il cinema italiano continua a procedere: con la sua struttura artigianale ed approssimativa, puntando soprattutto sul talento in un momento in cui di talento non c'è traccia. Di fronte alla crisi degli Anni Sessanta il cinema americano ha rinnovato all'80 per cento i propri autori e abbassato a 35 anni l'età dei registi. Nel cinema italiano i registi, gli sceneggiatori sono sempre gli stessi, convinti che le coma siano il problema principale e che il mondo finisca a Fregene (e d'altra parte, i nuovi non vanno al di là della comicità autarchica, con Roma Nord al posto di Campo dei Fiori). Restano le ripetizioni di maniera, che non sanno né valorizzare il possibile manierismo, né trasformare la ripetizione in ossessione; o le incredibili rivisitazioni del cadavere nazionalpopolare, che si vorrebbe far risorgere non si sa bene in base a quale procedimento magico, l'affresco improbabile del tempo in cui i valori e le contrapposizioni erano netti e i buoni erano proprio buoni e i cattivi erano proprio cattivi (sfido, erano fascisti), o il ripensamento generazionale fatto con lo spirito dell'osteria, con la coca cola al posto della foietta di frascati della vecchia commedia all'italiana, con le lacrime di circostanza sulle bandiere rosse, un occhio alle battute per il botteghino e l'altro al dramma del reduce per far fesso il critico (che ci casca regolarmente). E, in quasi tutti, sguaiatamente, l'occhiolino all'attualità spicciola, la volontà spudorata di sfruttare il momento, l'attenzione alle 1 inchieste dell'Espresso e al conformismo chic del giornalismo culturale. È il genere «problemi d'oggi», ultima spiaggia dei registi senza idee. È un genere che piace ai produttori che leggono i giornali (gli altri leggono soltanto i dati sugli incassi). Il problema della donna e il problema dell'uomo di fronte all'emancipazione della donna, il problema della crisi dei giovani (ex-rivoluzionari e no) e l'attualità del pericolo fascista, il problema della mafia e quello del terrorismo, quello della magistratura (che non si sa più se sia inquinata o democratica) e quello del dilagare della delinquenza, la frattura tra padri e figli e il complesso di Edipo (che, quello, è sempre attuale), la crisi della coppia e la nuova gelosia: sembra di leggere un sommario di Panorama o di Grazia. Tante illustrazioni anonime, tutte subalterne alla sociologia spicciola, tutte integrate all'immaginario parassita formato dai mass media. E dire che altrove Wenders fa un film di tre ore su due che viaggiano in camion e un altro sulla morte (vera) di Nicholas Ray, e Rohmer mette in sccna il Perceval di Chrétien de Troyes, decostruendo l'impressione di realtii su cui si fonda il cinema, Bogdanovich scrive i film lavorando su materiale già simbolizzato, Chantal Akermann fa impastare un polpettone tre o quattm volte per alcuni lunghissimi minuti reali alla protagonista (Jeanne Dielman), e Ruiz studia i rapporti tra i simulacri e gli eventi con sguardo da entomologo. Visti con l'ottica del cinema italiano sembrano persone di un altro mondo e pazzi sembrano i produttori che consentono loro simili spericolatezze. In Italia dovrebbe essere lo spazio di produzione pubblica a garantire la possibilità della ricerca linguistica: ma questo spazio è totalmente lottizzato e consente soltanto la realizzazione di opere di regime, saldamente ancorate ai vecchi modelli culturali ampiamente digeriti dal pubblico ed equamente distribuiti tra Dc, Pci e Psi. Un De Gasperi vale un Gramsci, un don Minzoni vale un'Anna Kuliscioff. E Pertini dove lo mettiamo? e osi il cinema italiano è insieme il più ripetitivo, il più standardizzato e il meno inventivo del mondo. In fondo hanno ragione i Corbucci, i Festa Campanile, i Castellano e Pipolo a rifiutare l'etichetta di cinema di serie B. E quale sarebbe la serie A? Nulla delle grandi operazioni di ristrutturazione dell'immaginario cinematografico realizzate dal cinema europeo e dal cinema americano negli Anni Settanta passa nel nostro cinema (E, bisognerebbe aggiungere, appena un buon regista si trasferisce a Roma ed è investito dalla sua subcultura, smette di fare dei film rigorosi: Jancso, Rocha, Straub ne sono stati gli esempi più significativi). Non la riflessione sulla simulazione diffusa, non l'assunzione della spettacolarità come filtro e come doppio esemplare dcll'intersoggettività, non J"indaginc sull"avventura rovesciata di produzione del simbolico a partire dal vuoto, dalla mancanza, non le pratiche di deriva, di nomadismo, di dislocamento del senso, né ancora le aperture di buchi nel tessuto narrativo o i raddoppiamenti, le enfatizzazioni del linguaggio spettacolare variamente posti in atto nel cinema internazionale dopo la fine del nuovo cinema e del suo progetto di linguaggio utopico della sintesi. Nulla di tutta questa sperimentazione sul linguaggio e sulla dimensione spettacolare circola nel cinema italiano. Nessuna capacità di fornire risposte all'altezza dei tempi ai problemi della produzione simbolica e dei linguaggi audiovisivo-cinetici. Le risposte ideologiche che hanno avuto sempre tanta fortuna nel cinema italiano sono ormai cani morti, cadaveri ·òèppure più eccellenti, non perché l'ideologia sia calata a forza nel linguaggio filmico, ma perché l'immagine degli autori non sa andare oltre un'esposizione narrativa di uno schema ideologico, che