lo sviluppo, del profitto, del capitale; anzi, quella società in cui massima è (o dovrebbe essere) la formazione del profitto, l'accumulazione del capitale, lo sviluppo della produzione; in cui ogni rapporto è rapporto capitalistico, nel senso che dipende in modo necessario dalle leggi che regolano la formazione di capitale. Il compito dell'analisi economica è dunque, conseguentemente, quello di inpividuare e analizzare tali leggi, di elaborare una teoria del capitale. Il che significa spiegare la formazione del saggio del profitto, che cosa determini gli investimenti e il risparmio, come evitare o affrontare le crisi e l'instabilità del sistema economico, ecc., ecc. Ora, il problema fondamentale è che la scienza economica non è riuscita a mediare tra loro le due proposizioni, cioè, l'analisi del mercato e l'analisi del capitale «non stanno insieme», nonostante l'esistenza di un legame necessario tra di esse. Il legame è il seguente. Ogni teoria del mercato è anche, al tempo stesso, una teoria della concorrenza - che è la forza che spinge il sistema economico a raggiungere l'equilibrio, il prezzo «normale». Ebbene, la concorrenza, come ha ben visto Marx, non è altro che «la natura interna del capitale»: la concorrenza non fa che eseguire le leggi interne del capitale. le leggi poste dal capitale. Allora. per intendere veramente la concorrenza. e quindi il mercato. si deve già presupporre il capitale e il dominio del capitale su tutti i rapporti economici. Ma, d'altra parte. ogni qual volta la scienza economica ha tentato di analizzare il problema del capitale. o non è mai riuscita a dame una teoria rigorosa, logicamente soddisfacente. o non è mai andata al di là di una critica. quasi sempre efficace e decisiva, di ogni teoria del capitale esistente. (Si pensi. ad esemrio. alla teoria del capitale di Marx criticata dal pensiero moderno in quanto fondata su di una teoria del valore insostenibile, o alla critica di Garegnani delle teorie neoclassiche del capitale.) I l pensiero moderno e contemporaneo, consapevole d~lle grandi difficoltà presentate dal problema del capitale, ha allora. a partire dagli anni trenta preso una strada sempre più decisa: quella di ridurre al massimo, se non addirittura di eliminare, lo spazio e la categoria «capitale», dilatando al massimo, e in modo del tutto corrispondente, lo spazio e la categoria «mercato». Se apriamo le più avanzate opere di economia contemporanee, vediamo che le parole e i concetti di profitto. capitale, accumulazione, sono scomparse insieme ai loro problemi, oppure si sono trasformate in qualcosa di molto diverso. ln generale gli economisti contemporanei procedono, dunque, come se fosse possibile fare teoria economica senza l'impiego Censis XIV rapporto sulla situazione sociale del paese Roma, Edigraf, 1980 Dossier lavoro. Inchieste, ricerche, riffuliit-.i, dibattiti"del •Manifesto• Milano, 1980 Il C'era una volta la teoria eco- '' nomica •••», è stato detto; e si alludeva al periodo in cui profonde linee di demarcazione metodologica individuavano con chiarezza contendenti e contese della scienza economica. C'era una volta- anche- il rifiuto del lavoro. E l'espressione rimandava, con sintetica precisione, ad un massificato comportament_o di clasdi quei concetti che rinviano al capitale, come se definire questa società come la società capitalistica non fosse un presupposto in qualche modo necessario per capire i meccanismi economici fondamentali. Ma che ciò non sia possibile è mostrato dall'esistenza di quel nesso necessario tra mercato e capitale di cui si diceva prima: una teoria del mercato senza una teoria del capitale non ha senso, se vuol essere una teoria del mercato capitalistico, se vuol essere una teoria rilevante per l'analisi della società capitalistica. È forse utile aprire una parentesi per mostrare una conseguenza che deriva da questa posizione del pensiero economico moderno e contemporaneo. Eliminar"e del tutto il capitale dall'interno della