---- chiave alla fine di un lungo accumulo di segni apparentemente privi di tensione figurale. Ciò che caratterizza il testo letterario è invece il dinamismo tipico di tale procedimento, che non agisce soltanto retroattivamente su ciò che precede, ma anche proiettivamente su ciò che segue». Se si passa alla narrativa alcune cose cambiano. Si presentano problemi diversi da quelli affrontati da Bertinetto in ambito poetico. Il livello letterale si complica: da una parte la letteralità può essere data dal discorso del narratore, dall'altra dal piano pragmatico del racconto, cioè da ciò che succede realmente nel racconto. Todorov ha fondato il genere fantastico (10 ) proprio sull'incertezza fra piano dell'étre e piano del paraitre. A partire dalla letteratura romantica c'è poi un ritirarsi del racconto nella sfera della soggettività, l'accadere esterno è metafora di quello interno, il ruolo del narratore e i suoi atteggiamenti proposizionali (credenze, sogni ecc.) non sono distinguibili al cento per cento dagli atteggiamenti proposizionali dei protagonisti. Todorov porta come èsempo, fra gli altri, un autore che è particolarmente abile a creare simili culs de sac per il povero analista del testo: si tratta di Gérard de Nerval, di cui considera il più delirante dei racconti, Aurélia. Qui le follie, le allucinazioni del protagonista non trovano mai né conferma né smentita da parte del narratore e siamo dunque all'interno del fantastico secondo la definizione data. In un altro racconto di Nerval, Sylvie, si esce invece dal fantastico nel momento in cui il piano dell'étre diventa interiore annullando la pertinenza di quello esteriore. Cosi quando il protagonista ricorda la rappresentazione sacra di Chlìalis in cui vide per l'ultima volta Adrienne vestita da angelo, non sappiamo se quest'ultimo personaggio, o attore, sia «reale> o se sia uno spettro che funesta i sogni di Gérard. È un personaggio fictional che fa parte dell'ontologia interna al raccoQto (universo pragmatico di Greimas) o è metafora di un problema psichico e sentimentale di Gérard (universo mitico)? Oltre tutto si potrebbe notare che Sylvie è un racconto che disdegna la metafora intesa tradizionalmente: solo nel primo capitolo si parla di ideesempre giovani, di torre d'avorio dei poeti ecc. La non congenialità di questa figura deriva dal fatto che è il letterale ad essere suscettibile di una lettura metaforica in questo racconto e non viceversa. Sono le cose e le persone che vengono interrogate perché parlino di altre cose e di altre persone. La metafora che si gioca a livello verbale è sentita come stereotipo e, in quanto tale, altrui. Naturalmente questo vale solo per la prosa nervaliana e in particolare per Sylvie che sfrutta il procedimento metaforico del correlativo oggettivo piuttosto che quello allegorico. Abbiamo visto dunque che si aprono due prospettive, entrambe dense di problemi. Da una parte si può studiare la metafora come se fosse un testo e in questo caso un altro testo, virtuale, viene costruito a partire dalla metafora che ne costituisce un «condensato>. Dall'altra si può analizzare un testo vero e proprio nella sua funzione metaforica e questo comporta un'analisi molto più complessa di una semplice ricognizione dell'enciclopedia. ote 1) Gruppo µ, Retorica Generale, Milano, Bompiani 1976, p. 180 2) U. Eco. Trattato di semiotica generale, Milano,Bompiani 1975cap. 2.12 3) Urie! Weinrich, Explorations in Semantic Theory, Mouton, Tbe Hague 1972 4) Per un'ampia trattazione dei concetti di topic, frame e isotopia si rimanda a U. Eco, Lector in Fabula, Milano, Bompiani 1979 5) S. Freud, Opere, Torino, Boringhieri, voi. m, p. 312 6) F. Fornari, / fondamenti psicanalitici del linguaggio, Torino, Boringhieri "1979, p. 293-294 7) Harald Weinrich, Metafora e menzogna: la serenità de/I'ane Bologna, Il Mulino 1976 8) S. Freud, op. cù., p. 282 9) Harald Weinrich, op. cir. 10) Tzvetan Todorov., La letteratura fantastica, Milano, Garzanti 1977. Rilkeu, nrespi~t.,i'1toranlnoulla Rainer Maria Rilke Lettere a un gionne poeta Milano, Adelphi, 1980 pp. 141, lire 3.800 Rainer Maria Rilke, Lou AndreasSalomé Correspondence Paris, Gallimard, 1979 pp. 494, Fr. 75,60 circa l.