... abbia lasciato· nelle sue «vere» lettere, è una impietosa descrizione dello squallido perbenismo della società del tempo; della soffocante tediosità di una vita di provincia ch'ella trascorsesappiamo dal nipote - scrivendo pazientemente in una stanza di soggiorno _affollatadi bambini. A colmare questa lacuna intervengono però, puntualmente, i romanzi epistolari che Jane Austen scrisse tra i quindici e i diciotto anni: Amore e amicizia e Lady Susan. È proprio da questo ritratto scanzonato ma terribilmente veritiero della società del tempo che noi veniamo a conoscere gli eterni tics di una eterna, piccola, gretta borghesia nella quale però già covano sotto la cenere i germi della ribellione. Prima fra tutte, la ribellione al Padre, alla quale i vari personaggi si esortano l'un l'altro, soprattutto in tema di scelte matrimoniali: «La circostanza stessa che fosse anche la scelta del Padre, era talmente a suo sfavore che ... questo in se stesso doveva essere motivo sufficiente, agli occhi di Janette, per respingerlo». E più in là, dopo la vittoria: «È il mio vanto più grande essere incorso nel disappunto del Padre!» R icorrendo ad uno humor calibrato e truffaldino, e celandosi nelle - lettere che Laura spedisce a Marianne, la Austen ci svela ad esempio l'insipido ventaglio di esperienze che potevano costituire il Bildungsroman delle sue coetanee più fortunate: «Isa-· bella aveva visto il mondo. Aveva trascorso due anni in uno dei primi collegi di Londra, aveva passato due settimane a Bath e una sera aveva cenato a Southampton». E non manca di lanciare - lei appena giovinetta - una polemica frecciata contro certa scadentissima letteratura: «Dove, Edward, per tutte le meraviglie (disse lui) hai imparato questo inarticolato linguaggio incomprensibile? Tu hai studiato i Romanzi, sospetto». Amore e amicizia, dunque. Ma di quale amicizia, di quale affetto si parla? Solo di quello che nasce nell'ambito di pettegolezzi appena sussurrati, di confessioni (tra amiche del cuore) soffocate nel salotto di casa. su quei divani ove, al minimo patema, si accasciano Laura e la sua amica: «Era troppo patetico per le emozioni mie e di Sophia; svenimmo alternativamente su un Sofà». La protagonista del più complesso e maturo Lady Susa11, è perfetta calcolatrice e simulatrice al pari della Moli Flanders di Defoe; nelle lettere all'amica, è lei, Lady Susan/Austen, che ci offre uno spaccato di verità sui problemi educativi concernenti ogni giovinetta di buona famiglia: «Esser padrona di Francese, llaliano, T~desco, Musica, Canto, Disegno ecc., conquisterebbe qualche applauso a una Donna, ma non aggiungerebbe un solo amante alla sua lista». Le affermazioni rivelatrici contenute nei romanzi epistolari della Austen scompaiono puntualmente sotto una patina di grigia «normalità» nell'epistolario di Charlotte Bronte. La sua vita di reclusa viva tra immobili ed invalicabili colline, nella casa di un padre caparbiamente immortale, non traspare quasi mai dalle sue lettere. on è possibile cogliere alcun accenno della sua insofferenza o alcun barlume della sua autocoscienza di donna e di scrittrice, in frasi opache come questa: «talvolta, mentre insegno o lavoro di cucito, preferirei leggere o scrivere. Ma cerco di reprimermi, e l';'pprovazione di mio padre mi ha sempre ripagata ampiamente della rinunzia». elle sue lettere, Charlotte riesce ad essere meno sfuggente e più precisa solo se oggetto di discussione sono dei romanzi,delle finzioni, createda scrittori a lei precedenti o contemporanei e di cui ella è venuta a conoscenza. Charlotte ci parla del sottobosco editoriale londinese, si lancia in acuti giudizi su Jane Austen, Thackeray, Balzac, George Sand; ma quanto a se stessa - Charlotte Bronte - nulla o poco ci è dato apere dei suoi «amori e amicizie», dei suoi turbamenti, delle sue aspirazioni o delusioni, al di fuori di qualche asciutto resoconto. Per il resto Charlotte si avvolge, come un baco da seta, im un sottile filo di menzogna. Mente quando assicura ai suoi interlocutori che non scriverà più opere di narrativa per dedicarsi solo all'insegnamento. Mente pure all'amica Ellen Nussey (con cui la Bronte ha un insondabile rapporto affettivo nato sui banchi di scuola): quando Ellen vorrebbe spingerla a scrivere più diffusamente di sé, Charlotte risponde: «Insisti nel dire che dovrei scrivere di me. La cosa m'imbarazza molto, perché non ho nulla d'interessante da dire su ihe stessa». E su se stessa ed il proprio stato di salute dirà talmente poco che la notizia della sua morte di «consunzione», comunicata dal marito ad Ellen Nussey, lascia il lettore piuttosto scosso. Organizza poi con cura una colossale menzogna sulla suà stessa identità (complici le sorelle) quando assume lo pseudonimo letterario di Currer Beli, e non svela il suo vero nome neppure all'editore, se non quando sarà costretta dagli avvenimenti. Ciò che nelle lettere non c'è, non esiste, è la Charlotte che ritroviamo invece nelle pagine romanzesche di Villette e soprattutto di lane Eyre; romanzi, appunto, anche se non epistolari. Insomma, finzioni. Solo nelle avventure apparentemente fittizie delle protagoniste da lei create è possibile ritrovare la vera Charlolle, il suo contesto, il suo tempo: la sua passione - e soffocata - per Monsieur Héger; la masochista pruderie di navigate istitutrici; le sadiche punizioni corporali - tanto care all'età vittoriana-che quasi sicuramente ella subì a scuola oppure inflisse, più tardi, alle sue scolarette; la follia del proprio alter-ego impersonalo da Bertha, la pazza suicida. Ma è solo più tardi, con il quieto sigillarsi e perdurare del vittorianesimo, che la Lellera rischia di divenire interamente finzione, tentazione continua verso la metascrittura, e111ertai11ment. Laddove - come nel caso di Virginia Woolf e di Lyllon Strachey - la raffinata consapevolezza intellettuale e l'allucinato intuito narrativo sèoprono e sconvolgono le regole del gioco («è i villoriani che io odio, non il diciannovesimo secolo», scrive Lytton), pure, il gioco continua. In una Inghilterra in cui qualcosa, malgrado tulio, sembra muoversi - se pur con la lentezza con cui i rintocchi d'orologio segnano le metamorfosi di Orlando - la Lellera si fa volutamente parodia, maschera ingannevole di un volto che si vorrebbe non esistesse più. E allora Virginia Woolf si abbandona al fascino della Letterarietà, assecondata in questo da Lyllon Strachey che, anzi, tiene le redini di un gioco in cui lei, talvolta, potrebbe immedesimarsi troppo. lf epistolario Woolf-Strachey ci dà l'ebbrezza che i vari volumi di lettere di Virginia Woolf non potrebbero mai darci. Laddove infatti Il volo della me111e racchiude - è inevitabile- de.i messaggi a senso unico, dei monologhi forzati, le risposte di Lytton Strachey, ricollocate invece al loro posto come le tessere di un mosaico restaurato, ricompongono il cerchio magico del dialogo, dànno corpo alla fantasmagoria del gioco, ne tradiscono le mosse. «Dispongo di un soggiorno, che in fondo altro non è che la stanza da pranzo», scrive la Woolf dalla Cornovaglia, «con una credenza, un'ampolliera ed una biscottiera d'argento. Scrivo seduta al tavolo da pranzo dopo. aver sollevato un angolo della tovaglia, e avere spinto più in là un mucchio di piccoli vasetti d'argento, pieni di fiori. Potrebbe esser tale e quale, l'inizio di un romanzo di Galsworthy... » LyttonStracheyincassa,sornione, questa piccola, scoperta sfida letteria, e risponde il giorno seguente con una seriosa descrizione - tanto poco vittoriana - del suo raffreddore: «Ieri son rimasto rintanato qui tutto il santo giorno, e ci resterò tutto oggi, e sicuramente domani, e magari per i secoli dei secoli, raggomitolato sulla stufa a gas, a imprecare mentre mi gocciola il naso e a bere chinino. Questo sembra proprio il finale di un romanzo decadente francese ...» Ma la Woolf, imperterrita, incalza: «Questo pomeriggio sono rimasta appollaiata per un'ora (o magari son passati solo 10 minuti) su di uno scoglio, a pensare in che modo si potrebbe descrivere il colore dell'Atlantico ... Ho raccolto un ramo tutto fiorito di bianco, ieri, e le ho chiesto di dirmi cos'era, Biancospino, m'ha dello. Non so perché, pensavo che il biancospino fosse rosa ...» Ma a questo punto, il divertito «gioco-ferma» di Lytton: «Le tue descrizioni mi son sembrate un po' troppo letterarie; tutte quelle ginestre - sei sicura che sia gialla, la ginestra?- e tutti quei biancospini che avrebbero dovuto essere rosa, e l' Atlantico ... Insomma, cara la mia signorina Stephen, io non credo a una sola parola di quello che dici...» Dunque la Lettera si fa ammiccamento; si spiega, si arriccia, si curva su se stessa come una chiocciola. oi ci troviamo all'inizio esterno del camminamento, della spirale; procediamo in avanti, ma sappiamo che questo percorso è cieco, perché porta a quel punto interno della spirale in cui il cammino apparentemente finisce. Ed è così. Però il vero destinatario, e il vero significato della Lettera, stanno oltre il cuore della chiocciola. «Nelle sue lettere ella inventa, certamente» dice Clive Beli, «talvolta lo fa per divertimento, e ben sapendo che il suo interlocutore epistolare non le crederà>. Il gioco della Lettera diventa qui gioco della scrillura; e comunque, al di là del puro divertimento, la le11erarie1à dell'epistolario di Virginia denota spesso la sua sottile insicurezza, il suo tìmore- fin troppo scoperto-di essere «meno brava» di Lytton, l'intellettuale di Cambridge. Virginia, come ben sapeva Leonard, sta sempre vigile, in guardia, tesa a mostrare il meglio artistico di sé anche in un biglietto d'invito per un concerto, e comunque per lei, che aveva deciso già nella fanciullezza di diventare una scrillrice, nulla era più difficile che scrivere una lettera_ «vera», nonfictional, non «sollo mentite spoglie». È infatti la Woolf che lancia e sostiene con gioia la proposta di dar vita ad un «carteggio-romanzo epistolare» tulio inventato in cui l'intero gruppo dei loro amici avrebbe cambiato la propria identità: Lyllon sarebbe divenuto Vane Hatherley; Virginia, Eleanor Hadyngs. Finzione completa, dunque; in cui finalmente e puntualmente, però, si può dire tuua la verità. on appena la Lettera si fa romanzo epistolare, Lytton vuota il sacco, e smashera l'affettuoso flirt che Eleanor Hadyngs (Virginia) sta intessando con James Philips (il cognato di Clive Beli): «Ai miei occhi innocenti è parso di notare che ella [Clarissa, alias la sorella Vanessa] stia vegliando sul caro James con più premura del solito...» E Virginia, seccatissima ma sincera: «E così Lei se n'è accorto, vero? Maguarda un po' com'è furbo, Lei, e com'è callivo». Fino alla fine, fino all'ultima lettera cui Lytton Strachey, ormai morente, non poté più rispondere, Virginia Woolf si chiude in una sua chiocciola tulla inventata, si nasconde in un sogno, per comunicare con il sogno di morte di Lytton: «Mi son destata dopo averti sognato ... mi trovavo a teatro, in platea, e all'improvviso tu, che eri seduto al di là di un corridoio, in una delle prime file, ti sei girato, hai guardato verso di me, e insieme siamo scoppiati a ridere convulsamente ... Comunque questa è una lettera di sogno, e non chiede risposta, a meno che tu non sappia dirmi perché ridevamo>. 