Alfabeta - anno III - n. 26/27 - lug.ago. 1981

Mauro Colonna lacanti Lanari Si ~veva vino locale nella taverna tulJapeperoni e melanzane, ai tavoli cibi scarsi e caIfe di fondi, scuro come i baffi dei presenti. * Lacera la mia mano l'aria e tu investi dei tuoi deliri il buio. Vecchw e inutile mi appare l'inventare lune. Stoo su un letto bianco di inesistenti lenzuola fissavo la mia paura di essere assalilo, Eppure che infamia vederti immerso tra steli corvini, incapace a suggere di esserederubato della mia automatica moddlo-esposimetro-incorporato. E nel buio solo l'ansimare degli antichi nomadi. Alili dalle porte inchiudibili accomunavano il sonno. la tua bestialilà. Ed è ormai tempo per voi Amanti. Che sappia scegliere o meno Dovè il fanciullo che con le orecchie sporche mi mostrava la sua collezione di monete? funi viaggi e sogni in quella scatola. nel cielo infelice baglwri d'azzurro non conviene a voi esaminare. lo sono solo. Regni d'oriente ed infinilo ovest lasciatidai guidatori di TIR. La mia rossa macchina dimenticata aperta nella strada. Solo polvere di qualche kilim E per questo mw corpo, per questo mw amore dovrai uccidere la mia immagine, dovrai vendicare la dannazione dell'essere diversi. e puzza di orina dai bagni senza sciacquone. Ma esplodeva la mattina aJtraversoinvisibili imposte. Porta d'oriente, porta di calcio. Lì feci due numeri, un colpo di tacco e uno stop di petto. Guardavano ammirati i bambini; con /(J stomaco che mordeva Poeti o semplici morti segrete? * Velocemente scompare pensai di essere cibo che andava consumato. E tutto si muoveva nei gialli e nei marroni. Rari i verdi ai bordi di indecifrabili ruscelli. Dove scovarlo? tra nuvole di cipria il profumo dei tuoi passi. E gli specchi ormai rimandano della tua immagine solo frammenti. Gli occhi aperti di luna a scandagliarenella mia mente Amore. 125-127); connettere all'interno dicostruzioni provvisorie «singoli reperti 'te~iuali">, montare i frammenti della storia entro nuovi quadri di rappresentazione, modelli temporali, orizwnti di senso (pp. 127-128): ciò che viene fatto funzionare, come strumento metodologico essenziale per la costruzione di un simile sapere, è la freudiana «formazione di compromesso>, la quale-incorporando l'esperienza della precarietà negli statuti del linguaggio - «ci permette di rappresentare e praticare il presente, di riscattare nel suo senso il passato>, senza pretendere «alcuna eternità> (p. 172). È questo «il poco da cui dobbiamo partire>, secondo l'indicazione offerta da Benjamin in Erfahrung und Armut. Provvisorietà, revocabilità, «formazione di compromesso>; rivedibilità dei criteri e delle scelte, delle decisioni e dei «valori>: ciò che viene affermandosi entro il progetto dell'«altra ragione>, è - significativamente - un'esigenza che, sia pure espressa in termini notevolmente diversi rispetto a quelli delle formulazioni di Rella, si trova presente ed operante anche nel quadro di un pensiero di ispirazione decisamente heideggeriana quale è quello di G. Vattimo. Interpretando il senso dell'opera di Heidegger nei termini di una filosofia del «declino>, «che vede come costitutivo dell'essere non l'imporsi, ma il dileguare•, Vattimo si interroga su «una esigenza che l'esperienza moderna fa valere sempre più nettamente: l'esigenza di una ontologia retta da categorie 'deboli' (Le avventure della differenza, p. 9). «Indebolire> o «depotenziare> i concetti della filosofia significa, per Vat'limo, sottrarli all'ambito tradizionale della metafisica in quanto pensiero «violento> il quale, «nel privilegiamento di categorie _unificanti, sovrane, generalizzanti, nel culto dell'arché, manifesta una insicurezza e un pathos di base a cui reagisce con un eccesso di difesa> (p. 10). Certo le differenze tra il razionaliUn soffio, un infinito soffio potrà scacciare di ogni giorno l'incubo. Eroe mi avvw ad aspettare tra le tue braccia il sonno. smo critico di Rella e la prospettiva ermeneutica di Vattimo, sono consistenti o addirittura profonde. E tuttavia entrambi, sia pure in termini che appaiono diversi anche nella formulazione linguistica delle rispettive proposte, riconoscono quale «contrassegno epocale> della crisi del «mondo moderno>, quel processo di trasformazione delle categorie e degli strumenti della metafisica che giunge af affermare il carattere debole o l'intimità precaria di tutto il nostro universo di pensiero. D'altra parte in Vattimo la dimensione heideggeriana della differenza viene ad essere impiegata allo scopo di illustrare quella dinamica di «fondazione> e «sfondamento> che spinge tutto ciò che è linguaggio, storia, cultura, verso i suoi confini estremi, là dove si infrange la parola e si rivela l'altro: il silenzio della vita animale, la natura, il corpo, la morte. In Rella invece è proprio la prospettiva della differenza e dell'altro che appare dissolta senza residui (e questa, del resto, non è che la logica conseguenza di tutta la sua impostazione critica). Una simile soluzione tuttavia si configura, a mio giudizio, come altamente problematica. Se infatti (come Rella mostra molto opportunamente e con grande ricchezza di riferimenti storici) la ragione della crisi si muove nell'orizzonte della precarietà, e se - ancora - essa vuole tradurre in parole il silenzio della «razionalità