{Cantare è in verità un altro re- '1 spiro. / Un respiro intorno al nulla. Un soffio di Dio. Un vento>. Che cos'è, dunque, cantare? Di che cosa è fatta la voce del poeta? Che cosa ne sostanzia il suono? Su questa domanda, durata il lento spazio di una vita, Rilke affatica il suo delicato corpo di poeta, fino a che la produzione delle Elegie e dei Sonetti a Orfeo non sopraggiunge, infine, ad allentare l'insostenibile tensione, aprendolo all'incontro con la morte. Come se Elegie e Sonelli placassero il chiedere con una prima. suadente risposta. «Gesang ist Dasein». Ma la co'mposizione organica della materia poetica mal sopporta risposte. Poesia è una domanda che apre altre domande, inscrivendosi nel cerchio inconcluso della parola aperta, e Rilke arriverà a dire - parlando delle Elegie al suo traduttore polacco-« Esse vanno infinitamente al di là di me stesso». «Qui, caro amico. io stesso oso dire appena qualcosa... Da dove cominciare? E sarò proprio io quello che potrà dare una esatta interpretazione delle Elegie?». Rilke sembra non costituire eccezione a quel carattere di autointerrogazione e di autoriflessione che accompagna la poesia moderna. In un saggio del 1951, Problemi della lirica, Gottfried Benn ravvisa nella lirica moderna - da Mallarmé in avanti- un tratto essenziale: «La contemporaneità dell'attività poetica e di quella introspettivo-critica», la fratellanza di «lirica» e «saggio», di «composizione poetica» e di «teoria della composizione». «I lirici moderni- dice Benn -ci offrono addirittura una filosofia della composizione e una sistematica della creazione». Di questa interrogazione sul far versi - non sistematica, ma continua e appassionata - Rilke fa la cifra del proprio esistere, trascorso in un nomadismo del discorso poetico, facendo linguaggio sul linguaggio stesso della poesia, aprendo su di essa una domanda fonda che non tollera rimarginazione. L'interrogazione eccede i confini del verso, e si stende nelle infinite scritture di cui s'intrama il corpo del poeta. Di tutto il vastissimo - a volte debordante - epistolario rilkiano, si possono fissare due tracce, a testimonianza lucente di questa riflessione sulla verità vagabonda del poetare. Il ciclo breve delle Lettere a un giovane poeta sembra offrire limpidissime indicazioni a chi, più giovane e inesperto, si affaccia alla domanda «debbo creare?». Con la veggenza nitida del vate, egli indica la strada, suggerisce, offre illuminazioni. Sembra, la sua, una voce che giunge da sapienti distanze: «Egregio Signore ... », «Voi domandate se i vostri versi siano buoni ... Penetrate in voi stesso. Ricercate la ragione che vi chiama a scrivere; esaminate s'essa estenda le sue radici riel più profondo luogo del vostro cuore ... » Una voce di maestro che indica l'approdo a chi ancora si affanna per via: «Confessatevi se sareste costretto a morire, quando vi si negasse di scrivere. Questo anzitutto: domandatevi nell'ora più silenziosa della vostra notte: devo io scrivere?». Ma nell'Epistolario con Lou Salomé - la donna amata, più di ogni altra, tutta una vita - il padre e maestro si rivela discepolo inquieto, figlio sofferto, «debuttante della vita». Tutte le lacerazioni del cercare non vengono, qui, taciute. Le febbri di chi non trova ancora. chiedono costante cura. Nell'amoroso «corrispondere» con Lou - «il solo legame che mi connetta al mondo umano» - Rilke esplora le profondità e le vette dell'interno e dell'esterno, in spasmodica approssimazione al poetico. Maestro e figlio, amante e padre, balbettante nel dire per in-fanzia o per impotenza della lingua: incerta è la figura del poeta. M a che cos'è, dunque, cantare? Quale sortilegio si insinua nel linguaggio, a far si che le parole che lo intessono divengano canto? Ascoltiamo i versi rilkiani. «Non più supplica, o voce che mi sfuggi,/non sia supplica la natura del tuo grido». Essi ci dicono l'assoluta gratuità del canto. «Ecco, esaltare! A esaltare egli venne,/ sgorgò cosl come sgorga dal muto/ sasso il metallo ...>. Essi ci mostrano che nessuna «ragione» li sostiene. «Il canto che tu insegni non è brama, I non è speranza che conduci a segno>. Non méta, non patria, non riposo attende il canto del poeta. Il suo errare «in nessun dove> attraversa lo spazio della necessità della lingua - dato che bisogna pur «nominare» le cose -, ma non vi indugia e non se ne appaga. Lo trascende, lo eccede. dicendo quel!' «in più» che il linguaggio della comunicazione non contempla. «Forse noi siamo qui per dire: casa / ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutti, finestra, / al più: colonna, torre ... Ma per dire, comprendilo bene / oh, per dirle le cose così, che a quel modo, esse stesse, / neil'intimo, / mai intendevano d'essere». Dar nome alle cose, ma per dire ciò che in esse è nascosto, «invisibile». Nominare il silenzio delle