Alfabeta - anno III - n. 26/27 - lug.ago. 1981

"" ' ' g.<> "'- ..... oO °' ..... ~ e::, Ò() ..s; i -2! t--.. ~ 'O "' <: <:, .; ~ $ <t; '? l «L'uso abnorme del pronome relativo al posto del dimostrativo » e la continua «contaminazione del soggellivo e dell'oggettivo» con passaggi incontroll&ti (apparentemente) del discorso diretto all'indiretto, come osserva Maria.Corti (3), hanno effetti dirottanti e irritanti sul lettore, vittima del furore antigrammaticale dello scrittore. I nfatti, questo povero lettore, maltrattato e violentato sul piano della rispettabilità e della schifiltosità (Malerba è uno dei maggiori cantori dello sporco nella letteratura contemporanea), viene anche insultato e sbeffeggiato sul piano non del purismo linguistico (che ormai non si sa più dove abiti) ma della legittimità d'uso. Il testo funziona come poudre à gratter, come irritante che fa inquietare e grattare il lettore. Le deformazioni lingui- •stiche, non in posizione di privilegio ma una dietro l'altra, ossessivamente, costringono il lettore a continui riaggiustamenti di sintonia: a chiedersi «che lingua sto leggendo?» (specialmente nel Pataffio ). In certe zone marginali dei suoi romanzi Malerba costringe il lettore ad accettare una sua lingua privata, un suo borborigma mentale con scarsissimo riguardo per il patrimonio linguistico comune a scrittore e a lettore. Io lettore non conosco la parola «kappa» (tranne come una lettera dell'alfabeto), ma a forza di leggerla ripetutamente in Salto Mortale ho finito per accettarla come una bestemmia stravagante, sul tipo di «cribbio», o «cavolo», o «urca». Per Maria Corti «kappa» è un personaggio «con cui il protagonista Giuseppe colloquia secondo norme appropriate piuttosto a un monologo che a un dialogo» ( 4). Il verdetto è nelle mani di Luigi Malerba / Humpty Dumpty, il quale decide ciò che una parola significa contro la tradizione e contro il vocabolario: «Quando io uso una parola - ribatté Humpty Dumpty piuttosto altezzosamente, - essa significa precisamente ciò che voglio che significhi, né più né meno» ( 5). Ma forse Humpty Dumpty si è ormai scordato che cosa intendeva con «kappa», e quindi la Corti ha ragione nel vedere in «kappa» un personaggio, e io ho ragione nel leggerlo come una bestemmia. Malerba ha una ricca messe di neologismi: «il Garantuomo» (/1 Protagonista, p. 41); «Saltirimbanco» (/1 Pataffio, p. 68); «Ottantenario» (/1 Protagonista, p. 193) «Personacci» (ibid., p.130); «Cartellonica stradale» (ibid., 45), fino alle serie apparse in giornali e riviste con soluzioni abbastanza facili come il «Fanfandrotto». Più interessante è il modo in cui il genere grammaticale viene forzato dall'idioletto malerbiano: penso alla magnifica «sentinella» il cui genere femminile la costringe ad assumere ruolo sociale di femmina e a diventare «brutta ... cretina ... bella ... maleducata» (Salto Mortale, p. 74). O al capovolgimento fra «pescecani» e «architetti» nel finale del racconto eponimo di D_opo il Pescecane (p. 13). O alla «mignatta>, che inizia in sordina la sua esistenza di «mignatta> a p. 193 di Salto Monale, ma alla pagina seguente si trova «in libertà per le strade della Capitale verso sera, o in via Capo le Case ... Anche sul Grande Raccordo Anulare ... stanno sedute sui paracarri ... Per i camionisti fanno dei prezzi speciali>. Il passaggio da mignatta / mignatta a mignatta / mignotta avviene humptydumptianamente: Malerba decide che «mignatta» vuol dire «mignatta> e che «mignatta> vuol dire «mignotta»: basta. L'uso del-lemma «mignatta• a significare sia sanguisuga che prostituta è anche una proposta di dimezzare il vocabolario: costringendo ogni significante ad assumere la responsabilità di due significati. Insomma, è un contributo alla teoria della letteratura povera. Malerba aspira a una scrittura limitata nel lessico, parsimoniosa nella sintassi, avara nella punleggiatura; una scrittura di poche parole e di nulle metafore, simile a quella dei contadini dei tre villaggi nella media valle del Taro, vicino a Panna, che Malerba ha studiato e analizzato nelle Parole abbandonate. Gli interessi del romanziere e dello studioso di cultura contadina sono molto più vicini di quanto si potrebbe immaginare. Note 1) Traggo queste informazioni dal testo inedito di un seminario di uno studente tedesco, Heinz Simon, presentato nel corso del Professor K. Ringger. Ringrazio Luigi Malerba per avermi permesso di consultare una copia di questo documento. 2) Per comodità di discorso critico, e per l'impossibilità di riconoscere le quattro mani al lavoro nel testo, in questo articolo considero Storie dell'Anno Mille,comc parte integrante dell'opera di Malerba, ignorando il contributo del co-autore Tonino Guerra. 