B ene ha fatto la redazione diAlfabeta a porre come centro d'interesse il nodo dello scontro tra il moderno e il postmoderno, che certo ci accompagnerà per lungo tempo; meno bene, però, a offrire c.omepunto di partenza un testo di Habermas, che francamente mi pare generico, scolorito, disinformato. Come si fa a citare, tra i molti autori che ormai hanno portato il loro contributo ·a questa problematica, il solo Daniel Beli? E perché dimenticare il poderoso ramo, pur dipartitosi dal ceppo francofortese, costituito da Marcuse (che del postmoderno resta sempre uno dei teorici centrali)? E come non ricordare l'altrettanto decisivo McLuhan? Ma evidentemente il problema non è solo di mancata citazione: oltre ai nomi, mancano i temi, i motivi, e la cosa è ben più grave. In modo particolare, manca la consapevolezza che per quasi tutti gli autori intervenuti sull'argomento la molla del passaggio dal moderno al postmoderno deve essere ricercata nella tecnologia, e più precisamente nello sviluppo dell'elettronica (automazione, informatica). Ciò risulta sia dalla grande coppia Marcuse-McLuhan, sia da Daniel Beli, sia da Zbigniew Brzezinsky, che addirittura ha proposto di chiamare la nostra età «tecnotronica:.. E lo ammettono perfino i francesi, benché a denti stretti e con rischi di caduta nell'idealismo, vedi il recente contributo di Lyotard. Il primo punto da discutere, quindi, è se esistano o no talune innovazioni tecnologiche che influiscono potentemente sui nostri modi di produrre e di comunicare. Si pensi alla tdematica e in genere all'automazione in fabbrica: fine della catena di montaggio, del lavoro pesante e faticoso, crescita del Postmoderno/Moderno (6) BoccioneiDeChirico quoziente di lavoro intelligente, pariteticità tra l'operaio e il tecnico. C'è poi chi, come Servan-Schreiber, pone una fiducia addirittura messianica nell'avvento dei microprocessori, ovvero dei calcolatori della terza generazione. Tutti questi sono fatti, e come tali chiedono una risposta, soprattutto da chiunque si ponga su un terreno di sinistra, non potendosi quindi allontanare da un materialismo di fondo, seppure di specie culturale e non certo volgarmente deterministica. Ai fatti, poi, rispondono conseguenze mentali-ideali, anzi, si dà tra gli uni e le altre una circolarità, un feed-back, secondo una giusta concezione della cultura, che non può non essere globale e comprendere sia gli strati materiali che quelli ideali. Solo che, come già accennavo sopra, gli studiosi di parte anglosassone (compreso l'immigrato Marcuse) sono più propensi a vedere la correlazione dei due strati, mentre i francesi, da Foucault a Deleuze e Guattari a Derrida (fino ai ripetitori, ai maitres à penser della seconda leva, Lyotard e Baudrillard) sono più disposti a porsi sull'unico piano delle idee, occultando le motivazioni materialitecnologiche. •Nei primi c'è la «presenza» di radice pragmatista (o fenomenologica) di un soggetto fungente, di un operatore concreto dotato di strumenti materiali; gli altri invece, come si sa, optano per un'c:assenza:o dai connotati inevitabilmente mistici. Ma al di là di queste divergenze teoriche, quasi di stile filosofico, le conseguenze sono convergenti, da una parte e dall'altra si è pronti a mettere l'accento su una soggettività leggera, disseminata, nomadica. Si pensi a certi slogan di McLuhan: il centro è dappertutto, nasce il villaggio Renato Bari/li globale. Il futuro non appartiene più all'industria pesante di specie meccanica, con i relativi accentramenti nelle megalopoli, e col contrasto tra città e campagna, tra paesi supersviluppati e Terzo Mondo depresso, tra tecnici o operai protetti dai sindacati, e donne, giovani, minoranze lasciate fuori dal sistema. I beni, le ricchezze, le idee, potranno essere distr~buiti con criteri più ·agili e flessibili. Ma mi accorgo che passo passo sono ritornato alle caratteristiche materialitecnologiche del postmoderno, pur esprimendole con l'aiuto dei concetti così vividi fornitici dai «francesi». Come per esempio disconoscere l'efficacia