classica>, una simile traduzione - operando uno spostamento di senso da un «codice forte> a un «codice debole> - non verrà forse inevitabilmente a lasciare intatti ampi margini di intraducibilità, spazi residui entro cui si espongono gli enigmi dell'«altro> e della «differenza>? (Occorre dire che questi termini non vengono qui impiegati nel senso attribuito ad essi da Vattimo- la cui proposta teorica non può essere ora esaminata in dettaglio - bensl piuttosto in un'accezione che dovrebbe essere chiarita da quanto veqà detto nel seguito di questa nota critica.) Talvolta si ha l'impressione che il saggio di Rella sia mosso da una sorta di «ansia progettuale» rivolta a diretutto, allo scopo di comprendere e persino risolvere il senso delle questioni che si pongono nel nostro spazio culturale, come se il «sapere della precarietà» fosse l'ultima parola (e non piuttosto soltanto la prima), capace di concludere all'interno delle sue formulazioni tutta la complessità problematica della crisi che stiamo attraversando. Ma non è forse proprio nel «tempo della miseria> al quale cosi spesso Reila si riferisce, che il pensiero «depotenziato> diviene il luogo entro cui risuona un interrogare al quale non segue immediatamente e linearmente risposta alcuna? E da questo punto di vista Heidegger non è forse - piuttosto che il filosofo della «parola piena» - il pensatore della domanda «vuota», un pensatore che si limita (ma è il limite stesso del «tempo della miseria») a porre i termini di un problema che non abbiamo ancora imparato a pensare? È appunto in questa direzione essenzialmente problematica che sembra muoversi l'ultimo saggio di Cacciari, Dallo Steinhof. Ciò che in questo lavoro entra soprattutto in questione non è tanto, come ancora in Krisis, il silenzio del Tractatus quale «orizzonte trascendentale» di costituzione dei linguaggi, bensl p;uttosto il Mistico nella dimensione positiva del «mostrarsi», il quale risulta in tal modo accostabile al «luogo della disvelatezza• entro cui Heidegger interroga il senso greco della «verità» (Alétheia) (Dallo Steinhof, pp. I35-40). È proprio un simile apparir.: «dell'altro dal dicibile» (p. 48) ciò eh.: pone il «problema originario» (p. 54). la domanda che oltrepassa la sfera dei linguaggi con cui progettiamo, trasformiamo, valorizziamo il reale. Traducendo il senso delle argomentazioni di Cacciari nei termini di quan- * Di giallo accarezzati proteggono i vecchi palazzi chi, appena sveglw, ascolta nei vicoli i suoi passi. Le corrose fontane ripetono flutti marini; e queste gradinate, lambile da soffice sole, a consistenza sabbwsa si frantumano. Acque di ciltà, lilorale silenzwso dove attento mi adagw ad ascoltare della mente storie. A tratti un cane annusa il profumo della mia immobiliJà. Vorrei trattenerlo leggendo versi ma fugge del suo silenzio geloso. Ormai la luce è alta. Primi'motori e gite organizzate. Puntuale, nella normalilà avvolta, morte quotidiana sorge. E già lungo il vicolo con affanno corro ed è salvezza il pesante portone. Nel cortile, invwlato regno domenicale, saluto Gustavo mio gatto adottivo. Dietro la porta tra i tuoi colori appari. Soli, noi tre con il kvàs degli Amanti ci ubriachiamo. to ho appena detto, potrei aggiungere: questi linguaggi sono costitutivamente deboli, troppo deboli per sopportare il peso di una simile domanda. Ma tale debolezza d'altra parte non è un qualche «difetto» che possa correggersi potenziando ed irrobustendo il progetto della ragione. Ciò che il «problema originario» richiede piuttosto è una modificazione di atteggiamento, una disposizione spirituale differente rispetto a quella entro cui maturano le sintesi costruttive della ragione. Ciò che occorre è la chiarezza wittgensteiniana «in onore di Dio», la quale mira a « rendere trasparente il fondamento stesso del costruire» (p. 55) e mostra implicitamente come un simile produrre (che è poi il movimento stesso della ragione) non possa risolvereesaurire al suo interno ogni problema. Dunque vi è un «resto», un'eccedenza di senso, «qualcosa» che la ragione non contiene entro i propri orizzonti. Ogni ragione, per quanto depotenziata e precaria possa essere, è pur sempre abbastanza forte da escludere; Giorgio Vasari e, d'altra parte, ogni ragione,per quanto sia potente e sovrana entro i propri domini, è pur sempre così intrinsecamente debole da trovarsi esclusa rispetto ad «altro». Rella direbbe forse, a questo punto, che una simile logica è quella della «ragione classica», una logica che occorre spezzare. A me pare invece che essenziale al costituirsi di ogni ragione sia il riconoscimento di ciò che al suo interno non può dirsi. E questo mi sembra particolarmente vero nel caso della «razionalità depotenziata», la quale - non disponendo di strumenti di traduzione capaci di convertire entro nuove grammatiche tutto il lascito della «cui- .tura classica» - espone costantemente, sotto forma problematica, un «residuo metafisico», un «resto» che essa non è mai completamente in grado di «lavorare». Forse, giunti a questa conclusione, siamo tornati al silenzio di Wittgenstein, non l'abbiamo pienamente parlato e superato. Ma non è proprio questa idea di un pieno superamento il «sogno» stesso della ragione? Fra <.ialgariu

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