11sogno, l'invenzione, la realtà. Ma cos'è la realtà? E dov'è la realtà del .vittorianesimo, quella di Amore e amicizia della Austen, quella di lane Eyre della Bronte? È tutta custodita in Ermyn1rude e Esmeralda, breve e raffinato romanzo epistolare, piccolo capolavoro di Lytton Strachey. Proprio attraverso le lettere jic1ional che le due giovani amiche si scambiano con crescente, convulsa velocità, ci viene offerto uno spaccato fedelissimo di questa immortale Inghilterra vittoriana, con i suoi padri inflessibili (in fondo non tanto lontani da sir Leslie Stephen); con le sue madri oppressive (forse non molto diverse da Lady Strachey); ricca di decani vacillanti nella fede e pullulante di istitutrici sempre pronte ad una silenziosa lussuria. Ecco un ritratto fedele delle sane famiglie di una volta, dalle quali il sesso era bandito - eccezion fatta per maggiordomi e pulzelle o per fratelli intraprendenti stile Gerald Duckworth - e in cui del tulio sconosciuta era l'omosessualità - eccezion faua per istitutori e scolari. Dove insomma tulio filava come Dio comanda; ma solo alla superficie di un lagheuo nelle cui acque profonde Ermyntrude e Esmeralda hanno tulio l'agio di sperimentare con succulenta voracità, e di registrare con la pignoleria di un amanuense, il misteriosissimo codice del sesso. Fino in fondo. Fino alla fine; quando, però - passata la tempesta dell'iniziazione, di cui il vittorianesimo non potrebbe mai ammeuere l'esistenza - tutto riprecipita nella banalità oleografica dell'inizio. ella sua ultima lettera ad Ermyntrude, Esmeralda comunica che sposerà presto «il più gentile, caro, coraggioso, meraviglioso uomo del mondo ... Ha detto che io sarò la sua beneamata moglie e la madre dei suoi figli, e che mi insegnerà a diventare una perfetta regina nell'ambito del focolare e della femminilità. Non è splendido?» A ben vedere, dunque, questo «veritiero» romanzo epistolare non si distacca molto, negli intenti, dal ben più complesso e poderoso Emi11e11V1ictorians, la cui stesura ha inizio proprio un mese dopo che Ermyn1rude e Esmeralda era stato dedicato all'amato Henry Lamb. Invenzione, realtà. E nuovamente invenzione, nell'epistolario di Sylvia Plath curato postumo dalla madre. La Plath non ebbe mai uno Strachey che la smascherasse, ammiccando, ogniqualvolta ella tesseva intorno al suo corpo e alla sua mente vacillante una chiocciola di seta. Perché questo era il volto lucente e senza i chiaroscuri dell'incertezza e della contraddizione che Sylvia Plath mostrava agli altri, soprattuuo alla madre. Perché, per un allucinato gioco di specchi, era questo il volto che la madre «richiedeva» che la figlia le mostrasse. E allora tocca a noi smascherare la menzogna, rintracciare il bandolo della matassa e srotolarla fino a ritrovare la vera Sylvia Plath e ricomporre il suo sei[ diviso tra jic1ion e realtà. tra salute e malauia mentale, tra ciò che lei è e ciò che gli altri vogliono che lei sia. Già la splendida avventura dello Smith College, l'Università che ella può frequentare grazie a vari aiuti finanziari, si trasforma per lei, ancora inconsapevolemnte, in una sorta di trappola della gratitudine. La sua personalità comincia a scindersi: deve esser grata a tulli coloro che l'aiutano, quindi deve necessariamente essere una siudentessa modello, deve acquisire tuui i codici comportamentali della tipica «ragazza da Smith College»: avere un ragazzo per il week-end, e amiche del cuore con cui confidarsi; ammirare alla follia i professori assisi nell'aula magna e trovare favoloso il cibo della mensa. Le leuere del 1950, primo anno allo Smith, sono intessute di frasi come queste: «Non posso ancora credere di essere una ragazza dello Smith!