3) Maria Corti, li viaggio testuale, Torino, Einaudi, I 978, p. 141. 4) lbid., p. 138. 5) Lewis Carroll, Attraverso lo Specchio, cap. 6. Unascritturdaell'oralità Vincenzo Bonazza Lemigrante Bari, Dedalo libri, 1976 pp. 162, lire 2.000 Vincienzo Bonazza La casa di lacca Bari, Dedalo libri, 1980 pp. 150, lire 5.000 Entrambi i volumi sono usciti nella «Collana bianca», collegata alla rivista Il piccolo Hans. Salvatore Bruno L'allenatore Firenze, Vallecchi, 1963 Enrico Filippini «Gioco con la scimmia», in Il Menabò, n. 8, 1965 LI esperienza di linguaggio di cui danno atto le due opere narrative di Vincenzo (o Vincienzo) Bonazza, Lemigrante e La casa di lacca, entrambe avallate da due acute introduzioni di Mario Spinella, si presta benissimo ad alcune considerazioni non ordinarie rispetto ad esperienze consimili: nella fattispecie, quelle inerenti all'assunzione del dialetto in quanto tessuto di base dell'opera. Nel nostro caso infatti, il dialetto (pertinente a una koiné meridionale che grosso modo si può circoscrivere alla . calabrese) risulta decisamente dirottato ad altre funzioni che non siano quelle- ordinarie, appunto- di una mimesi, folklorica o psicologica, di una determinata realtà regionale. Una prima ricognizione del fenomeno attesta, ad esempio, che il dialetto assolve qui la funzione di indice di un preciso livello antropologico: quello della corporalità, individuata nei suoi aspetti più elementari ed anonimi del bisogno e del godimento, nei quali sembra esaurirsi l'intero universo, non solo psicologico ma anche ideologico, dell'umano. [I coro smozzicato delle voci degli emigranti in una città straniera (Lemigrante ), o i brevi racconti orali degli stessi nelle sedi d'origine (La e, li lacca), ruotano infatti, osscs , ,e, attorno alle realtà prim" 1 ! corpo, il cui «senso primo» ,mc scrive Spinella - «è il tatto, c. c.:mcntizio e genitale, esperto dei pieni e dei vuoti, del cavo e delle sporgenze». Senonché, questa intelligenza del corpo (o questa antropologia del corporale) è qui proposta non tanto attraverso la mediazione d'una sua «scrivibilità», ovverosia attraverso quella mediazione concettuale che porta a risolvere il dato dell'esperienza (al limite, di ogni esperienza) in un «discorso» che lo manifesti, quanto invece attraverso la straordinaria invenzione di una scrillura non scritta, e cioè tramite un'elaborazione dei fatti verbali che trattenga, degli stessi, la non-scrivibilità, la non-grammaticalità, in una parola, la loro condizione (potente) di oralità pura. Il lavoro linguisticodi BÒnazzamira infattia marcare nel testo (nellascrittura) il negativo del non-scrivibiledi un linguaggio squisitamente orale, che l'intelligenza dell'autore coglie, per così dire, al suo vertice, in una fase che ne minaccia la stessa fisiologia originaria e ancestrale: la fase, cioè, in cui il dialetto, in quanto lingua dell'oralità pura, entra in contatto (in collisione) con un'altra lingua dell'oralità: la lingua straniera (nella fattispecie il francese, già ibrido, di una koiné plurilingue, quella svizzera) assimilata solo nella sua manifestazione parlata. t infatti un dato largamente accertabile (un dato drammatico) che qualora la lingua acquisita non sia acquisita tramite una struttura (nel nostro caso: lingua parlata-lingua scritta), si verifichi, nel parlante, meno l'acquisizione della lingua seconda che la distruzione, almeno parziale, della lingua d'origine. La lingua acquisita si riduce a pochi, elementari stereotipi del parlato, a un ventaglio ridottissimo di annessioni lessicali, che comunque minano e compromettono, sino a vere e proprie frane di afasia, la lingua del parlato d'origine. Il parlato di Lemigranle risulta essere, perciò, da un lato, un parlato al quadrato, un parlato che costeggia continuamente l'impossibilità a effarc (la sua cellula costitutiva è infatti l'interiezione); dall'altro, un parlato ibrido e elementare, omologo delle realtà elementari che intende comunicare, esse stesse ridotte, per la condizione di sradicamento e di immissione in contesto alieno del Soggetto, a poche, iteStefano Agosti rate e commutabili entità. La variante introdotta nell'opera successiva, La casa di lacca, è rigorosamente conseguente alla situazione qui sopra descritta. Il restauro del parlato d'origine, succedaneo al «rimpatrio», non può non conservare, sotto forma di rimemorazioni stereotipe, gli elementi del parlato acquisito, che il dialetto incorpora (e non: introietta) come altrettante tessere estranee (linguistiche, ma anche culturali: si vedano i motivi ricorrenti del dantesco «Quali colombe» ecc., e del lorchiano, e così coagulato, «ala sinco di la tarde»). Al doppio