teoria economica non è solo un'operazione difficile, se non impossibile, ma comporta anche affidare a qualcun altro. che non sia l'economista, il compito di comprendere aspetti essenziali della vita e della realtà economica. Cosicché. paradossalmente ma non troppo, potremmo dire che c'è più economia politica in Stendhal che in J.B. Say. in Musi! che in Samuelson. Faccio un esempio: «Ma il denaro non è forse un metodo sicuro quanto la forza nel trattamento dei rapporti umani, e non ci consente di evitare gli ingenui sistemi coercitivi? Esso è forza spiritualizzata. una duttile evoluta e fantasiosa varietà della forza. li commercio non si fonda sulla scaltrezza e sulla coazione. sulla sopercheria e sullo sfruttamento. sebbene inciviliti e traskr,iti nell'interno dell'uomo anzi addicittura paludati nell'aspetto della sua libertà? li capitalismo. come organizzazione dell'egoismo secondo il grado della capacità di procurarsi denaro è l'ordinamento più grandioso e tuttavia più umano che noi abbiamo saputo elaborare inTuo onore; la condotta umana non porta in sé una misura più esatta!» (Robert Musi!. L'uomo senza qualità. Torino. Einaudi. 1972. voi. I. p. 496). È diventato difficile trovare una definizione di capitalismo ricca e illuminante come questa nelle opere degli economisti contemporanei. Ed è molto significativo che i più sensibili tra di essi. consapevoli della perdita rappresentata dall'eliminazione di quei concetti che si riferiscono alla realtà del capitale. si rivolgano oggi alla filosofia. e in modo particolare alla filosofia morale e alla filosofia politica. per cercare qui. in questo terreno filosofico. le risposte a quei problemi che una volta erano considerati di pertinenza dell'economia. È questo il caso. nel mondo anglosassone. di Arrow. di Sen, di Hicks. di Morishima. di Hahn. e di altri. Ed è altresi significativo che questo movimento dall'economia alla filosofia. sia l'esatto contrario di quello dalla filosofia all'economia che ha caratterizzato, negli anni sessanta e settanta molti intellettuali italiani e stranieri. (Rimandiamo ad un'.altra occasione l'esame specifico delle opere filosofiche di questi economisti «transfughi».) Ma riprendiamo il discorso economico. Dopo quanto è stato detto, non risulterà strano che la voce «Capitale» dell'Enciclopedia Einaudi sia dedicata quasi interamente all'analisi del capitale di Marx; e. a parte Sqmbart e Max Weber. che non furono econon;iisti in senso proprio, l'unico economista non marxista a cui sia dedicato un qualche spazio è Schumpeter. Si potrebbe aggiungere che. in questo secolo. oltre a Schumpeter. anche Keynes ha esprcsso una potente immagine del capitalismo. e ne ha fatto la guida del proprio pensiero economico. politico e sociale. La differenza tra Keynes e Schumpeter può essere colta in una differenza di atteggiamento verso il capitalismo: più ottimista e liberale quello di Keynes. molto più scettico sulle possibilità di salvezza della civiltà capitalistica - «questa civiltà si sta dissolvendo rapidamente. che ci piaccia o meno. essuno può chiudere gli occhi davanti a questo processo» -. quello di Schumpeter. Si ricordi l'ironia con cui Schumpeter alludeva alle politiche keynesiane: «un capitalismo sotto la tenda ad ossigeno». L a ricostruzione della vicenda teorica di Schumpeter. come d'altronde di quella di Keynes. è di grandissimo rilievo. perché permette di indicare. nonostante i limiti che diremo. una possibile via da percorrere per tentare di superare le difficoltà in cui si dibatte oggi il pensiero economico. Secondo Schumpeter. i due più grandi economisti della storia del pensiero furono Walras- il massimo teorico del mercato - e Marx - il massimo teorico del capitale. Come dice bene Egidi. «mentre nei confronti di Marx la sua [di Schumpeterl posizione consiste nel ritenere sostanzialmente vitale la visione complessiva del processo capitalistico, e nel respingere invece buona parte delle tecniche di analisi, nei confronti dei