>; «se solo potessi, senza strafare, seguire tulli i corsi con profitto, sarei al settimo cielo>; cnon posso neppure sopportare l'idea di essere mediocre>. L'anno dopo, Sylvia Plath comincia già a vacillare; sente di avere scelto dei corsi sbagliati, si consiglia con lo psicologo del college; comincia ad interrogarsi- essendo passata per caso vicino al nosocomio di Northampton - so ci morivi e le circos1an;.e che spingono la gente ad auraversare il confine tra la ragione e la pazzia>. 11 1953, l'anno di New York, della crisi, del tentato suicidio, del ricovero in clinica, è l'anno cruciale che segna il definitivo scindersi delle due Sylvie: da un lato la Sylvia delle leuere, di nuovo rosee e incantate; la Sylvia «perfettamente ristabilita>, affeuuosa con tutti, reinserita nella tediosa routine quotidiana (ma che sceglie poco dopo, significativamente, di laurearsi con una tesi sulla figura del «doppio> in Dostoevskij). Dall'altra, la Sylvia jic1ional: quella delle poesie, che per prime risentono dell'inferno mentale attraversato (« ... giungiamo a casa per trovare/Un'altra metropoli di catacombe I Eretta sulle corsie della nostra mente»). E quella del romanzo La campana di ve1ro, la cui genesi si pone in questi anni e che uscirà solo nel 1963. È nel romanzo, in cui Sylvia si nasconderà sotto mentite spoglie (lo pseudonimo di Victoria Lucas), che salterà finalmente fuori tuua la verità su New York, sul suo crollo mentale, sull'esperienza degli eleuroshocks, sul suo desiderio di morte. Detta la «verità» nel suo romanzo, Sylvia sa che non è più necessario vivere, né continuare a scrivere leuere alla madre: dopo pochi giorni si uccide. Ma in questo lungo decennio di preparazione alla morte - I 953/63 - e di distacco dalla figura materna, sulle sue leuere cala una coltre sempre più spessa di finzione, di piccole menzogne, di fitta incomunicabilità con la madre: «Ho trascorso una vacanza estenuante di_cuiho confidato alla mamma solo gli aspeui migliori>, dice al fratello Waren. E mentre le leuere alla madre si fanno sempre più docili, tranquille, piene di baci finali quasi impersonali, Sylvia Plath scrive poesie sempre più profonde e allucinanti, e confessa a Warren: «In ogni caso a te posso parlare liberamente dei nostri progetti, se con la mamma non lo posso fare». E più in là: «Una cosa che alla mamma non abbiamo dello, per ovvie ragioni... >. Il suo io, scisso, non ha più la forza di ricomporsi. Ma è grazie a questo che Sylvia Plath si rende conto di poter vivere. di essere finalmente se stessa. Le sue leuere diventano sempre più un componimento retorico perfeuo, sempre più distante da quella realtà che invece si inserisce prepotentemente nelle poesie, e nel manoscriuo del suo romanzo in fieri. Alla fine, il terrore primo di non potersi più «ricongiungere» alla madre diventa rifiuto di ricongiungimento. Sylvia non vuole che la madre venga in Inghilterra, che la veda, che stia con lei e i suoi figli. « on ho la forza di vederti>, le dice, e tre giorni dopo scrive al fratello: eSpero che tu riesca con tallo a convincere la mamma, Warren, che non dobbiamo incontrarci per almeno un anno». Passano altri tre giorni, ed ecco un'altra lellera alla madre: e Psicologicamente sarebbe la cosa peggiore vederti adesso». Ormai il distacco si è compiuto. La campana di ve1ro ha visto la luce da meno di un mese e quindi non c'è più nulla da dire. ell'ultima lettera alla madre, scriua una seuimana prima del svicidio, e che comincia con cCara mamma, grazie mille per le tue lettere», e finisce con «tanti baci a tutti», si ristabilisce l'incomunicabilità, si riannoda il filo della menzogna. Anche rultimo messaggio della Plath è una «leuera di sogno». come l'ultima della Woolf a Lyuon Strachey; e quindi, non chiede risposta. Anche in questo, la Lettera ha finalmente vinto sul suo stesso mito.
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