parlato in atto di Lemigranle, si aggiunge quindi il doppio parlato rimemorato di La casa di lacca: entrambi, come si è visto, colti al punto critico (nella fase più labile) della loro fisiologia. E d è appunto perseguendo, nel proprio esperimento di scrittura, la non-grammaticalità di un linguaggio puramente orale, che Bonazza perviene alla saldatura dei termininormalmente separati - del hinomio /Jo111e111t·h1mJ corpo-parola. La corporalità, di cui una delle manifestazioni è infatti la «voce», passa direttamente, senza mediazioni linguistico-concettuali, nel testo, in un testo che si scrive (che si inscrive) fuori della grammatica e la cui lingua si configura tutta puntuata e attraversata (fin nei suoi inceppi di trascrizione) dalle istanze della sua stessa non-scrivibilità. Testo dell'interiezione e del mormorio, delle esclamazioni e dell'afasia, dei rumori e dei silenzi, e che potrebbe corrispondere benissimo a quel testo orale di cui dà notizia Barthes in un passo del Piaceredel testo che qui trascriviamo: « Una sera, semiaddormentato sul sedile di un bar, cercavo per gioco di censire tutti i linguaggi che entravano nel mio ascolto: musiche, conversazioni, rumori di sedie, di bicchieri, tutta una stereofonia di cui una piazza di Tangeri (descritta da Severo Sarduy) è il luogo esemplare. Si parlava anche dentro di me (è cosa nota), e questa parola detta 'interiore' somigliava molto al rumore della piazza, a quello scaglionamento di piccole voci che mi venivano dall'esterno: io stesso ero un luogo pubblico, un souk; passavano in me le parole, i sintagmi minuti, i moz- /.iconi di formule, e non si formava nessuna frase, come se fosse stata la legge di quel linguaggio. «Questa parola al tempo stesso molto culturale e molto selvaggia era soprattutto lessicale, sporadica; costituiva in me, attraverso il suo flusso apparente, un discontinuo definitivo: questa non-frase non era affatto-qualcosa che non avesse il potere di accedere alla frase, che fosse prima della frase; .:ra: ciò che eternamente, superbamente, è fuori della frase. Allora, virlualmente, cadeva tutta la linguistica, che crede solo alla frase e ha sempre attribuito una dignità esorbitante alla sintassi predicativa (come forma di una logica, di una razionalità); mi ricordavo questo scandalo scientifico: non esiste nessuna grammatica Iocutiva (grammatica di ciò che parla e non Ji ciò che si scrive; e per cominciare: grammatica del francese parlato)>. (1 corsivi sono nel testo.) Ora, se il testo è fuori della grammatica, in che modo si organizza? Qual è il suo principio costitutivo? la sua diversa «grammatica»? Ebbene, nel nostro caso, esso si organizza in base ad uno dei principi comunque presenti nelle manifestazioni dell'oralità (e che potrebbe essere assunto, eventualmente, nella costituzione delle «norme• di quella «grammatica di ciò che parla e non di ciò che si scrive•, violentemente affermata da Barthes): e cioè il principio prosodico-rinnico, di cui danno atto, nel testo, le iterazioni insistite, le trascrizioni abnormi (musicali) delle interiezioni, le stesse spezzature delle frasi e dei lessemi, operate secondo funzioni essenzialmente ritmiche, l'andamento glossolalico, da filastrocca popolare, del discorso (per cui Alfredo Giuliani ha potuto parlare, giustamente, in proposito, di «un forsennato e squisito poema 'contadino'>: la sottolineatura è nostra). Resterebbe semmai da rintracciare, per concludere, l'eventualità di antecedenti di un'operazione del genere. E allora segnaleremo, in proposito, almeno due esperimenti, due veri e propri incunaboli della sperimentazione italiana degli anni sessanta, e i cui titolari si segnalano - oltre che per la rispettiva eccezionalità operativa, rimasta senza seguito nell'ambito della produzione nostrana - anche perché titolari entrambi di diserzione dalle arene della competizione letteraria (diserzione che ci si augura comunque non definitiva): L'allenarore di Salvatore Bruno (Vallecchi, 1963), che coincide ottimamente con l'esperimento descritto, anche per l'uso di una koiné meridionale situata geograficamente sullo sprone concorrente rispetto a quello ove si situa la koiné adibita da Bonazza, e cioè il pugliese di Presicce, piccolo borgo della Bassa Puglia; e il Gioco con la scimmia di Enrico Filippini(// Menabò, 8, 1965), che, pur estraneo al dialetto, si configura come uno straordinario esempio di costruzione testuale locutiva sostanzialmente fondata sulla ritmicità - spinta sino a scansioni di natura timbrica - e, per ciò stesso, da assimilare, per la parte più propriamente costruttiva, all'esperimento che è stato l'oggetto di questa nota.

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