marginalisti la sua posizione è in certo senso opposta; considera valide gran parte delle tecniche, ma molto delimitate nella loro validità, e respinge la loro visione generale del processo economico» (op. cii., p. 37). li punto importante è che Schumpeter critica la teoria neoclassica, o rti'arginalista, in quanto agli schemi «semplici» della teoria dell'equilibrio di mercato sfugge il capitalismo, che è un processo economico che tende costantemente all'accumulazione del capitale. Pertanto, ogni aspetto della realtà economica deve essere necessariamente riferito all'investimento e all'accumulazione capitalistica. li risultato di questa impostazione è una analisi illuminante della società borghese. Una citazione permetterà di meglio apprezzare la qualità del pensiero di Schumpeter. il suo modo di ragionare e di affrontare l'analisi economica. quella qualità e quel modo di cui si sente oggi il bisogno e la mancanza. «L'affermarsi degli interessi dei lavoratori. che assumono una posizione di potere politico e talvolta di responsabilità. è il sintomo più cospicuo di un mutamento profondo nelle strutture sociali. ed è chiaramente il prodotto del capitalismo. nel senso in cui noi intendiamo il termine. che ha creato un mondo politico e degli atteggiamenti politici fondamentalmente incompatibili con se stesso anche là dove. come negli Stati Uniti. gli interessi dei lavoratori non erano [nel periodo 1919-29] politicamente dominanti. L'abitudine del liberale - intendendo la parola nel senso della tradizione europea - di incolpare 'la politica' di quasi tutto ciò che egli considera meno che soddisfacente nel mondo capitalistico è. in realtà. aperta all'obiezione che nell'incolpare 'la politica' egli sta incolpando un prodotto e un elemento essenziale del sistema che egli approva. «Considerando il sistema sociale capitalistico come un tutto. è privo di significato affermare che esso-o qualsiasi suo elemento. ad esempio. ilgold swndard - sia rovinato dalla 'politica'. Ciò che si dovrebbe dire - a questo livello dell'analisi - è che il sistema sociale capitalistico si rovina da sé» (Schumpeter. Business Cyc/es. New York. McGraw-Hill. 1939, pp. 697698). li tentativo teorico di Schumpeter è quello di mediare una analisi di tipo statico - la teoria del mercato e dell'equilibrio del mercato- con una analisi di tipo dinamico - la teoria dello sviluppo capitalistico e quindi dell'instabilità del capitalismo, le cui forze rompo110continuamente l'equilibrio esistente. Ora. questa difficile operazioIl rifiutosommerso se e ad una straordinaria esperienza politica e teorica. Da una parte stavano gli apologeti dello Sviluppo, i sacerdoti della nuova-tecnologia capitalistica; dall'altra l'insubordinazione operaia, la conflittualità permanente, la contestazione non solo dei rapporti giuridici della produzione borghese, ma anche della stessa fisicità tecnica del capitale. Quella del «rifiuto del lavoro» non è stata solamente l'espressione descrittiva di un certo atteggiamento operaio nei confronti del processo di valorizzazione; essa costituiva anche una vera e propria discriminante metodologica. Era una nozione che rappresentava sia il rilancio di un approccio rigidamente e marxianamente materialistico alla Alberto Bauaggia realtà proletaria; sia un progetto politico definitivamente rivoluzionario. Con la sussunzione reale del lavoro al capitale, infatti, si dissolveva anche l'ultima, oggettiva, forma di integrazione operaia al Mpc: quella professionale; per cui diventava lecito riconoscere, nelle lotte dell'operaio massa contro l'organizzazione capitalistica del lavoro, la prefigurazione di rapporti di produzione alternativi a quelli dati. Sette o'dotto anni di ristrutturazione dei processi produttivi, di decentramento, di sconvolgimento della precedente configurazione del mercato del lavoro, di inflazione, sembrano aver messo in discussione, con una rapidità pari allo stesso svolgersi degli avvenimenti, impostazioni teoriche