Alfabeta - anno III - n. 26/27 - lug.ago. 1981

Il Novecen~.,L.duiperini Romano Luperini O Novecento Apparati ideologici-ceto intellettuale - sistemi formali nella letteratura italiana contemporanea Torino, Loescher, 1981 2 voli., pp. XXIV + 1003, lire 27.000 letteratura e storia letteraria E siste realmente qualcosa che si possa definire «storia letteraria», oppure tale storia è solo nella testa di chi la scrive? Ri-formulare questa domanda non ci pare inutile né ci fa sentire degli ingenui, semmai ci sentiamo faziosi e innocenti al tempo stesso nel porre cosi radicalmente la «vecchia» questione dei rapporti fra storia e letteratura. Volendo poi mettere le mani avanti e in qualche modo prevenire le inevitabili obiezioni (magari quelle di tipo empirico come: la storia letteraria c'è, pertanto è), rispondiamo facendo nostra l'osservazione barthesiana contenuta nell'articolo «Storia o letteratura?» del ·,60: «A dire il vero non si vede bene come ci si possa accingere a una storia della letteratura senza prima interrogarsi sul suo stesso essere•. Se infine teniamo per valide e attuali ancora (o nonostante?) oggi le considerazioni mancengelsiane sulla storia degli uomini, non si potrà non convenire, magari in via preliminare, con questo brano dell'Ideologia tedesca: «Non c'è storia della politica, del diritto, della scienza, ecc., dell'arte, della religione, ecc.• giacché, come ci ricorda Luperini nella Prefazione al suo lavoro sul Novecento, «l'unica storia possibile è quella dei rapporti di produzione e del conflitto di classe». Dopo un certo periodo di «oblio•, ecco che ritorna inalterata la domanda: si può dunque fare da» storia di ciò che in sé storia non ha? Se, per rovesciare un celebre postulato wittgensteiniano, di ciò che si può conoscere si deve parlare, allora la storia letteraria è conoscibile, e per ciò fattibile. E mentre all'inizio del secolo Valéry vagheggiava una storia della letteratura quale storia dello spirito «che potrebbe anche essere fatta senza che venisse mai pronunciato il nome di un autore», assai più recentemente Jean-Pierre Faye ha sostenuto che la storia si fa soltanto scrivendola - ciò sarebbe indiscutibilmente vero se lo storico facesse la storia, e non la ri-costruisse invece passando dai fenomeni al sistema. A tale proposito occorre in primo luogo individuare il divello fondante• di un certo oggetto storico che è, scrive Luperini, «quello della produzione», cosicché, per quanto conèeme l'oggetto letteratura, avremo un fattore storico determinante: i rapporti di produzione, e unfauo specifico: la produzione della cultura. Ora, questa relazione di base non toglie che la letteratura venga intesa come un fare «naturale• (scrivere, dice Barthes, appare naturale come mangiare, dormire o riprodursi), ma essa è naturale come lo è, sul piano storico ~ell'attività umana, ogni lavoro separato (e analogia non è identità). Tuttavia, l'attività teorica e «filosofica,. dominante in questi ultimi anni in campo letterario ha condotto i suoi sforzi verso un'unica direzione: la trasformazione del concetto di specificità differenziante della produzione letteraria in quello di autonomia del linguaggio poetico e letterario; trovandosi quindi nella necessità di tracciarne la «storia», i semiologi hanno individuato nella storia delle forme letterarie l'unica storia possibile da fare. Ha scritto a questo proposito Genette: «Mi pare quindi che in letteratura l'oggetto storico (cioè contemporaneamente permanente e variabile) non sia l'opera, bensi gli elementi che la trascendono e costituiscono il gioco letterario: per comodità, chiamiamoli le forme. Esempi: i codici retorici, le tecniche narrative, le strutture poetiche, ecc. Esiste una storia delle forme letterarie, come di tutte le forme estetiche e come di tutte le tecniche, per il semplice fatto che tali forme permanVenct:slao Wt!hrlin (Verlin) gono e si modificano attraverso i secoli Sfortunatamente una simile storia resta ancora una volta, per la maggior parte; da scrivere• (Figure lii, Einaudi 1976, pp. 12-3). Il rammarico di Genette sarebbe del tutto legittimo se esistessero veramente le forme-essenze da lui postulate, e se la storia fosse un insieme di «storie• di sistemi chiusi. Riprendendo quanto aveva avuto modo di dire, con più ampio respiro teorico, in Marxismo e lelleratura, alla -cuiimpostazione metodologica questo Novecento resta in parte debitore, Luperini obietta nella Prefazione: «una storia delle forme letterarie non basta a fondare una storia letteraria. Sono gli stessi semiologi (pensiamo soprattutto alle Tesi del 1973 della Scuola di Mosca-Tartu) ad avvertirci che è insufficiente descrivere l'organizzazione immanente dei singolilivelli e che il problema è quello di studiare le interconnessioni fra le strutture di differenti livelli» (pp. X-XI). Non da oggi difatti Luperini ha denunciato l'impasse di certe analisi semiologiche che non sanno passare «dalla fase descrittiva a quella interpretativa», e la loro incapacità di raccordare il punto di vista interno all'oggetto in esame con quello