cose. Nell'estenuazione intorno a questo esercizio, nel voler dare voce chiara al mormorio indistinto degli oggetti, si produce la lacerazione profonda del poeta («Wir sind nicht einig>), il frantumarsi della sua voce fino alle .sogliedell'inarticolazione, dell'afasia (fino al non-pòter-più-dire di Lord Chandos). Poiché c'è un linguaggio della necessità, della adeguazione del nome alla cosa, in cui «il dire - scrive Heidegger - funge semplicemente da via e da mezzo>, di cui il poeta si deve pur contaminare. Ma accanto a questo, «di contro a questo dire - ancora Heidegger- ne esiste però un altro, che accede esplicitamente al detto ... L'entrata in ciò che vien detto caratterizza un dire che persegue ciò che è da dirsi esclusivamente per dirlo>. Esclusivamente per dirlo. Senza scopo, dunque, e senza causa. Senza movente e senza impiego, ma per una sorta di eccedenza interna al dire stesso. Il «nominare> del poeta eccede il rapporto tra nome e cosa, ne sovrasta l'intima ragione, va oltre. In ciò il linguaggio poetico si espone al «rischio>. Nel porsi in quel tratto che congiungedisgiunge la parola piena e la parola vuota, la realtà della cosa e il miracolo in essa custodito, la parola del poeta mette in gioco la sua stessa natura di linguaggio. Qui il linguaggio - non comunicazione, né informazione - è pura testimonianza di sé. Esso dice se stesso. E dunque, la poesia dice il sé del linguaggio. Essa si rivolge a un «nessun dove>, a un luogo deserto, a quello che Lacan chiama l'cal di là> della parola cui si rivolge il soggetto parlante. Il soggetto che parla lancia un appello «al di là> del vuoto del suo dire. Abbiamo parlato di eccedenza. Lacan parla di ridondanza. Ciò che è ridondante nel linguaggio dell'informazione è precisamente ciò che nella parola ha funzione di risonanza, di evocazione, di invocazione. Ogni parola chiama risposta, dice Lacan, e non c'è parola senza risposta, anche se non incontra che il silenzio. Nell'invocazione, l'attesa della risposta rimane attesa. Null'altro. Disvelando, cosi, il modo stesso del linguaggio, la sua più segreta disposizione. Poesia è parola in eccesso a se stessa, parla in pura perdita, che rischia ogni volta di smarrirsi in quel nulla cui non cessa di alludere. La ragione smarrita della parola poetica si sottrae al ritrovarsi puntuale della parola che ragiona. Scrive Blanchot, in un saggio bellissimo su Rilke: «Parlare è allora trasparenza gloriosa. Parlare non è più dire, né nominare. Parlare è celebrare, e celebrare è glorificare, fare della parola una pura consumazione irradiante, che dice ancora quando non vi è più niente da dire, che non dà nome a ciò che è senza nome, ma lo accoglie, lo invoca e lo celebra, unico linguaggio in cui la notte e il silenzio si manifestano senza rompersi né rivelarsi>. Il canto del poeta è parola che celebra. che loda. Non che essa non veda che «sempre più vengono a cadere le cose da vivere>, sempre più ardua è l'amicizia per le cose. Il canto conosce la lode non per un travisamento del reale, o per buona speranza di un altrove migliore, o per un tenero indulgere alla nostalgia del perduto. Semplicemente, non risponde alle domande della ragione, ma risponde, in segreto, a una dÒmanda segreta che esso solo conosce. e Dimmi, poeta, che cosa fai. - Io celebro./ Ma il mortale e il mostruoso, I come li sopporti, come li accogli? - Io celebro./ Ma ciò che è senza nome, l'anonimo/ come, o poeta, puoi invocarlo?- Io celebro./ Dove prendi il diritto di essere vero/ in ogni veste, sotto ogni maschera? - lo celebro./ E come possono conoscerti il silenzio e il furore, / e la stella e la tempesta? - Perché io celebro>. lo celebro. Risposta che elude la precisione dell'interrogare. Gli si colloca silenziosamente a lato, ne favorisce l'incalzare. Sembra rispondere tacendo. Scarta con innocente sapienza da ipotesi già tracciate, e inventa un sentiero nuovo, forse soltanto già sognato, ma intransitabile a chi non ne conosca il segreto. Celebrare è il mestiere del poeta. «Un respiro intorno al nulla>; in cui respiro è il desiderio che schiude le porte del canto dentro il cuore, e il nulla è quel «nessun dove> in cui il desiderio non si acquieta, ma continua nel suo attraversare. eIl poema è l'amore realizzato del desiderio rimasto desiderio>, dice René Char. E Rilke insistentemente propone, per le pas- -sioni del poetare, metafore strettamente attinenti le passioni d'amore. «E in verità l'esperienza artistica è cosl
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