rassicuranti, metodologie d'analisi apparentemente indubitabili, concetti creduti assodati. In particolare sembra andare a fondo proprio quella categoria che appariva in grado di reggere con duratura sicurezza una elaborazione teoricopoliticarivelatasiquanto mai efficace e dirompente lungo tutto un percorso storico della lotta di classe in ltalia. Proprio quegli stessi dati empirici immediati, comportamentali, la fedeltà ai quali aveva permesso di affondare la critica ai rapporti di produzione borghesi cosi profondamente, indicano ora un percorso opposto, una linea di tendenza contraria. Infatti, uno dei dati più salienti delle ne, la cui necessità è giustamente rinvenuta da Schumpeter nella coessenzialità dei due momenti- l'equilibrio e lo sviluppo (lo sviluppo permette di spiegare la formazione dei dati su cui si fonda la situazione di equilibrio, l'equilibrio rappresenta un «centro di gravità» verso cui il sistema si muove e da cui si allontana quando una «innovazione» introdotta da un imprenditore rompe l'equilibrio sussistente)- gli riesce e non gli riesce. Gli riesce nel senso che non vi è incompatibilità tra stato stazionario (la riproduzione semplice di Marx, l'eq·uilibriogenerale di Walras) e innovazione imprenditoriale; non gli riesce nel senso che da un lato Schumpeter mantiene alcuni postulati tipici della teoria tradizionale (la sostanziale efficienza del mercato, l'esistenza della distribuzione della ricchezza nella forma in cui è data), ma dall'altro elabora tesi con queste incompatibili (assoluta inesistenza della sovranità del consumatore, potere determinante degli imprenditori e del credito). Inoltre, il problema che anche in Schumpeter rimane irrisolto è quello di una teoria del capitale esente da vizi logici. Schumpeter non ha elaborato una propria teoria del capitale, accettando sostanzialmente quella del suo maestro Bòhm-Bawerk. Ma anche questa teoria, come ha mostrato ad esempio Claudio Napoleoni (in Valore, !sedi, Milano, 1976), cade in gravi contraddizioni. In conclusione sembra essere tornati al punto di partenza: la scienza economica non riesce a comprendere il capitale, anche quando, come in Schumpeter, caso raro, se ne fa un problema. li perché di questa resistenza del capitale, di questa irriducibilità del mercato capitalistico agli schemi dell'analisi economica, non è facile da spiegare, anche se pare non essere senza rapporto con «la sorprendente adattabilità del sistema, la sua capacità di sopravvivere alle proprie crisi e di risorgere mutando forma e strutture, la sua capacità di attingere a inattese e misteriose riserve di energia. li capitalismo, insomma, richiama alla mente due tra i più sfuggenti ed enigmatici personaggi della mitologia greca, Anteo, che dalla crisi attinge nuova forza, e appunto l'inafferrabile Proteo» (Afferrare Proteo, cit., p. 146). Se questa è la situazione, Schumpeter indica una possibile strada di uscita. Infatti, Schumpeter pone COJl{grande chiarezza l'esigenza irrinunciabile, pena la perdita di senso e significatività del discorso economico, di mantenere collegati il mercato e il capitale in «una visione teorica, complessiva ed unitaria, del fondamento del sistema borghese». nostre recenti vicende socio-economiche, e che anche i più eterogenei osservatori concordano oramai nell'assumere, è di una semplicità davvero disarmante: in ltalia, in questi anni, si è lavorato molto. Anzi: moltissimo. li punto è molto meno banale di quello che sembra. Il fatto è che il tipo di sviluppoimpostodal capitaledopo la crisi dei primi anni settanta e la disponibilità mostrata dalla forza lavoro all'interno di esso, hanno assunto una -~ ~ connotazione tale da spiazzare paurosamente la credibilità interpretativa di ; una tradizione critico-analitica da "' sempre basatasi su di un presupposto fondamentale: che esistesse una irri- s ., ducibile estraneità di fondo tra lo svi- ~ luppo capitalistico- qualsiasi sviluppo <:i
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