esterno, connesso a una concezione storica del fatto letterario, non è dovuta a incapacità personale del singolo studioso, bensi è uno dei limiti metodologici di fondo di tali analisi. Del resto, non è forse stato lo strutturalismo a insegnarci a costruire un sistema strutturante dove «tutto si tiene• e da cui non è dato uscire? Ora, la Scuola di Mosca-Tartu cui Luperini si riferisce ha però tentato di superare questa impasse metodologica conducendo l'analisi del concetto di cultura da un duplice punto di vista: interno;·~ secondo cui la cultura è def~ita «sfera dell'organizzazione (dell'informazione) nella società umana, cui si contrappone la disorganizzazione (l'entropia); ed esterno: «a descriverle· da un punto di vista esterno, la cultura e la non cultura appaiono come sfere reciprocamente condizionantisi e bisognose l'una dell'altra» (citiamo da AA. VV. Tesi sullo studio semiotico della cultura, Pratiche 1980, pp. 36-7). Tale impostazione ha il merito indubbio di promuovere una concezione dinamica. interpretativa e non solo descrittiva, del rapporto tra cultura e non-cultura, dei loro reciproci condizionamenti e interrelazioni; ciò nonostante, l'analisi delle tipologie culturali tende a sopprimere la tensione e le contraddizioni che solcano il «sistema» culturale descritto che tale (cioè unitario) in realtà non è. Il che significa che la descrivibilità dell'oggetto in esame è innanzitutto la descrivibilità del metodo di analisi, e al primo vengono assegnate come proprie le leggi che ordinano e governano il metodo stesso. Legati a una analisi che determinandosi determina nef contempo le condizioni stesse di esistenza dell'oggetto, i semiologi di Mosca-Tartu non possono che considerare il testo, sia esso «segno integrale» o «sequenza di segni», «l'elemento primario (l'unità di base) della cultura» -e da ciò partono e qui giungono, in un movimento circolare che altrove non porta. Il criterio di verità di un testo, ha scritto Luperini in Verga e le strutture narrative del realismo (Liviana, 1976), «è fuori di esso... nella pratica storica», ma «il mezzo per penetrarlo, la strada da seguire, è dentro di esso». Anche in Novecento Luperini muove da questo doppio postulato teorico, mettendo a frutto le lezioni metodologiche di questo secolo giacché il compito dello studioso di parte marxista non consiste nel rifiutare in blocco e aprioristicamente le tecniche di analisi prodotte dai «nemici di ieri» (come Luperini definisce strutturalisti, semiologi della cultura ed ermeneuti), bensl nell'usarle criticamente, verificandone dall'interno tenuta e «valore». In tal modo, non si fa del marxismo un metodo a se stante o più o meno ausiliario, atto a «integrare» la ricerca e le analisi letterarie, ma esso resta «scienza dialettica» aperta a tutto, che su tutto può intervenire. Interpretazione storica (da Lupe rini contrapposta alla descrizione «avalutativa») e proposta di una nuova periodizzazione: sono questi a grandi linee i due poli all'interno dei quali si iscrive (e vi trova definizione adeguata) il lavoro di Luperini sul Novecento. Se dunque la letteratura si presenta, empiricamente, come un insieme di testi per render conto dei quali è necessario un lavoro teorico di ri-costruzione di «sistemi» in cui inserirli, «ricondurre il molteplice all'unità, il disordine all'ordine» non vuol tuttavia dire, avverte Luperini, perdere di vista «la tensione fra fenomeni e sistema e dei sistemi fra loro» né dimenticare «che l'uno è scindibile in due, che l'equilibrio nasconde lo squilibrio» (p. X). Ma operare un ordine «unificante», costruire schemi o modelli interpretativi (sia pure intesi come mezzo, non come fine) laddove esistono non continuità ma rotture, non unità ma divisioni e interruzioni, significa anche compiere una forzatura necessaria all'analisi dei fenomeni letterari dati. Tale «forzatura» risulta tanto più evidente quanto più la ricostruzione del «sistema» ha per oggetto opere che, trovando per un verso il loro giusto inserimento letterario in un'epoca storica data e in una «poetica» lì elaborata, sfuggono per l'altro a una simile prospettiva (o scansione) storico-formale unificante che finiscecon l'esaurire e far coincidere la carica di innovazione e il potenziale di rottura formale di tali opere con una certa «corrente» o «linea» poetico-letteraria già conclusa e in sé conchiusa. Riferimenti: il frammentismo, Pizzuto, ed altri Ci pare questo ilcaso del «frammentismo espressionista», nel quale Luperini iscrive, e in un certo senso «risolve», Slataper, Jahier e Boine (cfr. pp. 197-217). «Eccoci davanti a testi elaborati in un linguaggio frantumato, teso, violento fortemente ellittico e concentrato, che rivela un'esigenza di rompere l'ordine linguisticoe di contestare le istituzioni letterarie coerentemente con un'analoga tendenza all'effrazione sul piano sociale» (p. 197); inteso come «frammentismo», questo fenomeno letterario può essere benissimo analizµto inserendolo all'interno di una «linea» espressionista. Se

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