spesso è precisa e proprio per questo penosamente piatta. Nella povertà dell'immaginario cinematografico italiano dominano due grandi modelli culturali (e subculturali): il realismo, nelle sue molteplici articolazioni spettacolari, e il kitsch. Da un lato il realismo come illusione presuntuosa e ovvia di rappresentare il reale, di individuarne le strutture tipiche, appoggiandosi soprattutto alle più facili caratterizzazioni d'ambiente, ai bozzetti, agli affreschi popolari, agli ovvi interieurs borghesi. Sono saldi apparati narrativi, intessuti di eventi e di solide connotazioni, e sorretti generalmente da un'opzione ideologica e mnral istica, che tende ad orientare didatticamente il messaggio emergente dal tessuto linguistico. Lavinia Fontana Sono costruzioni a tutto tondo in cui il senso si presenta univoco, monocorde, cancella· ogni ambiguità possibile, annulla ogni complessità di ricerca, in favore di una presunta comunicazione diretta del «contenuto». Dall'altro la visitazione del Kitsch in tutte le sue manifestazioni, sistematicamente collegata alla rimozione dell'operazione in atto: la visitazione del Kitsch, cioè: come operazione inconsapevole che non solo si presume produzione «colta» e realizza paccottiglia per il mercato, ma, più ancora, nasconde la propria struttura e cerca di proporre di sé un'immagine e uno statuto falso: Scandalo al sole non voleva essere A women of Paris; La luna, che magari voleva esserlo, non è neppure Scandalo al sole. «Il Kitsch - scriveva Hermann Broch - è una convenzione completamente irreale», che tende ad imprigionare il mondo in «un falso schema» che si spaccia per autentico. E il cinema, impregnato com'è «di sangue e di saccarina» rappresenta l'apoteosi del Kitsch, la sua «marcia trionfale». Ma parliamo dei film. 1980: La città delle donne, Salto nel vuoto. 1981: Tre fratelli. C'era una volta un grande regista. Piaceva a tutti. Piaceva ai raffinati perché si estasiava di fronte ai seni di Anita Ekberg, piaceva ai colti perché oltre i settimanali satirici non era mai riusciio ad arrivare, piaceva ai critici perché rimestava sempre le solite quattro balle, che si imparano facilmente e si possono ripetere senza sprecare intelligenza. Certo ha un grande senso della pubblicità (non a caso è amato in America). Si è messo un cappello da cowboy nero, in testa. Ha preso uno staffile in mano e ha cominciato a minacciare le donne. Tante donne: la moglie, l'amante, l'amante passata, l'amante futura, la prima che aveva guardata dal buco della serratura, la tabaccaia di Rimini, la Saraghina, le puttane dei bordelli del periodo fascista, quelle dei bordelli del dopoguerra, la svedese di turno, la principessa romana, eccetera eccetera. E cosi Fellini è diventato per tutti un artista, cioè uno che immagina quello che gli altri immaginano. Ma è proprio questa la funzione dell'artista? Dà semplicemente corpo a quello che immagina la gente? Nessuna differenza lo separa dall'immaginario diffuso, dalla chiacchiera del bar o del salotto? Anni Sessanta. C'era la neoavanguardia. c'erano la nouvelle l'ague e Godard. Si scopriva Resnais e si riscopriva Buiìuel. Fellini capisce che si può fare un film mescolando il reale e l'immaginario, disarticolando la narrazione lineare, trasformando le ossessioni mentali tn elementi spettacolari. E comincia a lavorare sul Kitsch. Quancuno parla di «un freudisme simplet et un surréalisme démodé» (J.L. Bory), ma i più si inchinano davanti alla illustrazione rituale del Kitsch. Invero le ossessioni mentali di Fellini hanno tutte (o quasi) la struttura di una sacra rappresentazione da bordello. La sua cultura, il suo mondo sono quelli dell'Italietta fascista degli Anni Trenta, della Roma imperiale (e di cartapesta) vista con l'occhio straniato del provinciale. Con al centro il bordello. Intendiamoci. Il bordello ha subito trattamenti letterari e drammaturgici estremamente significativi, da Joyce a Génet, diventando un microcosmo ipersemantizzato che apre un discorso su altro, uno spazio in cui si riversano altre significanze (e altre esemplarità). In Fellini no. Il bordello per Fellini è la misura di tutto il mondo, non è uno spazio di significazione concentrata, ma il luogo di tutti i significati possibili. Ma i significali possibili nei bordelli non sono tanto numerosi, e sembrano attenersi più all'ordine della prossemica che all'orizzonte dell'ermeneutica. Tant'è, a Fellini bastano. Eppure, si dirà, nell'ultimo film di Fellini (è della Città delle donne che dobbiamo parlare) ci sono le donne, ma non c'è il bordello. Si dirà: ci sono i discorsi delle donne, i problemi degli uomini di fronte ai cambiamenti delle donne, ma non c'è traccia del bordello. E tuttavia il bordello c'è. Non ci sarà come luogo fisico, come presenza reale, ma c'è ;;;; come sapore, come atmosfera, in una :2: parola, come spirito. Una prova? Da l:l dove viene quel nome cosi imbecille e ~ così poco allusivo che Fellini inventa -S! per il suo deuteragonista, da dove può ,9 venire un'idea così banalmente volga- ]' re di chiamare un personaggio non t-- solo Katzone, ma Sante Katzone, se ~ non dallo spirito del bordello, dai "' modelli comunicativi del bordello? Ve ,:: lo immaginate Buiiuel chiamare Sante ~ Katzone un suo personaggio? Già, ma ~ mentre Buiìuel leggeva La Révolution ~

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