Alfabeta - anno III - n. 24 - maggio 1981

Postmodemo/Modemo (5) l'architetturaè mortaa SI Louis e ostruire una definizione del «post-modernismo» in architettura non è certamente un compito grato, anche se necessario, per dovere di attenzione nei confronti di realtà in movimento, come è appunto questa, una tendenza attualmente in cerca di una propria identità. Nemmeno le polemiche più o meno accese, più o meno cdi livello», che hanno avuto spazio anche nel nostro Paese, credo siano valse produttivamente a mettere a fuoco il problema. D'altra parte, quando gli stessi iniziatori e protagonisti del «movimento» non tendono alla definizione di un proprio codice, può sembrare addirittura pretestuoso, a chi ne è esterno, tentarne almeno una interpretazione. Charles Jencks, che del pose è stato ed è il maggior responsabile, ha parlato sempre più frequentemente negli ultimi mesi della ri-semancizzazione dell'architettura che è uno degli aspetti evidenti della tendenza - come di una possibilità in fieri: «Questa ri-semantizzazione può essere completa in altri dieci anni, dato che oggi il consumo delle immagini è molto più veloce che ieri» (1981). Inoltre il succedersi di produzioni, di incontri e di pubblicazioni, restituisce l'immagine dinamica del post, anche se, per inciso, si dovrebbe essere ancora più cauti nelle definizioni, dato che di recente (1980) lo stesso Jencks ne ha coniata un'altra: quella di «latemodern». In un certo senso può essere più determinante una astrazione dall'ambito architettonico e un riferimento alle enunciazioni di Jean François Lyotard nel suo La condicion postmoderne (1979), che solo nel gennaio di quest'anno è stato pubblicato anche in Italia. Nella sua introduzione Lyotard fa due affermazioni che credo direttament~ riferibili alla comprensione del post-modernismo in architettura. A proposito della «condizione del sapere nelle società più sviluppate», Lyotard scrive: «Abbiamo deciso di chiamarla 'post-moderna'. La definizione è corrente nella letteratura sociologica e critica del continente americano. Essa designa lo stato della cultura dopo le trasformazioni subite dalle regole dei giochi della scienza, della letteratura e delle arti a partire dalla fine del XIX secolo». La seconda affermazione: «Noi non formiamo delle combinazioni linguistiche necessariamente stabili, né le loro proprietà sono necessariamente comunicabili». Va però doverosamente ricordato che l'inizio dell'architettura «postmoderna» si situa in anni antecedenti a quello della pubblicazione del testo citato. Jencks, nel suo The Language o/ Post-Modem Archicecture (1978), scriveva: «Fortunatamente siamo in grado di far risalire la morte dell'architettura moderna a una data precisa ... l'architettura moderna è morta a St. Louis, Missouri, il 15 luglio 1972 alle 3.32 pomeridiane (o giù di Il), quando il tristemente noto complesso PruittIgoe, o meglio parecchi dei suoi casermoni in calcestruzzo ricevettero il supremo colpo di grazia con la dinamite. Inprecedenzaessoera statovandalizzato, umiliato e sfigurato dai negri che lo abitavano e sebbene vi fossero poi stati pompati milioni di dollari nel tentativo di mantenerlo in vita (...) fu aiutato alla fine a uscire da)la sua agonia». Questo dunque potrebbe essere considerato l'atto di nascita ufficiale del post-modem, che, in quanto tale si vuole porre come contraddittorio alle tesi del Movimento Moderno - peraltro ancòra lontane da una verifica della loro complessità - i cui protagonisti sarebbero quei «fanatici seguaci di principi rigidi e meccanici, esaltatori della macchina, al servizio di una 'nuova oggettività' ed indifferenti ad ogni valore umanoll che, già nel '55, Walter Gropius ricordava nel suo discorso inaugurale alla Hochschule Fiir Gestaltung di Ulm. Ma se risaliamo poco più indietro del '72, della data in cui muore la «architettura moderna», troviamo negli anni '681'69 degli interessanti precedenti per quanto riguarda la formazione del pose. i riferisco in particolare al mo- M mento di infatuazione di alcuni architetti americani - principalmente Robert Venturi e Denise ScottBrown- per il paesaggiodella Strip di Las Vegas (R. Ventura, D. Scott Brown: «A significance for A&P parking los or learning from Las Vegas», The Architectural Forum, marzo 1968 e D. Scott Brown: «On Pop Art, Permissiveness and Planning», Joumal of the American lnstitute of Planners, maggio 1969). Un interesse di cui possiamo sintetizzare due momenti essenziali. Piero Tanca Da una parte, la critica al «modernismo»: «L'architettura moderna è stata tutt'altro che permissiva: gli architetti hanno preferito cambiare l'ambiente esistente piuttosto che non abbellire ciò che esiste» (R.V., D.S.B.). Dall'altra, attraverso una prima enunciazione di principio - «Las Vegas sta alla Strip come Roma sta alla piazza» (ib.) - l'amore per il caos del Casino di Las Vegas si traduce in una proposta di riferimento progettuale: «È l'unità che mantiene, ma mantiene appena, un .controllo sugli elementi che lo compongono. Il caos è molto vicino, la sua vicinanza, ma anche la sua lontananza, dà ... forza» (ib.). In questa