dei concetti di rizoma o di plateau che ci vengono da Deleuze e Guattari? Ma appunto, come difenderli dalle accuse di Habermas, se non vincolandoli alle condizioni materiali che li legittimano? E a quel punto, come farà un Habermas qualunque a dire che si tratta di conservatorismo, vecchio o nuovo che sia? Perché sarebbe regressivo avere più tempo libero, più disponibilità al godimento di • carattere fantastico, estetico, erotico, sottrarre più energie all'uso coatto imposto dal principio di realtà, o peggio ancora di prestazione? Oppure sì, diciamo pure che c'è .regressione, ritorno alla mitica cultura del raccoglitore. Ma qui interviene un altro grande autore statunitense, Marvin Harris, a dirci che quella fu forse una delle età più felici dell'uomo, che poteva muoversi libero, nomadico in un habitat non inquinato, senza essere afflitto dai problemi della produzione, con molto tempo disponibile per lo svago e la felicità. Non per niente McLuhan a sua volta ha giocato sulla contrapposizione tra il Postmoderno/Moderno (7) raccoglitore e il piantatore, vedendo ìn quest'ultimo il prototipo dell'operaio inurbato, costretto ad attività fisse, stanziali, ripetitive. Solo che il raccoglitore 'ipotizzabile oggi ha il grànde vantaggio, rispetto al suo lontano antenato, di esserlo non in senso letterale, bensì metaforico, o diciamo meglio, sofisticato: non più raccoglitore di frutti e di altri beni naturali, ma di informazioni, di dati memorizzati grazie appunto also ftware, all'elettronica. Col che, ancora una volta, si verifica il puntello che la tecnologia reca alle fantasie e alle utopie regressive, rivolte a vagheggiare il grande ritorno a epoche arcaiche, decisamente premoderne. Non si tratta dunque di ritorni effettivi, ma di ritrovamenti ciclici, cl)e però si situano ad altra quota, in un altro punto del grafo, senza contraddire la logica dell'andare avanti, del progresso. O in altre parole: William Morris, un secolo fa, non sbagliava quando stendeva il suo veemente cahier de doléances contro la rivoluzione industriale basata sulla macchina a vapore, e auspicava come antidoto il recupero di condizioni medievali-artigianali. Sbagliava, per immaturità dei tempi, quando riteneva che l'inversione di rotta potesse avvenirecontro la tecnologia, negandola, azzerandola. Non poteva scorgere che stava arrivando un-a tecnologia alternativa capace di conciliare i due corni del problema: l'andare avanti e il ritrovare doti «antiche» più vivibili per l'uomo. Queste due facce continuano a essere iscritte nel progetto postmoderno, determinandone talune ambiguità su cui possono inserirsi i neoconservatori come Habermas, consentendogli di giocare di contropiede_e di rovesciare l'accusa, L'età elettronica, tecnotronica, privilegia un avvenirismo, u'n ipfrfuturismo, o invece un ripiegamento sui valori del passato, un •ritorno alle origini? Esplosione o implosione? Ci sono entrambi gli aspetti, pronti a ro- • vesciarsi l'uno nell'altro, e proprio gli sviluppi della ricerca artistica lo dimostrano. Dapprima il postmoderno si dà come esplosione fuori dai vecchi spazi del quadro o del libro, come coinvolgimento globale, invasione dell'ambiente (si pensi a fenomeni come l'arte povera o il comportamento). Ma il processo è reversibile, e come c'è il processo della materia che esplode in energia, c'è pure quello inverso dell'energia che si concentra nei buchi neri di massa elevatissima. I buchi neri, nel campo dell'arte, sarebbero gli enormi depositi del passato e del museo, di cui la «dura» modernità aveva cercato di sbarazzarsi. Il debole e soffice soggetto postmoderno, così come può disperdersi negli spazi e nei tempi futuri, può anche accettare di effettuare il viaggio a ritroso e di concedersi tuttè le citazioni dal libro del passato, dato che in esso si esprimono preziosi valori di ricchezza decorativa e di gratificazione immaginativa. Ecco perché il cosiddetto informale tecnologico o «freddo» dell'arte concettual-comportamentale convive col revivalismo. Boccioni e De Chirico, emendati