proposta il nuovo emergerebbe dal caos dei simboli e dei «segnali» di Las Vegas. Ma a questa enunciazione di principio si associavano altri e diversi approcci ai paesaggi urbani;.,una dopol'altrainsegneelettriche con bicchieri di martini al neon accesi sopra ..., un posto splendido, un'epoca splendida ... un vero Rinascimento del Neon ...»; cosl Tom Wolfe nel suo «The electricKool-Aid Acid Test» (1969). Un termine, quello di «acid test» - in qualche modo lontano parente della scrittura automatica surrealista-, che rimanda al grande tentativo di ri-definizione del Il)ito - o del «sogno» - americano, cui non era estranea una ricezione/critica della scenografia urbana, soprattutto però in ambiti diversi da quelli strettamente progettuali in senso architettonico. Come, prima degli esperimenti aggregativi della musica «pop» (e miriferisco, ad esempio, agli MC5, nucleo del White Panther Party, ai Grateful Dead, ai Jefferson Airplaine, che collaboravano -1965- agli acid tests con Ken Kesey e, infine, ali' «assalto totale alla cultura» del dadaismo psichedelico <leiprimi Fugs), era stato nelrapproccio di Ginsberg al «Neon» e principalmente nel romanticismo di Jack Kerouac. «L'auto che sfreccia a splendida velocità accanto a quei cartelloni pubblicitari del cognac e negli intervalli le incredibili piccole casette di pietra con giardini alla francese di fiori e verdure tenuticon curasquisita...:. (J.K., Satori in Paris, 1966) e: «L'alloggio di Carlo nel seminterrato era in Grant Street in una vecchia casa d'affitto in mattoni rossi vicino a una chiesa. Ci si inoltrava in un vicolo, giù per alcuni gradini di pietra, si apriva una vecchia porta e si passava attraverso una specie di cantina finché si arrivava alla sua pòrta fatta di tavole. Pareva la.camera di qualche santo russo: un letto, una candela accesa, muri di pietra trasudanti umidità e una specie di icona dall'aria provvisoria che aveva fatto lui stesso» (J.K., On the Road, 1959). Se da un lato ritroviamo l'amore del nomade per il fisico «esterno», come, per cubisti e futuristi, era stato nei confronti della nascente città industriale, dall'altro l'espressionismo degliintemi rimanda alle proposte o realizzazioni «architettoniche» dadaiste: Scbwitters, J.T. Baader (Dewschlands Grosse und Untergang, 1920), R. Huelsenbeck (Ein Besuch im Cabaret Dada, 1920). Da qui alla ricettività dello spazio urbano dei surrealisti, il passo è breve (L. Aragon, Le paysan de Paris, 1926; R. Desnos, La Liberti ou I' Amour!, 1927; P. Soupault, liistoire d'un Blanc, 1927; A. Breton, Nadja, 1928 e L'Amour Fou, 1937). 11 rapporto dell'individuo con l'interno e con la facciata ritrova una nuova enfasi romantica nel postmodem. Lo spagnolo Ricardo Bofill, ad esempio, a proposito dei suoi più recenti progetti, parla della possibilità di ritrovarsi in spazi costruiti di elementi conosciuti, e per questo «nuovi». Vale a dire che - e questa è una delle asserzioni fondamentali del post - il prelievo e la giustapposizione di elementi stilistici del repertorio storico della architettura permetterebbe la realizzazione di una «nuova» realtà materiale, contro gli schematismi di un generico «modernismo». E se poi vogliamo rintracciare delle convergenze teoriche all'interno del post architettonico, dobbiamo riconoscere che queste si fondano, oltre che sui fattori detti, anche sul ritorno alle tradizioni delle Beaux Arts e, attraverso l'ammirazione per Disneyland, elevata alla mitologia di tendenza avanguàrdistica, sul recupero di processi costruttivi che dal collage dada, dal ready-made, riconducono alle esperienze pop e neo-dada, aJmeno. Ma il riferimento all'elemento ludico di dada-ricordiamo che l'idea della veneziana «Strada Novissima» nasce in un luna-park di Berlino - evidenzia però una contraddizione profonda del post architettonico: dada appartiene al «moderno». Lo stesso moderno che ancora nelle più recenti e significative iniziative congressuali degli architetti che si ri- - conoscono nel pose - come è stato nell'incontro a bordo del due aJberi «Svanhild» sul mare di Helsinki (agosto 1980)-, viene comunque identificato con gli elementi più canti-emotivi» e cuniformatori» di quella che in realtà non è stata che ima banalizzazione del Movimento Moderno, vale a dire l'«International Style», visto come imposizione della cultura autoctona statunitense. In questo senso là veniva sottolineato che il nuovo stile - che della definizione di un «nuovo stile» si trattava - ritroverebbe i suoi elementi costitutivi nelle abitazioni coloniali, come, allo stesso modo, nell'ambiente hollywoodiano. In questo credo si possa trovare l'essenza del pose in architettura; nella ricostituzione di frammenti ripresi - principalmente - dall'agglomerato socio-culturale degli Usa, una «camevalizzazione» dell'architettura, combinazione di cultura «bassa e alta», attraverso humour e ironia. E, ripensando alle citazioni da Lyotard, è probabile che una definizione di questa tendenza, più che a post, a late o a post-modem classicism, sia vicina a quella di neo romanticismo nazionale.

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