e resi attuali, diventano i due prototipi di una dialettica che ancora ci riguarda. Anzi, diciamo meglio, oggi forse sono inverificabili i due estremi al limite, della esplosione o dell'implosione allo stato puro: né totale dissoluzione energetica nell'etere, né citazionismo letterale. Gli artisti si situano nello spazio di mezzo (Deleuze e Guattari direbbero nel plateau), ponendo in equilibrata tensione reciproca le due spinte di segno opposto. Comeavereunmixerinteriore F are cosi: l'astrazione dell'immaginario più la fisicità della geografia. Perché oggi è di immaginare infiniti incontri imprevisti, che si tratta: e dove il più astratto scivola nel più concreto, è qui che può scattare ilmassimo dell'intensità. L'immaginario e la geografia, allora: una doppia cattura fatta di incontri e di spostamenti, di linee di fuga e di spazi aperti. Dove l'immaginario e il linguaggio non smettono di tracciare congiunzioni e metamorfosi tanto inafferrabili quanto sensibili. E dove la geografia è, come dice Deleuze, «non meno mentale e corporea di quanto non sia fisica in movimento». Fare come per le mappe, dunque. La foto di copertina di c:posgl,leMusics> (Brian Eno-Jon Hassell) inquadra un'area fra il sud di Khartoum e il Nilo Bianco (14°16'N, 32"28'E): «Una parte 'primitiva' della terra vista dall'angolazione dello spazio:. dice Eno. Come la musica di Eno e Hassell, questa immagine mette a fuoco la potenza atmosferica che uno spazio geografico può produrre sull'immaginario. Come la musica, dà forma a quell'ineffabile angolazione dove calori africani e freddezze elettroniche scivolano le une nelle altre. E ancora di più: perché è innanzitutto un taglio di avvistamento, che l'immagine di Khartoum dall'alto illumina. Come per le mappe, è il punto di vista dello spazio a prospettare la visione più nitida, più ariosa e più aperta del pianeta. E qui la sintonia fra musica e immagine è davvero prodigiosa: perché l'intensi.tà del linguaggio di Eno comincia proprio da questa angolazione aerea che passa sulla forma _comeun effetto d'aria assolutamente indifferente all'ordine dei recinti sul Franco Bolelli terreno. Ed è su questo orizzonte non meno appassionato che astratto, che una nuova geografia dell'immaginario e del linguaggio traccia le sue prime linee di divenire. Nomadismo del linguaggio e linguaggio del nomadismo, abbiamo detto. Ma c'è d.i più, adesso. Perclié se il nomadismo è uno stile degli spostamenti e un modo di vita, tutto bene. Ma l'appiattimento del nomadismo sulla dimensione del viaggio, questa è davvero una moderazione della possibilità. li viaggio come esplorazione e conquista di territori sempre nuovi è ancora il modo di procedere dell'avanguardia. Nel viaggio ci sono sempre esperienze, ma spesso non intensità. Perché il viaggio percorre la mappa esistente ma non ne immagina una possibile. E oggi non è veramente più questione di terreni e località dove avanzare in opposizione a qualcosa o per superamento di un limite. Frontiere da abbattere, territori da conoscere, spazi da allargare:· tutto troppo poco, ormai. E anche la dimensione della trasversalità non è poi così grande: se l'essere sempre altrove è il migliore degli antidoti contro ogni territorializzazione e se i passaggi obliqui disinnescano il dispositivo d'ordine dell'identità, l'atteggiamento trasversale non si invola però ancora da quella conformazionedel terreno dalla quale una veduta planetaria non è evidentemente possibile. Perché è soltanto al di sopra delle regioni esistenti e dei rapporti che in esse si instaurano, che si può raffinare il proprio sguardo al punto di scorgere quelle congiunzioni astratte che danno vita alla mappa del nuovo immaginario. Ecco allora che è al di là del viaggio che il nomadismo si irradia: perché, come è detto per !'Han Solo di Guerre Stellari, «cosa può offrire un pianeta, qualsiasi pianeta, a uno che ha viaggiato in lungo e in largo fra le stelle? Il bisogno di spazi illimitati gli era ormai entrato nel sangue».
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